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domenica 31 gennaio 2016

Usa 2016: ritratto; Bloomberg un miliardario 'illuminato' per la Casa Bianca

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/01/2016

Quando venne eletto la prima volta sindaco di New York, battendo il democratico Mark Green, Michael ‘Mike’ Bloomberg aveva al suo attivo un patrimonio stimato a quattro miliardi di dollari, ma nessuna esperienza politica né di Amministrazione della cosa pubblica: era un uomo d’affari, capace di creare dal nulla un enorme impero mediatico; e di disfarsene, nel segno della trasparenza.
Se quest’anno diventasse presidente degli Stati Uniti, sarebbe il più ricco nella storia - per Forbes, è il 14° uomo più facoltoso del pianeta, mentre quel ‘poveraccio’ di Donald Trump è soltanto 72°-, e avrebbe nel suo background 12 anni alla guida della città assurta a simbolo del nostro mondo.

Bloomberg divenne sindaco il 6 novembre 2001: neppure due mesi prima la Grande Mela era stata colpita dall’attacco terroristico più devastante mai condotto sul territorio degli Stati Uniti, con quasi 3000 vittime nel crollo delle Torri Gemelle, al World Trade Center. Succedeva al sindaco ‘law and order’ Rudolph Giuliani, un ex capo della polizia divenuto da sceriffo eroe nel giorno più tragico.

Magnate dell’editoria e dell'informazione finanziaria, ebreo, allora 59 anni, Bloomberg aveva puntato la sua campagna sullo slogan ‘Un leader, non un politico’, che sarebbe ancora valido, tagliando l’erba sotto i piedi a neofiti aggressivi come Trump e Ben Carson, e sulla sua capacità imprenditoriale di risollevare le sorti d’una città colpita nel morale dagli attentati e alle prese pure con una grave crisi economica e occupazionale.

Il 1° gennaio 2003, il giorno dell’insediamento, andò al lavoro in metro –e continuò poi a farlo-, facendo scalpore: “New York è sicura ed è aperta al business”, proclamò, rinunciando ad abitare nella residenza ufficiale, ma comprandosi in primavera una villa alle Bermuda – suo vicino era Silvio Berlusconi -.

Il suo percorso politico, con due successive rielezioni ottenute a mani basse, seguiva una carriera nel mondo della finanza cominciata nel 1981 alla Solomon Brothers, dopo una laurea di prestigio alla Harvard Business School. Incassato il primo milione di dollari prima d’avere quarant'anni, Bloomberg lasciò la Salomon con una buonuscita di 10 milioni di dollari e fondò la 'Bloomberg Lp'.
L’agenzia di stampa, nata economica, ma con attenzione all’informazione politica e generalista, s’impose in fretta come una nuova aggressiva realtà nel panorama dell’informazione americana e mondiale: Bloomberg capì subito l’impatto delle tecnologie e di internet, abbinò all’agenzia una tv e sbarcò in Europa con una rete di alleanze. Tra il 1995 e il ’96, negoziò e chiuse accordi con Ansa, Afp ed Efe – a Roma, il suggello furono un convegno a San Michele a Ripa nel gennaio del ’96 ed un ricevimento a Palazzo Taverna -.

Franco al punto di essere rude, diretto, raramente simpatico, poco incline al sorriso, Bloomberg scriveva, nel 1997, in una sua precoce autobiografia, che la politica non gli interessava. Ma poco dopo divenne invece chiaro che il salto l’attirava.

Nonostante manifeste inclinazioni democratiche, nel 2001, trovando lì la strada sbarrata, si candidò per i repubblicani e investì nella campagna 150 milioni di dollari: così, la Grande Mela, che pure è una metropoli democratica, ebbe per cinque mandati consecutivi un sindaco repubblicano – due Giuliani, tre Bloomberg: non era mai successo -. Mike s’è però man mano allontanato dal partito e dal 2007 si colloca come indipendente: l’ex sindaco è favorevole l controllo delle armi e ha posizioni moderate e razionali in tema di immigrazione ed economia, tesi che piacciono a chi vota democratico. A New York, era il ‘sindaco badante’ perché attento alla salute dei suoi cittadini: campagne contro il fumo, il rumore, i cibi nocivi, le bevande gassate e per l’ambiente – salvò dei giardinetti a Manhattan, ma condusse pure una crociata per liberare le strade dagli homeless -.

I sindaci italiani gli professarono grande amicizia: da Roma, Walter Veltroni ‘l’americano’ lo volle incontrare prima di cedere il testimone a Francesco Rutelli; da Milano, Gabriele Albertini lo andò a trovare “da imprenditore a imprenditore”, “fatte le debite proporzioni” – ammise -. La principessa Ines Torlonia lo descrisse come “un amico speciale”. Le cronache dell’epoca azzardarono spesso paragoni con Berlusconi: magnati dell’editoria, uomini d’affari passati alla politica; ma Bloomberg si sbarazzò del suo impero, prima di fare il sindaco (compenso: un dollaro l’anno).

Adesso, fuori gioco dal 2014 –il sindaco più longevo nella storia di New York -, è pronto a metterci un miliardo di dollari per arrivare alla Casa Bianca, se i risultati delle prime primarie, lo indurranno a scendere in lizza come indipendente, l’uomo di mezzo, che potrebbe, però, risultare quello giusto. Bloomberg è una sorta di mostro di Lochness di questa campagna, perché periodicamente riaffiora: oggi, lo preoccupano lo strapotere di Trump fra i repubblicani e le difficoltà fra i democratici d’Hillary Clinton.

Con il suo profilo, Bloomberg, che ama essere considerato “un filantropo”, attirerebbe molti voti dell’elettorato conservatore e farebbe concorrenza a Trump sul terreno del successo in affari. E sarebbe capace di ottenere consensi tra centristi e indipendenti, a scapito del candidato democratico. Ma l'attuale sindaco di New York Bill de Blasio, che non lo ama e che sostiene Hillary, lo boccia perché troppo ricco e lo accusa di non essere attento alle diseguaglianze: "Il popolo di questo Paese non si rivolgerà a un miliardario per risolvere problemi creati soprattutto da miliardari". Dell’ipotesi di candidatura di Bloomberg, ha anche parlato il ‘collega’ Rupert Murdoch: per Mike –ha detto-, questa è “l’ultima chance”. Questione di età, e un po’ anche d’invidia: l’Australia è una monarchia e Murdoch non ha speranze di succedere alla regina Elisabetta.

Usa 2016: Iowa; Trump va forte, Hillary inciampa e NYT la soccorre

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/01/2016 e ripreso su www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net

In Italia, sarebbe già partito il tamtam della giustizia ad orologeria: i repubblicani le provano tutte per cercare d’azzoppare la loro rivale più temibile, Hillary Clinton, promuovendo, invece, quel Bernie Sanders di cui potrebbero fare un solo boccone all’Election Day, l’8 novembre. Sempre che il match non sia tra Sanders il ‘socialista’ e Donald Trump il ‘populista’: entrambi, infatti, piacciono molto a una fetta dell’elettorato, ma ne spaventano la maggioranza. Nel qual caso, potrebbe profittarne un terzo incomodo, se fosse Mike Bloomberg, ex sindaco di New York, centrista.

Ma questa è una storia per i mesi prossimi. Adesso, siamo alla vigilia delle assemblee nello Iowa, cioè all’inizio delle primarie: lunedì, saranno designati i primi delegati alle convention di luglio, quelle che daranno l’investitura formale ai candidati alla Casa Bianca. E l’inchiesta dell’Fbi sui finanziamenti alla sua Fondazione e gli scandali più o meno riesumati sono mine per Hillary.
La campagna ha svenato molti candidati: al 20 gennaio, erano stati spesi quasi 7 milioni di dollari, in almeno 10mila spot.

I sondaggi dicono che fra i repubblicani Donald Trump deve temere solo (e poco) Ted Cruz, senatore del Texas e portabandiera dei Tea Party; e le cronache raccontano che il repubblicano che vince nello Iowa non ottiene poi la nomination. Trump, però, è in testa in tutti gli Stati dove si vota a febbraio, anche New Hampshire, Nevada e South Carolina, e suscita negli americani più fiducia dei suoi rivali sulle questioni economiche: nello Iowa, ha il 32% delle preferenze potenziali, contro il 25% di Cruz e il 18% di Marco Rubio, senatore della Florida; altrove, ha vantaggi più netti.

Fra i democratici, invece, è testa a testa nei sondaggi tra Hillary e Sanders, nettamente in vantaggio nel New Hampshire, dove si vota martedì 9 febbraio –lì, lui del Vermont gioca quasi in casa-, mentre Hillary domina nella South Carolina. I sondaggi nazionali danno sempre l’ex first lady avanti con un discreto margine, ma un passo falso nello Iowa, doppiato la settimana dopo, potrebbe innescare una dinamica negativa: esattamente come avvenne nel 2008, quando la vittoria di Obama nello Iowa incrinò la fiducia in Hillary.

Tanto più che lo scandalo delle mail, montato a dismisura, e lo spettro di quanto accadde a Bengasi l’11 settembre 2012 continuano a essere ostacoli sul cammino dell’ex segretario di Stato (proprio all’epoca dell’uccisione in Libia dell’ambasciatore Usa e di tre marines). Hillary perde pezzi forti della sua collezione, come l’attrice Susan Sarandon, che se ne sente tradita e sta con Sanders, ma intorno a lei fa quadrato l’establishment del partito: Nancy Pelosi boccia le proposte di Sanders sulle tasse, mentre il senatore va all’attacco di banche e finanza. E le arrivano rinforzi forse insperati dalla generazione ‘millennial’, con il sostegno della cantante Demi Lovato, della star tv Lena Dunham, dell’attrice comica Amy Schumer, della cantautrice Katy Perry. Più di tutto, mediaticamente pesa l’ ‘endorsement’ del New York Times (che fra i repubblicani pesca a sorpresa il governatore dell’Ohio John Kasich).

Più degli attacchi di Sanders, che l’accusa di rappresentare “la vecchia politica”, come se lui a 75 anni e in politica da 35 fosse il nuovo che avanza, Hillary deve temere gli scheletri nei suoi armadi. Da cui sono adesso saltate fuori 22 mail ‘top secret’ mandate dal suo account privato - almeno una al presidente Obama -, invece che da quello ufficiale del Dipartimento di Stato, mentre finora era stato detto che il materiale trattato dall’account privato, più vulnerabile a cyber-spioni ed hacker, non era classificato.

Lo staff di Hillary sollecita la pubblicazione dei documenti, che il Dipartimento di Stato vuole invece tenere segreti; e la Casa Bianca ostenta tranquillità. Ma il polverone mediatico c’è tutto.

sabato 30 gennaio 2016

Usa 2016: chicche; Trump come Moretti, balle dal podio, Falwell, Reagan

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 30/01/2016

Donald Trump non ha di certo il rovello che assillava un adolescenziale Nanni Morettti, “Mi si nota di più se ci vado’, o se non ci vado?”. Lui, che ci sia o non ci sia, è comunque il più notato: anche perché chi c’è fa di tutto per farne sentire la mancanza, o facendogli il verso o annoiando. Facciamo un esempio: giovedì sera, a Des Moines, nell’ultimo dibattito in diretta televisiva fra gli aspiranti alla nomination repubblicana prima dell’inizio delle primarie con le assemblee nello Iowa lunedì 1° febbraio, Trump, uno che le spara grosse, non c’era. Eppure, le balle non sono mancate e l’Ap fa puntuale le pulci alle inesattezze che i rivali dello showman hanno sfoderato, apparendo a loro agio solo quando parlavano – male - di lui, dell’assente.

Se è vero, come dice Ben Carson, guru dell’ovvio, che non occorre essere politici per dire la verità, non è altrettanto vero che basta esserlo per dirla. Orfani dello showman, i suoi rivali hanno perso l’occasione di mostrare di brillare di luce propria invece che di luce riflessa. Niente Magnifici Sette: su quel palco, c’erano Sette Nani. Resta da vedere se Megyn Kelly, moderatrice del dibattito, era Biancaneve o la Regina cattiva. Anche se bisogna ammettere che era difficile ignorare "l'elefante che non è nella stanza", come ha detto la stessa Kelly, la ‘colpevole’ della decisione del magnate dell’immobiliare di boicottare l’evento (la giornalista della Fox News è rea di avergli posto domande scomode nel primo dibattito l’agosto scorso).

Niente Trump, dunque, ma tante frottole lo stesso: il senatore del Texas Ted Cruz ha ‘dato i numeri’ sull’assistenza sanitaria; lo stesso Cruz e il senatore della Florida Marco Rubio hanno accusato il presidente Obama di avere ridotto l’apparato militare degli Stati Uniti e di non armare i curdi in Siria –affermazioni entrambe false-; Cruz ha evocato “bombardamenti a tappeto” contro il sedicente Stato islamico, confondendo gli strumenti della Seconda Guerra Mondiale con quelli moderni; Rubio e Cruz hanno confuso le carte sull’immigrazione irregolare; e il governatore del New Jersey Chris Christie ha detto che la paga degli edili è diminuita negli ultimi otto anni, mentre è aumentata d’almeno il 15%.

Poco male. A parte l’Ap, se ne sono accorti in pochi, perché gli spettatori non sono stati numerosi. E i media seguivano Trump che arringava i reduci adunati sotto il suo podio, non lontano dal luogo del dibattito. (gp)

Leader evangelico appoggia Trump, ‘dà buca’ a Cruz - Trump ha incassato l’endorsement d’uno dei più seguiti leader evangelici americani, Jerry Falwell. E' uno smacco per il senatore del Texas Ted Cruz, che contende a Trump la fetta dell’elettorato religioso conservatore (significativa anche nello Iowa). "E' un imprenditore di successo, un padre meraviglioso e un uomo che può guidare il nostro Paese verso una nuova grandezza", ha detto Falwell, citato dallo staff di Trump. (Ansa)

Anti-abortisti contro Trump, “Non votatelo” - "Votate chiunque, tranne Donald Trump": così, gli anti-abortisti scendono in campo contro il magnate dell’immobiliare che in passato s’era detto  ‘Pro choice’, cioè a favore del diritto di scelta della donna, prima di trasferirsi nel 2011 nel campo ‘pro life’, cioè a favore del diritto alla vita. In una lettera agli elettori dell'Iowa, gli anti-abortisti invitano a non votare Trump perché "non ci si può' fidare di lui", riferisce Politico. (Politico)

Trump, “Io come Reagan, con l’età più conservatore” - Replicando alle critiche che gli arrivano dallo stesso partito repubblicano, soprattutto da chi non lo considera un "conservatore coerente" e l’accusa di avere cambiato idea su molte questioni, Trump, in un’intervista alla Cbs, s’è paragonato a Ronald Reagan: "Lui era un liberal, non un conservatore. Poi le sue posizioni si sono evolute e sono divenute sempre più conservatrici. E fu un grande presidente … Allo stesso modo, alcune mie posizioni si sono evolute nel tempo". (Cbs)

Cnn fa inchiesta, 'Perché voto Trump' – Il ‘popolo di Trump’ sono uomini e donne, in gran parte bianchi, che hanno paura: frustrati dall'operato del primo presidente nero Usa, sentono il loro posto minacciato da immigrati e minoranze, hanno nostalgia di un’America che non ritengono appartenga al passato. E Donald lo showman risponde alle loro ansie. La Cnn ha intervistato 150 persone in 31 città in tutta l’Unione, sondando un fenomeno senza precedenti nella politica moderna americana: studenti, pensionati o veterani; sono lavoratori dipendenti o gestiscono piccole imprese; in passato, hanno votato per Mitt Romney o per Barack Obama, ma hanno pure partecipato al Tea Party. Piace, di Trump, l’essere 'senza peli sulla lingua', verso la politica e l’establishment del partito: quello stile dà la certezza che immigrati illegali, politici corrotti, criminali e terroristi non la faranno franca; mentre i successi come imprenditore sono una garanzia per l'economia dell’Unione. (Ansa)

Siria: Ginevra, partono (piano) i negoziati, tra aventini e boicottaggi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/01/2016

Sono iniziati a Ginevra i colloqui tra l'inviato speciale dell'Onu Staffan De Mistura e la delegazione governativa siriana guidata dal ministro degli esteri Walid al Muallim: sono una tessera del mosaico dei negoziati tra regime e opposizioni siriani, incontri prima separati tramite Onu, poi collegiali. Ma il rito parte monco, perché non s’è ancora presentata in Svizzera la delegazione delle opposizioni, decisa a boicottare le trattative finché non avrà garanzie che Damasco cessi di violare i diritti umani; né si sa quanto e fin dove potrà andare avanti, se da Parigi il presidente iraniano Rohani ammette che sarebbe “sorpreso” se i colloqui avessero successo “subito”. C’è chi s’aspetta risultati in settimane, chi fra mesi.

L’aventino dell’opposizione moderata siriana è solo uno degli ostacoli: sui social, è virale il tamtam #DontgotoGeneva; come sono intense, da più parti, le pressioni diplomatiche perché gli anti-Assad raggiungano Ginevra da Riad – una delegazione di basso profilo e con mandato limitato sarebbe ora in viaggio -. Tutti d’accordo che i terroristi non devono sedere al tavolo, ma quali sono i terroristi?

Così, i turchi non vogliono che alla trattativa partecipino i curdi siriani, che Washington e Mosca ritengono alleati affidabili – sul campo, sono i combattenti più efficaci contro le milizie jihadiste -, ma che Ankara considera terroristi alla stregua del Pkk, la loro versione turca. Ankara non vorrebbe neppure discutere con gli emissari di Assad, ma parlare di transizione senza averli al tavolo sarebbe un esercizio fittizio.

I colloqui di pace partono in un contesto di guerra, mentre alcune sanguinose ferite tra ‘alleati’ contro il sedicente Stato islamico sono lungi dall'essersi rimarginate: tra Turchia e Russia, dopo l’abbattimento a fine novembre di un aereo russo da parte di caccia turchi – proprio ieri, Gazprom ha cancellato uno sconto del 10% sulle forniture ad Ankara -; e tra Arabia saudita e Iran, dopo l’esecuzione a inizio anno a Riad di un leader religioso sciita.

Nel giorno della preghiera, ieri, un kamikaze sunnita ha provocato almeno sette morti e una ventina di feriti facendosi esplodere all’ingresso d’una moschea sciita ad al-Akhsa, nell’Est del Paese. C’era un complice, che indossava pure una cintura esplosiva e che ha aperto il fuoco sui fedeli: è stato sopraffatto, disarmato, consegnato alla polizia.

Sul terreno, il conflitto ha, come al solito, un andamento a fisarmonica. Dopo una fase d’avanzata, verso metà gennaio, delle milizie jihadiste, ora sono all’offensiva i ‘lealisti’ del presidente Assad sostenuti, dal cielo e non solo, dai russi, che hanno rafforzato il loro apparato navale lanciamissili con quattro nuove unità nel Mar Nero.

L’opposizione moderata onnipresente sui media, ma latitante in campo, denuncia alternativamente massacri dall’una e dall’altra parte e tiene un’improbabile macabra conta: gli integralisti avrebbero finora fatto in Siria 3.895 vittime, su un totale di circa 250mila morti dall’inizio della guerra civile, cinque anni or sono. La situazione delle località assediate volta a volta da jihadisti o ‘lealisti’ è disperata: le organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite lanciano allarmi senza eco. Ed è pure drammatica la situazione dei rifugiati siriani, in Turchia, Libano, Giordania: un neonato siriano è morto assiderato in Turchia, dove sono già nati 70mila siriani.

L'Olanda, su richiesta degli Stati Uniti, ha deciso di compiere missioni di bombardamento aereo sulle postazioni del Califfato in Siria, specie nell’Est del Paese, estendendo quelle già condotte in Iraq.

Intanto, Washington fa sapere di non avere ancora deciso se lanciare un'operazione militare contro gli jihadisti in Libia. Per il capo del Pentagono Ashton Carter, gli Usa intendono aiutare i libici "a riprendersi il controllo del loro Paese” e naturalmente “sosterranno il governo libico una volta insediato". Ma i terroristi approfittano dei contrasti tra le fazioni libiche per acquisire più influenza e attaccare infrastrutture essenziali. "Non vogliamo trovarci in una situazione come quella in Siria e in Iraq”, dice Carter. Ma, forse, lì è persino peggiore, per la mancanza di un qualsiasi credibile governo centrale.

venerdì 29 gennaio 2016

Usa 2016: repubblicani; dibattito 7, la giornalista che mette in fuga Mr. Trump

Scritto per gli Appunti del blog di Media Duemila del 29/01/2016

Capita che una giornalista tosta e brava costringa sulla difensiva l’arroganza del potere e metta addirittura in fuga lo sbruffone di turno: capita negli Stati Uniti, dove, in polemica con la Fox, che conferma in conduzione Megyn Kelly, la giornalista sua arci-nemica, dopo la lite con insulti sessisti dello scorso agosto, Donald Trump decide di disertare l’ultimo dibattito in diretta tv fra gli aspiranti alla nomination repubblicana prima dell’avvio delle primarie – in onda in prima serata giovedì 28 gennaio -. “Voglio vedere quanti soldi faranno senza di me sul palco”, dice, definendo la sua decisione “irrevocabile”.

Trump aveva già lasciato intuire le sue intenzioni: “Non mi tratta in modo equo, vedremo che cosa succede”, aveva detto, parlando della Kelly e del dibattito. La Fox aveva replicato: “Prima o poi Trump, anche se diventerà presidente, dovrà imparare che non può scegliere i giornalisti. Siamo molto sorpresi che sia disposto a dimostrare di avere paura delle domande di Megyn Kelly”.

Il forfait televisivo del battistrada repubblicano è l’epilogo della lunga polemica che lo contrappone alla Fox, una rete pur vicina ai conservatori. Trump ce l’ha in particolare con l'anchorwoman, decisa e aggressiva, con cui s’era già accapigliato nel primo dibattito, accusandola di mancare d'imparzialità e di avere il sangue “agli occhi e non solo”, con una evidente e molto volgare allusione al ciclo mestruale.

Dopo avere mostrato qualche incertezza sulla sua partecipazione al confronto, prima ha pubblicato un video su Instagram in cui, parlando della Kelly, chiedeva: "Pensate davvero che riesca a essere imparziale in un dibattito?"; quindi, s’è rivolto ai suoi fan su Twitter, ponendo il quesito: "Dovrei andare al dibattito?".

La Fox, piccata, ha replicato con un comunicato sfottente: "Abbiamo appreso da canali riservati che l'Ayatollah e Putin intendono trattare Donald Trump in modo ingiusto, quando lo incontreranno se diventerà presidente. Una fonte malevole ci ha rivelato che Trump ha un piano segreto per sostituire il governo con i suoi follower su Twitter e chiedere a loro se andare o no a questi incontri".

Irritato, Trump ha convocato una conferenza stampa per annunciare che avrebbe saltato il dibattito e s’è ancora scagliato contro la Kelly, definita "un peso piuma". Poco dopo è arrivato un comunicato nello stile del personaggio: "Mr Trump sa riconoscere un cattivo affare quando ne vede uno … Roger Ailes (il presidente di Fox News, ndr) e Fox News pensano di potersi fare gioco di lui, ma Trump non si presta ai giochi".

Il magnate dell’immobiliare, che sostiene di avere dominato i precedenti sei dibattiti, certamente segnati dalla sua presenza, ha così organizzato una raccolta di fondi per "i combattenti feriti", parallela allo show in tv.

La Kelly, 45 anni molto ben portati e una disponibilità a comparire esaltata dal suo mestiere e confermata dalla gallery delle sue foto online, in estate fece perdere le staffe a Trump, tartassandolo di domande sul suo maschilismo: lui forse non se l’aspettava, dando per scontato che la Fox fosse una rete amica; di certo, a caldo reagì male e a freddo peggio.

La Fox è sempre stata dalla parte della Kelly, che ne era un volto feticcio e che lo è ancora di più ora. Nata a Siracuse, nello Stato di New York, madre di origini italiane e padre di origini irlandesi, avvocato, poi convertitasi al giornalismo, nel 2003 a Washington faceva cronaca per il canale locale della Abc, nel 2004 era già alla Fox e pure la Cnn le mise gli occhi addosso perché – assicura Jonathan Klein, il presidente- “Megyn è quel tipo di talento che si cerca di strappare agli altri”.

Alla Fox, dal 2014 la Kelly conduce un suo programma di approfondimento politico, ‘The Kelly Files’: difficile che Trump, prima o poi, ne sia ospite.

Usa 2016: repubblicani; dibattito 7, Trump non c'è, ma si parla (solo) di lui

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 29/01/2016 e, in altra versione, per il blog de Il Fatto Quotidiano

Donald Trump non c’era, e quindi non ha parlato. Ma di lui s’è parlato, e molto, sul palco dell’ultimo dibattito in diretta televisiva fra gli aspiranti alla nomination repubblicana, prima dell’inizio delle primarie lunedì con le assemblee nello Iowa. Orfani dello showman, i suoi rivali hanno così perso l’occasione di dimostrare di vivere di luce propria, invece che di luce riflessa.

Anche se era difficile ignorare "l'elefante che non è nella stanza", come ha detto Megyn Kelly, moderatrice del dibattito. La decisione del magnate dell’immobiliare di boicottare l’evento era stata presa proprio in polemica con la giornalista della Fox News, rea di avergli posto domande scomode nel primo dibattito l’agosto scorso.

Mentre il confronto andava sugli schermi, ancora tenevano banco gli strascichi della polemica, dopo le rivelazioni della rete secondo cui Trump pretendeva dalla Fox 5 milioni di dollari in beneficienza per tornare sulla sua decisione e partecipare al dibattito, mentre Trump sosteneva che la Fox s’era sì scusata, “ma non abbastanza”.

Così, il magnate dell’immobiliare ha organizzato, in parallelo allo show tv, sempre a Des Moines, un comizio e una raccolta di fondi per i veterani, che avrebbe fruttato sei milioni di dollari – uno ce l’ha messo lui del suo -. Con Trump, c’erano due candidati esclusi dal dibattito televisivo perché troppo bassi nei sondaggi e venuti a sostenere i reduci e a cercare di profittare del riflesso mediatico dello showman: Mike Huckabee e Rick Santorum, i vincitori delle primarie repubblicane in Iowa nel 2008 e nel 2012 rispettivamente.

I social network decretavano che il dibattito, senza Trump, era una noia, mentre Hillary Clinton ne bollava i protagonisti come completamente impreparati – un giudizio pre-cotto, che non sarebbe certo cambiato Trump presente -.

Eppure, i sette candidati sul palco hanno cercato di ricavare il massimo dall’assenza di Trump, se non altro perché avevano più tempo a disposizione per dire la loro: c’erano i senatori del Texas Ted Cruz, della Florida Marco Rubio e del Kentucky Rand Paul, l’ex governatore della Florida Jeb Bush e i governatori del New Jersey Chris Christie e dell’Ohio John Kasich e, infine, il guru Ben Carson.

Cruz, l’uomo del Tea Party e per ora il rivale più pericoloso di Trump, che aveva sfidato il magnate dell’immobiliare ad affrontarlo in un dibattito testa a testa prima del voto (“90 minuti, Donald ed io”), ha scherzosamente insultato se stesso e tutti gli altri, facendo così “la parte di Donald”: “Io sono un maniaco –ha esordito- e tutti voi su questo palco siete stupidi, grassi e brutti. E tu Ben sei un pessimo chirurgo”, detto a ben Carson, ex neuro-chirurgo di fama mondiale. Jeb Bush ha scelto l’ironia: “Mi manca Trump –che è sempre stato caustico nei suoi confronti-, è il mio orsachiotto. Abbiamo sempre avuto una relazione amorosa nei dibattiti e negli scambi su Twitter”.

Christie dice che gli elettori vogliono un leader capace e cerca di affrancarsi dagli scandali che lo hanno coinvolto. Carson, che viaggia sempre sui massimi sistemi e afferma che non serve essere politici per dire la verità, offre “nuovi approcci”. Paul spinge per una riforma della giustizia. Rubio difende il suo operato – contestato - come senatore. Cruz, Rubio e Paul si beccano a vicenda sull’immigrazione, accusandosi l’un l‘altro d’avere cambiato opinione. Bush ha un flash di vivacità e attacca Rubio – che gli sta sottraendo l’appoggio dell’ establishment del partito -. Rubio e Kasich discutono sul nucleare iraniano, Paul, che è su posizioni isolazioniste, esprime preoccupazione per un coinvolgimento militare in Siria.

Tutti cercano di proporsi come credibili comandanti in capo. E tutti, a un certo punto, si ricordano di attaccare Hillary. Gli ultimi sondaggi danno Trump in testa fra i repubblicani negli Stati dove si voterà a febbraio, Iowa, New Hampshire e South Carolina –mancano i dati del Nevada-. (gp)

giovedì 28 gennaio 2016

Usa 2016: chicche; Chelsea, Sanders, Trump, Bush, Bloomberg

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 28/01/2016

Clinton, Chelsea perpetua la dinastia - Chelsea Clinton è predestinata a perpetuare la dinastia e magari a candidarsi un giorno alla Casa Bianca: la vede così il Daily News, mentre mamma Hillary è in corsa per la Casa Bianca. Secondo il giornale, la partecipazione di Chelsea a una raccolta fondi in un’elegante residenza nell'Upper East Side di Manhattan può essere considerata un primo passo verso una futura discesa nell'agone politico.

Chelsea, 35 anni, non ha mai fatto mistero delle sue ambizioni politiche. A marzo, in un'intervista, disse che prenderà "assolutamente" in considerazione l'ipotesi di correre per una carica elettiva. Chelsea, che ha una bambina di quasi un anno e mezzo ed è in attesa di un altro figlio che dovrebbe nascere a luglio (in concomitanza con la convention democratica), considera queste elezioni diverse per lei sul piano personale, perché voterà da madre per la prima volta: "E mia madre – sottolinea – è l'unica candidata che parla di continuo del diritto di una donna a scegliere". (Ansa)

Sanders, sui barattoli di gelato - Il volto di Bernie Sanders finisce sui barattoli di gelato: 'Bernie's Yearning' (Voglia di Bernie) è un regalo che il co-fondatore dell'azienda di gelati del Vermont Ben&Jerry's ha fatto all'aspirante candidato democratico alla presidenza. Ben Cohen ha realizzato personalmente 40 confezioni al gusto di menta e cioccolato. "Niente é più inarrestabile - ha scritto sulla sua pagina Facebook - di un gusto la cui ora è finalmente arrivata".

Sul barattolo da una pinta (quasi 500 grammi) si legge che il disco di cioccolato sopra la menta rappresenta la gran parte dei guadagni economici che sono andati all'1% della popolazione più ricco dalla fine della recessione. "Sotto - continua -, il resto di noi".

Non é la prima volta che i gelatai del Vermont fanno politica. Nel 2009 realizzarono il gusto 'Yes Pecan' per l’insediamento del presidente Obama. E per la legalizzazione dei matrimoni omosessuali nel Vermont, lo stesso anno, ribattezzarono il gusto 'Chubby Hally' (maritino paffuto) in 'Hubby Hubby' (maritino maritino). (Ansa)

Usa: pessimismo dilaga, ma popolarità Obama tiene - Quasi 6 americani su 10, il 57% , pensano che le cose vadano male nell’Unione, solo il 42% è ottimista sul futuro. Lo afferma un sondaggio Cnn/Orc, secondo cui la percentuale di pessimisti s’allarga ed è ai massimi da due anni in qua. Ma la popolarità del presidente Barack Obama resta stabile: il 47% ne approva l’operato, il 49% lo disapprova, dati costanti e ben al di sopra delle percentuali del suo predecessore George W. Bush, allo stesso punto del suo mandato (ma Ronald Reagan e Bill Clinton facevano meglio). Nel gennaio 2008, il gradimento degli americani per Bush si fermava al 34%. (Cnn)

Trump: Bruxelles, un ‘postaccio. Ed è polemica - Dopo aver urtato la suscettibilità di francesi e britannici, Donald Trump ha innescato l’ennesima rivolta virtuale su Twitter e su altri social dopo avere definito Bruxelles un "hellhole", letteralmente un "buco all’inferno", cioè un "postaccio".
Con l'hashtag #hellhole sono state ‘postate’ su Twitter centinaia di immagini in cui Bruxelles appare sotto la sua luce migliore, ma pure molte foto o disegni di topi in atteggiamenti dai più graziosi ai più ripugnanti, visto che in francese "hellhole" si traduce "trou à rats", buco per topi.

Secondo Trump, il problema della capitale europea, che "vent'anni fa era bellissima", è che ci vivono troppi musulmani, che non sono per niente integrati, come del resto, sostiene il magnate, avviene altrove in Europa. "Torna a Bruxelles, Donald, ti offriremo le frites, il cioccolato e la birra e vedrai che non ci si sta affatto male", cinguetta una giovane sulla rete. "Se Bruxelles è un 'hellhole', come chiameresti un Paese dove chiunque può comprarsi un fucile e uccidere il vicino?, paradiso?" si chiede un altro utente. "Detto da Trump, 'hellhole’ è un complimento", chiosa un terzo. (Agi)

Bush: mamma Barbara ci crede, ma è (quasi) sola -  L'ex first lady Barbara Bush cerca di dare una mano al figlio Jeb per risalire la china della nomination repubblicana. La moglie di George padre in un video esorta gli elettori a votare per il suo secondogenito, nella sua prima apparizione pubblica in questa campagna: "E' un bravo padre, un figlio fantastico e un gran lavoratore – dice Mamma Barbara, ancora popolare negli Stati Uniti -. Il suo cuore è enorme … Di tutti i candidati, è quello che può risolvere i problemi: penso che sarà un grande presidente". Nel 2013, la madre dell'ex governatore della Florida, e dell’ex presidente George W., si era detta contraria all'ipotesi che il figlio scendesse in campo, dicendo che l'America aveva "avuto abbastanza Bush". Ma quando Jeb ha seriamente cominciati a pensare di candidarsi alle primarie, ha fatto sapere di avere cambiato idea in merito. (Ansa)

Bloomberg, per De Blasio è “troppo ricco” - Michael Bloomberg é troppo ricco e disconnesso dalla realtà per potere fare il presidente degli Stati Uniti: lo afferma l'attuale sindaco di New York Bill de Blasio. "Il popolo di questo Paese non si rivolgerà a un miliardario per risolvere problemi creati soprattutto da miliardari", ha detto de Blasio in una conferenza stampa. "Nella sua carriera nella pubblica amministrazione Bloomberg non si è focalizzato sulle disuguaglianze - ha aggiunto l’attuale sindaco -: la gente ora pensa 'persone ricche e potenti ci hanno messo in questo pasticcio, vogliamo una soluzione diversa'". De Blasio manifesta "molto rispetto" per il suo predecessore, ma ritiene che il prossimo presidente sarà Hillary Clinton, cui ha dato il suo endorsement in ottobre ed al cui fianco è appena comparso nello Iowa: "Ne sono convinto".

Dell’ipotesi di candidatura Bloomberg, ha anche parlato il ‘collega’ Rupert Murdoch – entrambi sono magnati dell’editoria -, sostenendo che per Michael, 73 anni, questa è “l’ultima chance”. (fonti vv)

Usa: Oregon, la milizia dei cowboys contro il governo di Washington

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/01/2016

Altro che i cowboys romantici di Brokeback Mountain, gente fragile, che alla prima difficoltà magari lasciava perdere. Questi sono cowboys tosti, alla John Wayne, tutti speroni e pistole; soprattutto pistole. E siccome la polizia d’America non ci va tanto per il sottile, alla fine c’è scappato il morto ammazzato, l’altra notte, a Burns, località ai piedi delle Montagne Rocciose, tremila anime, prati e fiumi, nel Sud-Est d’uno Stato – l’Oregon - grande tre quarti dell’Italia e con meno di quattro milioni di abitanti.

Lo scontro tra agenti e la milizia ‘fa-da-te’ che da tre settimane occupava un edificio del governo, dentro un parco naturale, è avvenuto in circostanze ancora oscure: un morto, un ferito, altre sei persone arrestate. Fra di esse, il leader del gruppo, Ammon Bundy, 40 anni, originario dell'Idaho, appena al di là della catena di monti –il ferito sarebbe suo fratello Ryan-.

Contro la banda, l’accusa è di cospirazione per ostacolare il lavoro di agenti federali. Il 2 gennaio, gli otto avevano occupato uno stabile nella riserva naturale di Malheur, nella contea di Harney: si considerano patrioti, sventolano la bandiera a stelle e strisce e dicono di volere sostenere due piccoli proprietari terrieri locali, accusati di aver appiccato il fuoco in terreni federali e per questo, a dire dei cowboys, perseguitati dal governo.

L'operazione è stata condotta dall'Fbi, la polizia federale, e dalla polizia di Stato. La sparatoria sarebbe cominciata quando alcuni agenti hanno fermato, per un controllo, un veicolo con a bordo alcuni della banda: non è chiaro chi abbia aperto il fuoco per primo. Intanto, l’edificio occupato non è stato evacuato: c’è chi resiste dentro.

Le autorità temono che ora la protesta possa diffondersi: dall'Oregon al Nevada, ranchers accusano l’Amministrazione di Washington di vietare agli allevatori di pascolare bestiame nelle terre federali e di cacciare nelle riserve naturali. I fratelli Bundy sono figli d’arte: loro padre, Cliven Bundy, noto militante anti-governativo, nel 2014 organizzò una manifestazione del genere nel Nevada e la ebbe pure vinta, divenendo una sorta di eroe.

L’ideologia è molto semplice: è gente che ce l’ha con il ‘governo’, quale che sia (se di Washington, che sta lontano, peggio ancora); gente che, se votasse – spesso non vota -, voterebbe Donald Trump, che gliele canta chiare, oppure Ted Cruz, che viene dal Texas (ma forse li trova entrambi troppo ‘fighetti’); gente che sopra di sé ha solo dio e il presidente e lo sceriffo gli fanno un baffo.

L’Oregon è terra fertile a posizioni così radicali: non è uno Stato iper-conservatore e, anzi, spesso vi vincono i democratici, ma vi alligna pure il culto delle armi e quell’individualismo esasperato che fa tanto Far West (anche se qui siamo sulla costa del Pacifico). All’inizio di ottobre, ci fu una strage – non la prima - in un college; la marijuana per uso ricreativo è stata da poco legalizzata – nell’Unione è stato il terzo Stato a farlo-; ed è stato il primo Stato ad avere un sindaco transgender e ora un governatore bisessuale; sta qui la Springfield dei Simpson; ha legalizzato l’eutanasia, ma non i matrimoni omosessuali; è terra di ecoterroristi e tempo fa vi fu pure scoperta una cellula jihadista; ed è già capitato che sette o milizie s’installino in ranch e ne facciano sorte di terre franche. Fin quando non arriva la polizia federale.

Com’è successo a Burn la scorsa notte. "Resteremo qui per tutto il tempo che ci vorrà: siamo qui per ridare la terra al popolo", diceva Ryan Payne, un veterano dell'esercito schierato coi miliziani. E Bundy rincarava: "Siamo qui perché c’è gente che ha subito abusi e ha perso le proprie terre”. Ma l’Fbi e lo sceriffo David Ward ci vedevano un complotto “per tentare di rovesciare il governo e creare un movimento negli Stati Uniti". Un morto, un ferito, sei arresti; e l’assedio continua.

Usa 2016: Trump alza la voce; Sanders alza le mani

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 28/01/2016

Donald Trump alza la voce, e non è una novità; ma stasera non dirà la sua, nell’ultimo dibattito tv prima dell’inizio delle primarie. Bernie Sanders alza le mani, ed è quasi una resa, nonostante sondaggi incoraggianti: dopo essere stato accolto alla Casa Bianca dal presidente Obama, ammette che non pensa di farcela a battere Hillary Clinton.

La polemica tra Trump e la Fox – Il forfait televisivo del battistrada repubblicano è l’epilogo della lunga polemica che lo contrappone alla Fox, la rete che trasmetterà il dibattito da Des Moines. Trump ce l’ha - ancora una volta - con l'anchorwoman Megyn Kelly, che sarà uno dei moderatori e con cui lo showman s’era già accapigliato lo scorso agosto, nel primo dibattito, quando l’aveva accusata di mancare d'imparzialità chiamandone in causa il "ciclo mestruale".

Dopo avere mostrato qualche incertezza sulla sua partecipazione al confronto, prima ha pubblicato un video su Instagram in cui, parlando della Kelly, chiedeva: "Pensate davvero che riesca a essere imparziale in un dibattito?"; quindi, s’è rivolto ai suoi fan su Twitter, ponendo il quesito: "Dovrei andare al dibattito?".

La Fox, piccata, ha replicato con un comunicato sfottente: "Abbiamo appreso da canali riservati che l'Ayatollah e Putin intendono trattare Donald Trump in modo ingiusto, quando lo incontreranno se diventerà presidente. Una fonte malevole ci ha rivelato che Trump ha un piano segreto per sostituire il governo con i suoi follower su Twitter e chiedere a loro se andare o no a questi incontri".

Irritato, Trump ha convocato una conferenza stampa per annunciare che avrebbe saltato il dibattito e s’è ancora scagliato contro la Kelly, definita "un peso piuma". Poco dopo è arrivato un comunicato nello stile del personaggio: "Mr Trump sa riconoscere un cattivo affare quando ne vede uno … Roger Ailes (il presidente di Fox News, ndr) e Fox News pensano di potersi fare gioco di lui, ma Trump non si presta ai giochi".

Il magnate dell’immobiliare, che sostiene di avere dominato i precedenti sei dibattiti, certamente segnati dalla sua presenza, organizzerà una raccolta di fondi per "i combattenti feriti", durante lo show in tv.

Sanders alla Casa Bianca (ma è solo una visita) - Visita ‘di compensazione’ di Bernie Sanders alla Casa Bianca, dopo che un’intervista a Politico del presidente Obama era stata letta da molti come una sorta di ‘endorsement’ di Hillary Clinton. Il senatore del Vermont, che era accompagnato dalla moglie Jane e dal portavoce Michael Briggs, è rimasto con il presidente nello Studio Ovale circa un’ora.

Uscendo, Sanders ha riconosciuto che Obama "sta cercando di rimanere il più neutrale possibile": “Non penso affatto” che favorisca Hillary. Sanders ha ricordato d’avere appoggiato il presidente nelle sue campagne nel 2008 e nel 2012, “anche se è noto che abbiamo opinioni differenti", su temi come l'aumento delle tasse o gli accordi commerciali internazionali.

A chi paragona la sua corsa a quella di Obama del 2008 – l’avversaria è sempre Hillary -, Sanders risponde: “Non credo, ma mi piacerebbe”, pur esprimendo fiducia nei voti imminenti in Iowa e New Hempshire.

Obama ha incontrato la Clinton alla Casa Bianca diverse volte, da quando non è più segretario di Stato. L'invito ufficiale di Sanders nello Studio Ovale bilancia un po’ la situazione, anche se Hillary si presenta come l’erede di Obama e “la guardiana del suo lascito” e si dichiara incline a nominarlo tra i giudici della Corte Suprema. Obama vanta tra i democratici dello Iowa un gradimento al 91%.

Sanders non ha "ovviamente" chiesto ad Obama un ‘endorsement’, ma ha giudicato “costruttivo e positivo” l’incontro centrato sulla politica estera: dalla lotta al sedicente Stato islamico alle relazioni con l'Iran. "Negli ultimi anni – ha osservato il senatore -, non sono più andato a funerali” di giovani del Vermont caduti in guerra. “Penso che ciò che il presidente sta cercando di fare sia giusto", cioè "tenere i nostri giovani lontani dal pantano della perenne guerra in Medio Oriente". Ricordando d’avere votato nel 2002 contro la guerra in Iraq, Sanders ha rilevato come questa sia una differenza "sostanziale tra lui e il segretario Clinton". (fonti vv – gp)

mercoledì 27 gennaio 2016

Usa 2016: Iowa, dai fienili alla Casa Bianca, la via dei 'caucuses'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/01/2016 e ripreso da .www.UsaGpNews.eu

Quella dello Iowa è gente solida, quadrata, con le idee chiare, che sa distinguere nei campi il grano dal loglio. Gente come Pamela Saturnia, pastore metodista, che domenica ha fatto una bella predica a Donald Trump, venuto ad assistere in un banco di quinta fila alla funzione festiva nella sua chiesa di Muscataine. Che fosse lì per calcolo o per fede, Trump s’è dovuto sorbire un sermone, che suonava rampogna, sui valori cristiani dell'accoglienza verso il prossimo tuo, rifugiati o immigrati clandestini messicani che siano.

Il magnate dell’immobiliare, presbiteriano, era alla First Presbyterian Church. Il pastore, una donna bianca, tarchiata, i capelli ricci, ha fatto la sua omelia sul tema dell'immigrazione, uno dei preferiti del candidato alla nomination repubblicana. E ha citato i rifugiati siriani, cui Trump vuole vietare l'ingresso perché tutti potenziali terroristi, e i migranti messicani, che Trump vuole rispedire a casa, se sono negli Usa irregolarmente.

D’inverno, nello Iowa la terra è dura, compatta, gelata, coperta a perdita d’occhio dalla neve: ora, dopo la tempesta dello scorso fine settimana, ce n’è un sacco. Lunedì 1° febbraio, qui s’inaugura, come avviene dal 1972, la stagione delle primarie, per designare i delegati che alle convention di luglio daranno la formale investitura ai candidati democratico e repubblicano alla Casa Bianca: si vota, come altrove, con il sistema dei caucuses, assemblee di partito organizzate spesso nei fienili, che spiccano tozzi nella campagna piatta accanto alle case degli agricoltori, ma anche nelle scuole, nelle librerie, nelle chiese o nelle palestre.

Grande quasi come mezza Italia (145mila kmq), una pianura uniforme con poco più di tre milioni d’abitanti, inizialmente francese –Des Moines, la capitale, 200 mila abitanti, sarebbe ‘dei monaci’-, poi venduto nel 1803 da Napoleone con tutta la Louisiana agli Stati Uniti, lo Iowa prende il nome da una tribù di Sioux che vi abitarono fino al 1836, quando, fatto un accordo con i ‘lunghi coltelli’, si trasferirono in Oklahoma. Qui, a Winterset, nacque John Wayne; qui, ci sono i ponti di Madison County; e qui c’è una forte comunità d’origine tedesca o scandinava, caratteri un po’ rudi e chiusi.
Bianchi e protestanti in grande maggioranza: neri ce ne sono relativamente pochi, musulmani meno.

I caucuses si svolgono con riti diversi, a seconda del partito e degli Stati. Nello Iowa, se ne tiene uno per partito in tutte le 1681 circoscrizioni elettorali, designando i delegati alle convention di ciascuna delle 99 contee. Che, a loro volta, scelgono i delegati alla convention statale, che nomina quelli alla convention nazionale: circa l’1 per cento del totale appena.

Solo gli elettori registrati per l’uno o l’altro partito possono votare. Ma come osservatori sono pure ammessi indipendenti e giornalisti. Fra i repubblicani, il voto è segreto: spesso si mette un foglietto con il nome del prescelto in un cappello che gira per l’assemblea-, I democratici, invece, votano ‘pedibus calcantibus’, come facevano i senatori romani: nell’area dell’assemblea, si creano crocchi, per l’uno o per l’altro candidato; poi, c’è tempo mezz’ora per convincere gli indecisi o indurre qualcuno a cambiare scelta; e, alla fine, si contano i crocchi.

Dalle assemblee, escono sovente scelte a sorpresa. Chi vince nello Iowa, specie fra i repubblicani, spesso poi non ottiene la nomination: se nel 2000 vinse George W. Bush, nel 2008 fu primo l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee (e John McCain, che poi ebbe la nomination, fu solo quarto); e nel 2012 vinse l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum (e Mitt Romney arrivò secondo per decimi di punto). Huckabee e Santorum sono in corsa pure quest’anno, ma quasi fuori dai radar dei sondaggi. Fra i democratici, la gente dello Iowa ci azzecca di più: qui vinsero Al Gore nel 2000 e John Kerry nel 2004 e, a sorpresa, Barack Obama nel 2008, iniziando così a costruire l’inattesa vittoria su Hillary Clinton.

Quest’anno, l’incertezza è grande in entrambi i campi. La media dei sondaggi fatta dalla Cnn dà Trump è in leggero vantaggio fra i repubblicani, avendo riscavalcato Ted Cruz anche grazie all’ ‘effetto Palin’ (31% a 26%), che lo starebbe spingendo forte nelle ultime ore; Hillary Clinton e Bernie Sanders sono testa a testa fra i democratici (45% a 46%, un dato statisticamente irrilevante).

Usa 2016: Iowa; Trump diserta ultimo dibattito, testa a testa con Cruz

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 27/01/2016

In polemica con la Fox, che conferma in conduzione Megyn Kelly, la giornalista sua arci-nemica, dopo la lite e gli insulti sessisti dello scorso agosto, Donald Trump annuncia che intende disertare l’ultimo dibattito in diretta televisiva fra gli aspiranti alla nomination repubblicana prima dell’avvio delle primarie – in onda domani sera, giovedì 28 gennaio -. “Voglio vedere quanti soldi faranno senza di me sul palco”, ha detto, definendo la sua decisione “irrevocabile”.

Trump aveva già lasciato intuire le sue intenzioni: “Non mi tratta in modo equo, vedremo che cosa succede”, aveva detto, parlando della Kelly e del dibattito. La Fox aveva replicato: “Prima o poi Trump, anche se diventerà presidente, dovrà imparare che non può scegliere i giornalisti. Siamo molto sorpresi che sia disposto a dimostrare di avere paura delle domande di Megyn Kelly”.

Trump e Ted Cruz sono statisticamente appaiati, in vista delle assemblee di lunedì nello Iowa, che segnano l’inizio delle primarie per le nomination repubblicana e democratica. Secondo l'ultimo sondaggio condotto dalla Quinnipiac University, il magnate dell’immobiliare è al 31% e il senatore del Texas al 29%: tenuto conto del margine di errore del rilevamento di 3,8 punti, il dato vale pari. Lontano terzo è il senatore della Florida Marco Rubio, al 13%; tutti sotto il 10% gli altri.

La situazione è ancora più fluida, se si considera che quasi il 40% di quanti affermano di avere già fatto la propria scelta sostengono di potere ancora cambiare idea. Appare, comunque, scontato che nello Iowa prevarrà un alfiere dell’ala più populista e conservatrice dell’elettorato repubblicano.

A livello nazionale, e nella media dei sondaggi, Trump mantiene invece un buon vantaggio su Cruz, che varia, a seconda di chi fa le medie, tra i 17 e i 22 punti. In un rilevamento Cnn/Orc, lo showman raggiunge per la prima volta il 41% a livello nazionale, più che doppiando Cruz al 19%. Rubio è all'8%, l’ex neuro-chirurgo Ben Carson al 6, l'ex governatore della Florida Jeb Bush al  5. Il 63% pensa che Trump sarà il candidato repubblicano, solo il 16% pensa che sarà Cruz e il 10% Rubio.

Ma i risultati dei primi voti possono rapidamente influenzare l’elettorato. E peserà pure il gioco delle desistenze e degli ‘endorsement’: George Pataki, l’ex governatore dello Stato di New York, già ritiratosi dalla corsa, ha dato il proprio appoggio a Rubio, mentre l’ex governatore del Texas Rick Perry, pure ritiratosi, l’ha dato a Cruz.

L’incertezza nello Iowa tra Trump e Cruz corrisponde all’inasprirsi dei toni fra i due. Sulla MsNbc, lo showman dice che il senatore “si presenta come un cretino” e aggiunge: “E’ un bugiardo e per questo non piace a nessuno, per questo i senatori non l’appoggiano e per questo non chiude accordi con nessuno”.

Dal canto suo, in un video trasmesso da un network cristiano e ripreso dalla Cnn, Cruz avverte che, se Trump vincerà in Iowa e New Hampshire, “potrebbe diventare inarrestabile”: l’unico antidoto è che i conservatori votino compatti per lui, il solo che lo può arrestare. Rubio, invece, sostiene d’essere l’unico candidato che può unire il partito repubblicano.

Di routine, invece, gli attacchi dei democratici: per Hillary Clinton, i toni e le sortite di Trump sono la parte peggiore di questa campagna. (fonti vv - gp)

martedì 26 gennaio 2016

Migranti: Schengen, sopravvivenza condizionata. Ue gestisca frontiere esterne

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/01/2016

Lungo il canale su cui si affaccia il Museo marittimo di Amsterdam, dove i responsabili dell’Interno dei 28 sono riuniti, scivola un barcone che issa le bandiere di Amnesty: è stracarico di manichini di profughi, perché i ministri abbiano davanti agli occhi un simulacro del dramma di cui discutono. L’incontro ‘salva’, almeno per il momento, l’accordo di Schengen, che, però, secondo l’Austria, “sta per saltare”, e la libertà di circolazione nell’Ue; ma non salva le vite che si perdono nel Mediterraneo o lungo i cammini dei Balcani.

E’ una sopravvivenza a termine, condizionata. Come ammette pure il ministro Alfano: “Abbiamo poche settimane per evitare che Schengen si dissolva fra gli egoismi e le preoccupazioni nazionali, davanti a un’Europa che si dimostra incapace non tanto di decidere quanto di attuare le decisioni”.

In realtà, l’attuazione delle decisioni spetta più ai governi che all’Unione. E, anzi, una soluzione, che consentirebbe di guadagnare in efficienza risparmiando denaro, ci sarebbe: affidare all’Ue,
dandogliene le risorse, le frontiere esterne dell’Europa dei 28. In tal modo, la diffidenza reciproca verso i controlli effettuati da altri verrebbe meno e sicurezza, accoglienza, hotspots, respingimenti e redistribuzione sarebbero competenza comunitaria.

Come spesso capita, la risposta giusta, e pure vantaggiosa, dal punto di vista economico, sarebbe più Europa, non meno Europa. Ma i governi sono gelosi di prerogative e sovranità. Ad Amsterdam, ieri, i ministri hanno cominciato a lavorare alla proposta della Commissione di Bruxelles di creare un corpo di guardie di frontiera europeo che contribuisca a fronteggiare il flusso dei migranti, così come l’operazione Triton dell’agenzia Frontex contribuisce a ridurre le vittime in mare. Ma sono solo tasselli di un disegno che deve essere più ampio per risultare efficace.

Suonano, quindi, corrette, ma demagogiche, le parole del premier Renzi sulla sua e-news: "Mettere in discussione l'idea di Schengen significa uccidere l'idea di Europa. Abbiamo lottato per decenni per abbattere i muri: pensare oggi di ricostruirli significa tradire noi stessi". Per non farlo, bisogna che i Governi prendano le decisioni giuste e le mettano in pratica.

Invece, le decisioni dello scorso autunno vengono attuate con il contagocce. Come la ridistribuzione dei richiedenti asilo: solo 331 sono stati già trasferiti da Italia e Grecia verso altri Paesi dei 160 mila che i 28 si sono impegnati a trasferire in due anni. Al ritmo di cento al mese, ci vorranno cent’anni. Quanto a chi non ha diritto all’asilo, i dati sono parziali, ma i rimpatriati sono poche centinaia.

E ci sono pure decisioni di anni or sono che non sono state attuate, come i controlli su chi arriva: quelle che sono valse a dicembre all’Italia e ad altri Paesi procedure d’infrazione assurdamente contestate. E l’Italia mette in discussione gli aiuti alla Turchia, ‘invasa’ da milioni di siriani in fuga, per tre miliardi di euro, nonostante ne abbia condiviso a novembre l’assegnazione.

La riunione di ieri, la prima sul tema del semestre di presidenza di turno olandese del Consiglio dell’Ue, era informale e non poteva quindi portare a decisioni: quelle sono attese “al più tardi entro giugno”. Alcuni dei Paesi che hanno già reintrodotto controlli alle frontiere – Germania, Austria, Francia, Danimarca, Svezia, fra gli altri - chiedono alla Commissione di avviare la procedura che ne consente il prolungamento: si tratta di attivare l'articolo 26 dell’accordo di Schengen, che prevede proroghe di sei mesi ciascuna fino a un massimo di due anni. In Austria e Germania, i controlli in atto dovrebbero scadere a maggio.

Il ministro Alfano ha ricordato la posizione italiana, per maggiori controlli alle frontiere esterne, lasciando aperte quelle interne. Il tedesco de Maiziere ha insistito perché la Grecia registri, come previsto, i migranti. La Slovenia chiede un sostegno alla Macedonia perché filtri i profughi dalla Grecia.

Ad Amsterdam, s’è pure parlato del contrasto alla minaccia terroristica, partendo dalla condivisione di informazioni e banche dati.

Usa 2016: Iowa; Hillary e Bernie sortite tv parallele, Trump rampogna in chiesa

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 26/01/2016

A una settimana dalle assemblee di partito nello Iowa, che apriranno la stagione delle primarie, l’incertezza è grande sia fra i democratici che fra i repubblicani, a giudicare dal 'poll of polls' della Cnn, che fa la media dei sondaggi. Donald Trump è in leggero vantaggio sul fronte repubblicano, avendo riscavalcato Ted Cruz anche grazie all’ ‘effetto Palin’ (31% a 26%); Hillary Clinton e Bernie Sanders sono testa a testa sul fronte democratico (45% a 46%, un dato statisticamente irrilevante).

Fondamentale - concordano gli analisti - sarà il dato sull'affluenza. I dati sono più stabili a livello nazionale: Trump al 35% quasi doppia Cruz al 19%; e Hillary al 53% tiene a distanza Sanders al 38%, anche se il vantaggio s’erode un po’. L’ex first lady ha appena ricevuto l’appoggio del Boston Globe, il maggiore media tradizionale del democraticissimo Massachusetts.

I dati non tengono ancora conto della possibilità che Mike Bloomberg corra come ‘terzo uomo’. Pare intanto confermato che il magnate dell’editoria deciderà dopo il ‘Super-Martedì’, il 1° marzo.

Ieri sera, c’è stato nello Iowa una sorta di conferenza stampa televisiva parallela di Hillary e Sanders, che non si sono affrontati in un dibattito, ma si sono esibiti separatamente: Sanders, che punta sulla promessa di cambiamento, mentre Hillary rappresenta la continuità, è stato ‘ispirato’, ma l’ex segretario di Stato ha sprigionato grande energia, attaccando più Trump che il rivale, esprimendo riconoscenza per il presidente Obama e citando, come modello, Abramo Lincoln ("Mi spiace presidente Obama, mi spiace Bill").

Sanders, invece, ha denunciato il voto di Hillary in Senato nel 2002 a favore dell’invasione dell’Iraq e i suoi legami con Wall Street, ha difeso il suo essere ‘socialista’ –“Vuol dire ‘basta all’egemonia di pochi’”- e ha sostenuto che la sua esperienza lo qualifica come presidente. Hillary l’ha contrato: “Ci si può esprimere in poesia, ma si governa in prosa”.

Obama resta neutrale, ma dichiara “affetto” per Hillary – Il presidente Obama avverte Hillary che l’essere favorita nella corsa verso la Casa Bianca comporta "vantaggi, ma anche oneri". Lo dice in un'intervista a Politico: Obama si mantie neutrale fra i candidati democratici, pur dichiarando “affetto” per l’ex segretario di Stato, la cui esperienza non ha paragoni "tra i candidati che non sono mai stati vice presidenti" –un gesto di riguardo per il suo vice, e candidato mancato, Joe Biden-.

Per il presidente, Bernie Sanders "ha la virtù di dire esattamente quel che pensa, è molto autentico, ha grande passione e non ha paura", anche grazie "al lusso" di essere considerato "senza speranza". Obama rifiuta però il parallelo con l 2008, quando partendo sfavorito riuscì ad avere la meglio proprio sulla Clinton. Il presidente sottolinea come la campagna sia oggi molto diversa dal 2008, con la visione repubblicana "spostata sempre più a destra" e "irriconoscibile".

Per Trump a messa, un sermone rampogna – Per calcolo o per fede, domenica Donald Trump è andato alla funzione in una chiesa dello Iowa e e s’è dovuto sorbire un sermone - che suonava rampogna - sui valori cristiani, in primo luogo quello dell'accoglienza verso gli altri, rifugiati e immigrati clandestini messicani compresi.

Il magnate dell’immobiliare, presbiteriano, è andato alla First Presbyterian Church di Muscataine e s’è seduto in quinta fila. Il pastore, una donna, Pamela Saturnia, ha fatto il suo sermone sul tema dell'immigrazione, uno dei cavalli di battaglia di Trump nella corsa per la nomination repubblicana. "Oggi Gesù ci insegna che è venuto per coloro che sono fuori dalla Chiesa", ha detto il pastore, insistendo sul messaggio di accettazione per "coloro che sono i meno amati, i più discriminati, i più dimenticati". E ha proprio citato i rifugiati siriani, cui Trump vuole vietare l'ingresso perché li ritiene tutti potenziali terroristi, e i migranti messicani, che Trump vorrebbe rispedire tutti a casa, se sono in Usa irregolarmente.

Più tardi, in conferenza stampa, Trump ha detto di aver ascoltato la signora Saturnia, ma ha ribadito le sue posizioni: no agli immigrati clandestini e ai rifugiati siriani, che devono rimanere a casa loro, dove va loro garantita una 'safe zone'. In un comizio, lo showman ha sfoggiato una certa sicumera sul consenso popolare di cui gode: "Potrei stare in mezzo alla Quinta Strada di New York –ha detto- e sparare a qualcuno e non perderei neanche un voto". (ANSA – AGI – gp)

lunedì 25 gennaio 2016

Usa 2016: il 'terzo uomo', da Wallace a Nader storia d'insuccessi letali

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 25/01/2016

Mike Bloomberg, un ‘terzo uomo’ con licenza di vincere: quest’anno, l’ipotesi del terzo incomodo tra democratici e repubblicani pareva tramontata, dopo che erano rientrate le tentazioni solitarie sia di Donald Trump, deluso dalla freddezza nei suoi confronti del Comitato nazionale repubblicano, sia di Ben Carson. Entrambi avevano manifestato intenzioni ‘secessioniste’.

Ad agosto, in un'intervista al quotidiano The Hill, Trump accusava il partito di essergli stato "poco di sostegno", diversamente da quanto accadeva quando era "un donatore" dei repubblicani. Sull’ipotesi di correre da outsider, Trump diceva: "Dovrò vedere come mi trattato i repubblicani. Se non sono corretti, la prenderò in considerazione". A dicembre, Carson, allora in ascesa, minacciava, in un’intervista al Washington Post, d’andarsene “se il partito non rispetta la volontà degli elettori”.

Poi, entrambi hanno fatto marcia indietro: Trump, probabilmente, perché la corsa alla nomination gli s’è messa bene; e Carson, probabilmente, per la ragione opposta –il suo consenso sta evaporando e correre da solo sarebbe uno sfizio costosissimo-.

Ora, l’ex sindaco di New York e magnate dell’editoria, un ebreo di 73 anni, ridà corpo all’ipotesi. Conscio che il ‘terzo uomo’, nella tradizione elettorale degli Stati Uniti, non vince, ma può fare perdere. Lui, però, potrebbe essere l’eccezione, specie se i due maggiori partiti dovessero presentare candidati fortemente polarizzati, come Trump appunto e Bernie Sanders, il senatore ‘socialista’, lasciando un vuoto al centro.

Alle voci di candidatura di Bloomberg, i repubblicani reagiscono facendo spallucce: “Un problema per i democratici”. E Hillary si dice sicura di ottenere la nomination – nel qual caso, la candidatura di Bloomberg è meno probabile -, nonostante i sondaggi continuino a esserle sfavorevoli in Iowa e New Hampshire, i due Stati che aprono l’assegnazione dei delegati alla convention rispettivamente il 1° e il 9 febbraio. Sanders afferma che Bloomberg in campo gli garantirebbe la nomination, mentre Jeb Bush, di cui ci si ricorda sempre meno, non crede che l’ex sindaco si candidi. La Clinton ha intanto incassato nello Iowa l’endorsement del Des Moines Register, il maggiore media statale, che, fra i repubblicani, appoggia il senatore della Florida Marco Rubio – una doppia scelta molto ‘establishment’-.

A parte il fatto che il ‘terzo uomo’ è una dizione imprecisa, perché sulla scheda elettorale vi sono sempre candidati di contorno, a partire da quello del Partito libertario, che però non vanno (quasi) mai oltre l’1% dei suffragi, la storia del terzo incomodo è intessuta di speranze e successi. Vediamo i dati salienti nel dopoguerra.

Nel 1968, George Wallace, governatore dell’Alabama, democratico e razzista, si presentò come candidato del nuovo Partito Indipendente Americano: sperava d’impedire al candidato d’uno dei due maggiori partiti di avere la maggioranza assoluta dei Grandi Elettori. Se la decisione fosse così toccata alla Camera, si poteva rimettere in discussione la politica federale anti-egregazione. Wallace vinse in cinque Stati del Sud – è l’ultimo ‘terzo uomo’ ad avere conquistato almeno uno Stato-, ma il repubblicano Richard Nixon ottenne la maggioranza dei Grandi Elettori. Il candidato democratico Hubert Humphrey non ce l’avrebbe fatta neppure con i voti di Wallace.

Nel 1980, John Bayard Anderson, deputato repubblicano per vent’anni, si presentò al voto come indipendente: non vinse in nessuno Stato e non ottenne la maggioranza in nessuna circoscrizione, ma il suo 6,6% del voto popolare è la 6a prestazione per un ‘terzo uomo’ dall’inizio del XX Secolo, dietro il 27% di Theodore Roosevelt nel 1912, il 17% di Robert LaFollette nel 1924, il 19% di Wallace nel 1968 e di Ross Perot nel 1992 e l’8% ancora di Perot nel 1996. Nonostante Anderson, Ronald Reagan batté il presidente democratico Jimmy Carter, ‘azzoppato’ dalla crisi iraniana.

Nel 1992, e poi nel ’96, Ross Perot, un imprenditore del Texas miliardario, fondatore del Partito della Riforma, si candidò per scardinare il bipartitismo americano. Ottenne, soprattutto nel ’92, buon seguito – quasi un quinto del voto popolare -, ma non conquistò nessuno Stato. Fu però una delle cause della sconfitta di George Bush ad opera di Bill Clinton, perché gli sottrasse suffragi tendenzialmente repubblicani.

Nel 2000, Ralph Nader, avvocato, saggista, attivista ambientalista e predicatore dei consumatori, interprete della sinistra radicale, fu candidato alla presidenza dal 1996 al 2008, per i Verdi o come indipendente. Nel 2000, con il 2,7% dei voti popolari, fu determinante per la vittoria di George W. Bush e la sconfitta di Al Gore, che avrebbe conquistato la Florida e anche il New Hampshire con i suffragi di Nader. (gp)