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martedì 31 maggio 2011

SPIGOLI: neo Sistina, un Silvio Adamo e un poliziotto dio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/05/2011

Senza neppure attendere l’esito delle elezioni, la stampa estera metteva in croce, ieri e già nel fine settimana, Silvio Berlusconi, cui l’Economist riservava una vignetta michelangiolesca: Silvio è l’Adamo di una cappella Sistina rivisitata e porge il dito, anzi il polso, non al soffio della vita divino, ma a un poliziotto che gli vuole mettere le manette. E’ il modo del settimanale per illustrare, nell’agenda della settimana, l’udienza del Rubygate in calendario per oggi. Lo sfondo mistico s’attaglia bene pure alle ‘rivelazioni’ di Sabina Began, 36 anni, attrice e –lo dice lei- peccatrice, una delle organizzatrici delle feste bunga-bunga per il premier che “si sentiva solo”. Daily Mail e Telegraph danno molto risalto alle dichiarazioni a una radio della Began, nome d’arte Queen Bee, Ape Regina, che va in giro con un tatuaggio in gloria di Berlusconi sulla caviglia e che sostiene che Mr B “ama Dio, parla a Dio, è un credente, è un uomo spirituale e ha la casa piena di crocifissi: lui mi ha aiutato a trovare la fede, ad avvicinarmi a Dio”. Le cui vie, c’è da credere, sono davvero infinite, se passano anche per quelle del bunga-bunga ad Arcore (hardcore, nella traduzione un po’ goliardica dei quotidiani britannici). Pure la stampa francese annuncia l’udienza del Rubygate, ma, su questo terreno, i colleghi transalpini hanno del loro cui pensare: dopo l’arresto di DSK, allias Dominique Strauss-Kahn, ormai ex capo dell’Fmi, è saltato fuori, e s’è subito dimesso, un altro politico molestatore, il vice-ministro George Tron. E così Nouvel Obs manda in archivio la crasi ormai consunta tra Berlusconi e Sarkozy, Berluskozy, o Sarkosconi, e ne propone un’altra più adeguata ai tempi, e più in sintonia con quanto avviene nelle aule dei tribunali, Berluskahn.

Afghanistan: talebani all'offensiva, italiani nel mirino

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/05/2011

L’offensiva di primavera dei talebani va avanti ed i militari italiani in Afghanistan sono, una volta di più, nel mirino degli insorti. Questa volta, si registrano ‘solo’ cinque feriti, di cui uno grave, nessun morto. Ma il bilancio della missione, che oggi conta 4200 uomini, è già tragico: 37 caduti, decine di feriti. Ha un bel dire il presidente statunitense Osama bin Laden che l’uccisione del capo di al Qaida Osama bin Laden è stata un duro colpo per i talebani, scossi pure dalle voci, controverse e smentite, la scorsa settimana, di morte del loro leader, il mullah Omar.

“Abbiamo spezzato la spinta” dei guerriglieri integrqlisti, dice Obama. Ma l’operazione ‘Badar’, lanciata dai talebani proprio il 1° Maggio, il giorno dell’eliminazione di Osama, va avanti in tutto il Paese. E gli insorti colpiscono mentre i rapporti tra governo afghano e coalizione internazionale, l’Isaf, sono forse al punto più basso, dopo che un raid su Helmand ha ucciso 14 civili, fra cui numerosi bambini. Il presidente Karzai ha chiesto agli Stati Uniti di cessare “le azioni unilaterali”, vuole che raid e attacchi siano concordati. La Nato ammette l’errore, l’Isaf conduce un’inchiesta.

Ieri, a Herat, capoluogo della omonima provincia occidentale afghana, un commando di talebani forte anche da alcuni kamikaze –sarebbero quattro quelli entrati in azione- ha attaccato prima la base del Gruppo di ricostruzione provinciale (Prt), posta sotto responsabilità italiana, e poi altri due obiettivi sulla Blood Bank Road e vicino al Cinema Chowk. I morti confermati sono cinque, tutti agenti delle forze di sicurezza afghane, i feriti sono decine, fra cui i militari italiani –quello grave non sarebbe in pericolo di vita- e molti civili.

Secondo una prima ricostruzione di quanto avvenuto al Prt italiano, un kamikaze si è fatto esplodere davanti all’ingresso nel quartiere di Jada-i-Mahtab. Lo scoppio avrebbe permesso a uomini armati di penetrare all'interno del ‘fortino’, ingaggiando uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza afghane e internazionali. Il Prt di Herat è un complesso misto civile-militare attivo nello sviluppo d’infrastrutture (scuole, strade e altri progetti), gestito dal 132o reggimento di artiglieria terrestre della brigata Ariete di Maniago (Pordenone), comandato dal colonnello Paolo Pomella.

In un altro episodio, nell’Afghanistan orientale, due soldati della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (l’Isaf, appunto, sotto comando Nato) sono rimasti uccisi dallo scoppio di un ordigno posto lungo la strada. I militari stranieri caduti nel Paese sono almeno 214 dall'inizio dell'anno e 54 in questo mese, il maggio più sanguinoso dall'inizio dell’operazione Enduring Freedom nel 2001

Herat è, in questo momento, un obiettivo simbolico: la provincia, infatti, è una delle sette la cui sicurezza passerà a luglio dalla coalizione internazionale all’esercito e alla polizia afghani: un momento cruciale, sulla via della strategia del progressivo disimpegno che dovrebbe condurre, entro la fine dell’anno, a una riduzione del contingente dell’Isaf e, nel 2014, alla fine della missione.

Impossibile, o quasi, per l’Italia progettare di venirsene via ora, anche se la coalizione di governo appare sensibile alle sirene del disimpegno internazionale, in Libano, in Libia e altrove: lasciando l’Afghanistan adesso, l’Italia pagherebbe, nella Nato e con gli Stati Uniti, un costo politico-militare altissimo, di credibilità e d’affidabilità.

sabato 28 maggio 2011

Mladic preso: il brindisi del boia e l'ignavia dell'Onu

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/05/2011

Che fine ha fatto Thom Karremans, generale olandese, l'alto ufficiale - era tenente colonnello, all’epoca dei fatti - che assistette alla strage di Sebrenica con i suoi 'caschi blu', senza potere, o sapere, fare nulla per impedirla? La cattura, dopo 16 anni di latitanza, del responsabile di quel massacro, il comandante serbo-bosniaco Ratko Mladic, tira fuori dall'ombra della storia anche Karremans, di cui resta sul web l'ignominiosa foto del brindisi, forse coatto, con il 'boia'. Neppure la stampa olandese, pero', aggiorna la biografia dell'uomo che bevve la slivovica con Mladic.

Nel luglio 1995, i soldati olandesi, equipaggiati in modo inadeguato e senza mandato di intervenire, se non attaccati, dovevano garantire la sicurezza dell'enclave musulmana in territorio serbo-bosniaco. Invece, non s'opposero al massacro di quasi 8.000 uomini e ragazzi musulmani. Il dramma di Sebrenica, ricostruito più volte e con versioni diverse nelle aule dei tribunali, non impedi' a Karremans di fare carriera e ricevere decorazioni. Del resto, l'Olanda insigni' di meaglie tutta l'unita' che non impedì la strage; e ne difese l'operato dalle accuse e dalle critiche bosniache e internazionali.

Dai massacri rwandesi a quelli balcanici, Sebrenica, purtroppo, non e' l'unico esempio di passivita' e inefficienza di truppe Onu. E, dietro Srebrenica la strage di Mladic, si intuiscono pavidita', e forse porcherie occidentali, che il generale ora catturato potrebbe anche raccontare, anche se c'e' chi lo dice malato non solo d'alcolismo e malandato, addirittura affetto da un male incurabile che gli lascerebbe poco da vivere. E se ci vorrà solo una settimana per consegnarlo ai giudici dell’Aja, ci vorrà tempo perché il processo inizi. Mladic, che ha 69 anni, finira' nel carcere che ospita il suo referente politico Radovan Karadzic, gia' sotto processo, e dove mori', prima che si arrivasse alla sentenza, Slobodan Milosevic.

Ieri, dopo un interrogatorio sospeso perche' il generale aveva bisogno di cure, il tribunale di Belgrado l'ha giudicato trasferibile all'Aja. Il figlio e la difesa annunciano ricorso: "Mladic non puo' essere estradato perche' e' molto malato", e' la tesi. Si vedra' lunedì'.

Intanto, emergono particolari sull'arresto a Lazarevo, dove il 'boia' viveva, non si sa da quanto, in casa di parenti. Era in pigiama, in camera da letto, quando l'hanno preso. Nel villaggio e a Belgrado e in altre citta', nazionalisti serbi hanno inscenato proteste e gridato slogan pro Mladic (meno, pero', di quanto avvenne quando fu arrestato Karadzic). All'ingresso di Lazarevo, qualcuno ha scritto "eroe" su un cartello. Che lo si scriva li', si puo' capire. Che lo scriva, invece, un eurodeputato come il leghista Borghezio, inneggiando al bastione contro l'Islam, non ci sta proprio: una spia dell'oltranzismo anti-musulmano e xenofobo che sta infiammando l'Europa della paura.

Mr B al G8: è stalking sulla giustizia ai leader dei Grandi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/05/2011

Da un presidente (del Consiglio) a un altro (ma della Repubblica): Barack Obama, che la differenza ha già mostrato di saperla fare, raramente deve averla apprezzata come questa volta. Giunto a Varsavia da Deauville, dove ieri aveva subito attonito l’atto di accusa di Silvio Berlusconi contro la “dittatura” della magistratura italiana, vede a cena Giorgio Napolitano, insieme agli altri capi di Stato di 21 Paesi dell’Europa centrale. E, qui, Obama non corre rischi: né esternazioni né ricerca senza pudore di un dialogo a quattr’occhi; una stretta di mano calorosa, guardandosi bene negli occhi, e uno scambio di parole brevissimo, con da parte dell’americano, forse, un cenno di simpatia per il dramma sfiorato in Libano dai militari italiani.

A Deauville, invece, Mister B. aveva mandato in scena l’atto secondo del suo show sotto il tendone del circo mediatico del Vertice degli Otto Grandi. Vittima, dopo Obama, il presidente russo Dmitri Medvedev: la loro conversazione, anche stavolta registrata dalle telecamere, non è comprensibile come quella di ieri con l’americano, ma si capisce bene lo stesso che il premier italiano, ovviamente assistito dall’interprete, torna sul tema della giustizia e parla di “quattro accuse importanti”. Al termine del breve colloquio, Medvedev congeda Berlusconi con un sorriso e due pacche sul braccio (e un sospiro di sollievo).

Berlusconi, dal canto suo, si vanta di non avere risparmiato nessuno, a Deauville: “Ho parlato con tutti i leader del G8”, dice. “Era mio dovere informarli su quello che succede in Italia”, afferma, riferendosi “a 24 accuse contro di me cadute nel nulla” (nel corso della conferenza stampa, diventeranno poi 31). Siamo all’ormai consueto festival dei numeri, cui partecipa il ministro degli Esteri Franco Frattini: precipitandosi in soccorso del premier, dichiara che le sue affermazioni “denotano una sofferenza profonda, la sofferenza umana di una persona che in 17 anni è stata colpita da 200 processi penali, uscendone senza nessuna condanna. Un dolore che bisogna certamente comprendere”.

Chissà se l’ha compreso il presidente Obama, con cui Berlusconi asserisce di avere svolto “un ragionamento più ampio” di quello riportato “dai titoli di alcuni giornali”. Difficile però comprendere di quanto più ampio potesse essere un discorso tutto ripreso dalle telecamere e durato un paio di minuti, traduzione compresa. Vero è che Obama non ha detto una parola, ma Berlusconi, nel suo monologo, ha avuto giusto il tempo per lamentarsi della giustizia e di vantare la sua nuova maggioranza politica ‘comprata’ al supermercato delle prebende.

Ma, naturalmente, per Mr B la delegittimazione dell’Italia sul piano internazionale non è colpa sua e dei suoi atteggiamenti, ma “di certa informazione che, anziché narrare i fatti, tende a screditare le istituzioni del nostro Paese”. Berlusconi respinge l’accusa dell’opposizione di avere gettato fango sull’Italia al G8. “E’ più che doveroso – insiste – spiegare la situazione italiana a chi, specie all’estero, non riesce a comprenderla perché troppo spesso travisata dalla stampa”.

E mentre Davide Zoggia, un responsabile del Pd, gli rimprovera “molestie” ai leader dei Grandi, importunati dalle sue lamentele e dai suoi aggressivi siparietti ‘testa a testa’, Berlusconi quasi se ne vanta: “Qui al Vertice ho ricordato a tutti che le accuse a me rivolte sono state tutte giudicate false. E ho difeso l’istituzione del presidente del Consiglio, che è qui a rappresentare l’Italia e che deve avere un prestigio non diminuito dalle notizie sui giornali stranieri che spesso riferiscono solo le accuse e non le conclusioni dei processi”.

Al Vertice, la perdita d’influenza dell’Italia di Berlusconi è evidente. Se c’è un tema su cui potrebbe parlare con competenza persino eccessiva, è la Libia, vista l’amicizia con il colonnello Gheddafi. E, invece, quando prova a dire la sua (che il figlio minore del dittatore non sarebbe morto), la Nato quasi lo smentisce: “Noi non ne sappiamo nulla”.

Come ha fatto con i leader, anche con la stampa il premier rilancia il suo ‘j’accuse’ contro i magistrati, che “hanno più volte interferito nella vita politica” italiana e “hanno addirittura creato in alcuni casi crisi di governo e provocato la caduta d’esecutivi, democraticamente eletti, con il conseguente ricorso a elezioni anticipate. Sono venuti meno i bilanciamenti previsti dalla nostra Costituzione e i magistrati colpevoli non sono stati sanzionati per le loro responsabilità”. Nei suoi confronti, poi, le interferenze sono basate “su accuse completamente destituite di ogni fondamento e che mai hanno retto al vaglio dei magistrati giudicanti: ma io risulto colpevole perché i giornali danno notizia dei procedimenti che mi riguardano e non raccontano il seguito”.

Berlusconi parte dalla difesa delle istituzioni, ma poi la lingua finisce con l’andare a battere dove il dente duole: dice che non vuole lasciare l’incarico da condannato e, soprattutto, si denuncia “aggredito” anche sul piano patrimoniale (un riferimento, pare a tutti, al ‘lodo Mediaset’, la cui sentenza è attesa dopo il voto di domenica):

Se Berlusconi non prova rimorso per i ‘confessionali’ di Deauville, moltissimi italiani ne sono imbarazzati: in migliaia, lasciano messaggi sulla bacheca facebook di Obama, scusandosi in inglese (“Sorry Mr President”) e aggiungendo talora che “he –lui, cioè Berlusconi- is not speaking in my name”, non parla a nome mio). Pochi, al confronto, quelli che danno manforte al premier: “Presidente, li perdoni, gli italiani di sinistra non sanno quel che fanno”.

venerdì 27 maggio 2011

Mladic preso: merce di scambio per la Serbia nell'Ue

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/05/2011

L’arresto di Mladic è stato annunciato proprio mentre il capo della diplomazia europea Catherine Ashton era a Belgrado per discutere col presidente Tadic come dare un colpo d’acceleratore al processo di adesione della Serbia all’Ue, frenato proprio dal perdurare della latitanza del generale serbo-bosniaco, oltre che di Hadzic. La Ashton, che non ha il dono della battuta al fulmicotone, esprime soddisfazione, parla di passo avanti importante e chiede che il generale sia deferito «senza indugio» al tribunale dell’Aja.

Al di là della balbuzie politica della Lady Europa, la cattura di Mladic dà certamente una spinta alla candidatura della Serbia all’Ue: Belgrado, che presento’ la domanda d’adesione nel dicembre del 2009, puntava a ottenere, di qui a fine anno, lo statuto di Paese candidato all’adesione. Difficile, adesso, che non ce la faccia: la Commissione sta mettendo a punto il suo parere, da sottoporre poi ai leader dei 27.

A Bruxelles, un collega della Ashton, Stefan Fule, responsabile dei negoziati d’allargamento dell’Ue, è meno impacciato: «Un grande ostacolo sulla via serba verso l’Unione europea è stato tolto –dice-. E’ un grande giorno non solo per la Serbia, ma anche per i Balcani occidentali e per tutti noi».

Nessuno dei Paesi della ex Jugoslavia protagonisti della stagione di guerre e di orrori degli Anni 90 è già entrato nell’Ue: a parte la Slovenia, il cui distacco, pero’, avvenne pêr primo e fu relativamente indolore, gli altri Stati nati dalla disgregazione della Federazione di Tito sono ancora in lista d’attesa. E se i negoziati con la Croazia sono molto avanzati e ormai prossimi alla conclusione, quelli con Bosnia, Montenegro e Macedonia devono ancora cominciare.

L’annuncio dell’arresto di Mladic è stato salutato con soddisfazione in Bosnia, dove Hajra Catici, presidente di un gruppo di familiari delle vittime ‘Donne di Srebrenica’, manifesta “sollievo”. E c’è soddisfazione e sollievo ovunque in Europa e nel Mondo, al vertice del G8 di Deauville, dove il presidente di turno, ; il francese Nicolas Sarkozy parla di «un passo in più verso l’integrazione della Serbia nell’Ue». I tempi saranno ancora lunghi, l’Olanda insisterà perchè anche Hadzic sia preso, ma un masso è stato tolto. Ed era il più grosso.

Mladic preso: il 'boia di Srebrenica' catturato a casa sua

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/05/2011

Tempi duri per i nemici pubblici numeri uno: prima, Osama bin Laden ammazzato; ora, Ratko Mladic preso. Il presidente serbo Boris Tadis ha annunciate ieri l’arresto del comandante militare dei serbi di Bosnia, il generale Mladic, il boia di Srebrenica, l’uomo più ricercato d’Europa dalla giustizia internazionale. La cattura di Mladic, che sarebbe il frutto di un’operazione d’intelligence protrattasi per tre anni, pone termine a una latitanza di quasi 16 anni e spiana la via all’adesione della Serbia all’UE.

L’annuncio di Tadic è stato scarno e laconico: «Presto al mattino, Ratko Mladic è stato arrestato sul territorio serbo». Il generale, che, alcune settimane fa, la moglie, chiamata a testimoniare in un processo, aveva dato per morto, forse nel tentativo d’allentare la pressione della ‘caccia all’uomo’, non s’era quindi rifugiato all’estero: l’ennesima conferma che i grandi latitanti, di crimini contro l’umanità, di terrorismo, o di mafia, si sentono più sicuri e si nascondono meglio vicino a casa, dove magari godono di protezioni e complicità, piuttosto che in qualche località remota.

Media serbi sostengono che il comandante serbo-bosniaco è stato preso a Lazarevo, una località nel Nord-est della Serbia, a un centinaio di chilometri da Belgrado, non lontano dalla frontiera con la Romania. Al momento dell’arresto, riferiscono sempre fonti di stampa, Mladic era armato con due pistole, ma non ha opposto resistenza. Durante la latitanza, l’uomo non avrebbe cercato di alterare i propri connotati, ma l’età l’ha reso difficile da riconoscere rispetto alle immagini della guerra di Bosnia.

Il processo d’estradizione verso l’Aja è già avviato e potrebbe prendere una settimana. Mladic deve essere giudicato dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, che lo ha incriminato per genocidio, crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Sotto accusa, il ruolo avuto dal generale nella guerra di Bosnia (1992/’95) : l’episodio più atroce fu la strage di Sebrenica, lo sterminio di circa 8.000 uomini e adolescenti musulmani bosniaci assassinati dalle forze serbo-bosniache e gettati in fosse comuni ; ma le cronache dell’epoca ricordano pure gli orrori dell’assedio di Sarajevo.

Per il presidente Tadic, l’arresto di Mladic è «il risultato di una piena collaborazione» tra la Serbia e il tribunale dell’Aja : «Oggi, chiudiamo un capitolo della nostra storia. Cio’ ci conduce verso una piena riconciliazione nazionale». La procura serba per i crimini di guerra fa eco al presidente: «Giustizia è fatta. Arrestando Mladic, la Serbia si confronta con il suo passato e compie un dovere morale verso le vittime e e loro famiglie».

L’arresto non mette fine all’inchiesta sulla latitanza di Mladic: resta da scoprire chi gli ha consentito di sottrarsi alla cattura per tutto questo tempo e se abbia goduto di aiuti o complicità da parte di componenti, o di esponenti, dell’apparato statale o militare.

I principali protagonisti e responsabili delle atrocità delle guerre nella ex Jugoslavia degli Anni 90 sono stati ormai assicurati alla giustizia: tutti tranne Goran Hadzic, all’epoca capo militare dei serbo-croati. La cattura di Mladic segue di quasi tre anni quella cal capo politico dei serbo-bosniaci, Radovan Karadzic, arrestato a Belgrado nel luglio 2008 e tuttora sotto processo.

Mr B al G8: in ginocchio da Obama, che non se lo fila

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/05/2011

Un colloquio rubato, in modo francamente imbarazzante, visto che Mr B un bilaterale vero tutto per lui dal presidente americano non l’ha ottenuto. Un colloquio di straforo prima dell’inizio dei lavori del G8 di Deauville, quando gli altri leaders dei Grandi si scambiano saluti o magari affinano le intese sulle linee da tenere in riunione, o ancora si consultano con il proprio staff per essere sicuri di quel che diranno.

Berlusconi, invece, è in agguato : lui, che ha l’arte dell’inserimento, coglie un attimo in cui Obama è solo e ne cattura l’attenzione, trovandolo con la guardia abbassata, senza un diplomatico intorno a fargli velo, senza qualcuno accanto da presentargli cosi’ da allentare la presa. Una scena che fa male: Mr B quasi chino su Obama, che è inizialmente seduto, ma che avverte per educazione la necessità di alzarsi e ascolta senza spiccicare una parola e senza neppure annuire troppo, con l’aria di chi annaspa cercando di capire quello che l’altro gli sta dicendo.

Se ne rende conto pure Berlusconi, che il suo inglese non gli basta a fare comprendere a Obama un concetto cosi’ strampalato come «la dittatura dei giudici di sinistra», oppure l’architettura della sua nuova maggioranza ‘politico-comprata’; e cosi’ ricorre, fantozzianamente, all’interprete, che gli sta un passo discosta.

Di numeri al G8, Mr B è abituato a farne: Angela Merkel ancora si ricorda il ‘popi-popi’ che le fece da dietro sulle spalle nel 2006, quando il G8 si tenne in Germania: lei sussulto’, visibilmente sorpresa e irritata. Nè le gaffe al G8 sono –va riconosciuto- un’esclusiva italiana: Bush e Blair ancora arrossiscono per il fuori onda ingenuissimo al buffet di chiusura del vertice di San Pietroburgo nel 2005. Episodi da snocciolare ce ne sono a iosa.

Questa volta, pero’, la tempesta è (quasi) tutta nel mare italiano. Obama a parte, che resta incastrato, gli altri non ci badano. E molti grandi media o non se n’accorgono o non gli danno importanza. La Reuters, ad esempio, manco tiene conto della presenza di Berlusconi a Deauville: lo cita, si’, nei tioli di giornata, ma da Roma e solo per dire che «rischia la sconfitta in elezioni municipali chiave» e che « riceve uno schiaffo » dalla Confindustria. E La Afp lo annovera fra i partecipanti e nulla più.

Mancano, per ora, commenti ufficiali da parte americana. E difficilmente ci saranno. Obama ascolta Mr B con partecipe cortesia e nulla più, anzi con la preoccupazione non troppo dissimulata di ritrovarsi coinvolto in qualche pastrocchio. Fortuna che Sarkozy lo trae d’impaccio dando inizio ai lavori: Silvio deve andare al suo posto e Barack puo’ finalmente farsi spiegare da un qualche collaboratore che cosa voleva quello.

giovedì 26 maggio 2011

SPIGOLI: G8, i Grandi a Deauville, attese senza risposte

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/05/2011

Tutti i Grandi a Deauville, dove, oggi e domani, va in scena il più grande spettacolo annuale della politica internazionale. No: il cinema, che a Deauville è di casa, per via del Festival, non c’entra. L’evento è il G8, l’appuntamento dei Potenti del Mondo, un po’ offuscato, da due anni in qua, dal G20, ma sempre capace di mobilitare l’attenzione della stampa di tutto il Pianeta. Per cosa, poi, staremo a vedere, perchè sull’agenda del presidente statunitense Barack Obama e dei suoi colleghi –ci sarà pure Mr B- ci sono tutte le sfide del momento, la lenta uscita dalla crisi economica e l’impatto della tragedia nucleare giapponese sulle prossime scelte energetiche, la scia della primavera araba e come conciliare speranze democratiche e attese economiche. E le misure di sicurezza eccezionali ricorderanno a tutti successi e insidie della lotta contro il terrorismo. L’Europa preconizza « risposte ambiziose », ma già aspettarsi risposte pare ottimista, a meno di non accontentarsi della sommatoria degli aiuti al Nord Africa e al Medio Oriente (nella serie, noi vi diamo un po’ di soldi e voi ve ne state a casa vostra e non venite in troppi a casa nostra). Il presidente americano s’è allenato alla partita dei Grandi, ridotta ad avanspettacolo della finale di Champions, giocando a ping pong e cucinando hamburger con il premier britannico Cameron e declinando con lui, sulla Libia come sul domino dei satrapi, la relazione tra Usa e Gb che non è più solo speciale, ma anche essenziale. Obama, pero’, mastica un po’ amaro per l’ennesimo no incassato dal premier israeliano Netanyahu. Magari, quando, come anticipa Michelle, il presidente sarà una donna, gli israeliani le diranno di si’.

mercoledì 25 maggio 2011

SPIGOLI: Obama a Londra è un turista un po' distratto

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/05/2011

In Europa, ma con un orecchio a Washington, dove il premier israeliano Netanyahu parla al Congresso riunito, e un occhio puntato sul Medio Oriente (e l’altro sul Missouri devastato dai tornado, dove andrà domenica, appena rientrato dal viaggio oltre Atlantico): è una missione ‘strabica’, quella che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama sta compiendo in Europa. Qui non ha nulla da fare, se non farsi vedere disteso e sorridente accanto ad amici e alleati. Non a caso l’attenzione della stampa europea e americana è modesta: qua e là, sul FT ad esempio, foto di Barack e Michelle che bevono la loro Guinness nel pub del villaggio dell’antenato irlandese; qualche richiamo in prima pagina; ma, in generale, una copertura discreta, in attesa che il circo mediatico del G8 metta le tende a Deauville e trasformi la concentrazione dei leader in notizia. In realtà, il vulcano islandese dilata la prima giornata londinese del presidente americano, che, per non restarne bloccato, lascia l’Irlanda lunedi’ sera ed arriva in Gran Bretagna con una notte d’anticipo. Cosi’, la cronaca è rarefatta: un articolo sul Times scritto a quattro mani col premier britannico Cameron; la visita in famiglia a Downing Street; l’accoglienza a Palazzo tra salve di cannone, cornamuse, inni; l’incontro con William e Kate, di cui Barack e Michelle occupano –ma non ce n’era proprio un’altra libera?- la camera da letto della prima notte. La Cnn dedica alla visita scampoli d’informazione; e i conduttori hanno per gli inviati una sola domanda, «il presidente guarda in televisione il discorso di Netanyahu?».

Immigrazione: Europa fortezza della paura, soldi ma a casa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/05/2011

Visti più facili in cambio di reimpatrii più facili: un baratto che la Commissione europea vuole proporre ai ‘vicini’ dell’Ue sulla riva Sud del Mediterraneo. Ma, prima, l’Esecutivo di Bruxelles deve convincere i governi dei 27 che questo è uno strumento che consente di modulare i flussi migratori della primavera araba senza compromettere la libertà di circolazione nell’Unione.

La responsabile europea degli affari interni, Cecilia Malmstroem, svedese, ha ieri presentato una comunicazione che vuole risponde, fra l’altro, alle questioni sollevate dal presidente francese Sarkozy e dal presidente del Consiglio italiano Berlusconi nella lettera congiunta inviata al presidente della Commissione José Manuel Barroso e al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy.

La prospettiva è quella di creare con il Sud del Mediterraneo una partnership per la democrazia e per una prosperità condivisa, con l’obiettivo di avviare «un dialogo sulle migrazioni, la mobilità e la sicurezza» con i Paesi della Regione , a cominciare da Tunisia, Egitto e Marocco. E la Commissione, per riuscirci, è pronta a mobilitare, di qui al 2013, 1,2 miliardi d’euro in più di quanto finora previsto per fare fronte alle esigenze immediate della Riva Sud e per incoraggiarne i popoli e i governi a fare davvero progressi verso la democrazia.

Pare un’accelerazione alla ricerca di una soluzione; e nelle intenzioni di Bruxelles lo è. Ma le procedure comunitarie hanno le loro ritualità: la comunicazione della Malmstroem sarà ora esaminata dai ministri dell’interno dei 27 e, dopo essere stata rivista in base ai loro commenti, diventerà una proposta da sottoporre ai capi di Stato e di governo alla vigilia del Vertice europeo di fine giugno.

Li’, andrà a finire che il Vertice ne prenderà atto, senza pero’ decidere perchè –diranno i leader- non ci sarà stato ancora il tempo di esaminarla a fondo. Cosi’, il pacchetto di provvedimento tornerà ai ministri. E, di questo passo, si arriverà alla prossima crisi ancora a metà del guado. E, naturalmente, diranno i governi, la colpa sarà di Bruxelles che non fa nulla.

La Malmstroem ha in mente accordi "su misura" Paese per Paese, prevedendo tra l'altro facilitazioni per l'ingresso nell’Ue di studenti, ricercatori e uomini d'affari, contrastando, da una parte, l’immigrazione clandestina e favorendo, dall’altra, quella regolare, cosi’ che l'Europa possa continuare a procurarsi la manodopera che le serve.

Nel pacchetto è pure prevista una clausola di salvaguardia –cui ricorrere solo come ‘ultima ratio’- che consenta di reintrodurre i visti "in caso di improvvisi aumenti dei flussi" dai Paesi per cui sono stati aboliti, come quelli dei Balcani occidentali. Inoltre, c’è una revisione della politica dell'asilo.

Ma mentre la Malmstroem presenta la sua ricetta che non nega l’accoglienza, anche se la modula di fronte alle paure alimentate dai governi nelle opinioni pubbliche, in una sala del Parlamento europeo l’eurodeputato leghista Mario Borghezio agita la « questione bianca », presentando un libro sul razzismo ‘anti-bianchi’ dell’avvocato francese Gilles William Goldnadel, un difensore di Oriana Fallaci.

martedì 24 maggio 2011

SPIGOLI: la retrocessione dell'Italia, Mr B e 'Super-Giulio'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/05/2011

Il litigio italico-leghista sul trasloco dei ministeri e l' “aggressiva offensiva” mediatica (El Mundo) di Mr B non appassionano molto la stampa europea, più attenta, in queste ore elettorali, ai risultati spagnoli e tedeschi che confermano il momento di difficoltà delle forze al governo, quale che ne sia il colore –e prima c’erano stati i casi irlandese e finlandese-. Quel che interessa è la “retrocessione” (FT) dell’outlook dell’Italia da stabile a negativo ad opera di S&P e la reazione piccata di Tremonti e del governo: l’Italia è “sotto sorveglianza”, cresce la pressione sul debito, tutta l’eurozona è più fragile. Le Figaro mette in prima pagina sul suo sito una notizia Reuters sull’imminente manovra: “L’Italia prepara un piano di rigore da 40 miliardi di euro” e ne serra i tempi per “dare un segnale
ai mercati” dopo l’avvertimento di S&P. “Indeboliti” dal recente “scacco elettorale”, Mr B e ‘super-Giulio’ vogliono, cioè, contrastare l’impressione creata dall’agenzia di rating facendo comprendere che il governo “tiene saldamente i cordoni della borsa”. Nonostante altre agenzie non condividano l’analisi di S&P, l’Italia, secondo Les Echos, finisce inevitabilmente “sotto sorveglianza negativa”: Il quotidiano economico francese scrive che la mossa di S&P potrebbe fare salire l’attenzione dei mercati sull’economia italiana, che deve affrontare sfide per lei “troppo ardue”. Nell’attesa che i ballottaggi di domenica dicano se anche le sfide politiche sono “troppo ardue” per il governo Berlusconi.

Obama in Europa: mini-missione senza posta in palio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/05/2011

E’ lunedì e, quindi, questa deve essere l’Irlanda: la vecchia battuta sui viaggi europei ‘mordi e fuggi’ dei turisti giapponesi Anni Ottanta pare adattarsi bene alla missione europea del presidente Barack Obama: sei giorni, quattro Paesi, un Vertice del G8 che lo costringerà a fermarsi due giorni a Deauville, in Francia, e l’impressione di un programma concepito per dovere d’ufficio, piuttosto che per interesse o necessità. E le prime due tappe, l’Irlanda e la Gran Bretagna, sembrano proprio cartoline turistiche.

Di Italia, poi, ce n’è proprio poca, in questo viaggio del presidente statunitense. In fondo, è giusto così: in Italia, c’è venuto nel 2009, per il vertice del G9 dell’Aquila e per incontrare il papa. Per quello che se n’è poi saputo, l’esperienza per il momento gli è bastata. Questa volta, gli capiterà d’imbattersi a Deauville nel presidente del Consiglio Berlusconi e, a Varsavia, nel presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che venerdi 27 e sabato 28 maggio parteciperà all’incontro annuale dei capi di Stato dei Paesi dell'Europa centrale. Al pranzo di lavoro conclusivo, sarà presente come ospite speciale il presidente Obama: Barack, con Giorgio, ha un feeling speciale, superiore a quello con Silvio, come dimostrò invitandolo a prendere il te alla Casa Bianca quando voleva capire qualcosa di quanto stava accadendo in Italia.

Tutta la missione ha un’impronta un po’ consolatoria: lenire le gelosie dell’Europa che, dal giorno dell’insediamento del primo presidente nero d’America, se ne sente un po’ trascurata e non avverte la sua passione ricambiata. Ma la scelta delle tappe non sempre lascia emergere un forte interesse politico. Se c’è un Paese che pochi problemi pone agli Stati Uniti, questo è l’Irlanda: proprio lì, Obama, è sbarcato ieri, sostanzialmente per andare a visitare il villaggio di Moneygall, 350 abitanti in una campagna da queste parti verde per antonomasia, da dove partì per l’America il suo bis-bis-bis-nonno Falmouth Kearney. Un’ora di sosta, l’incontro con un cugino di ennesimo grado scovato per l’occasione, Henry Healy, ragioniere, 26 anni, una guinness al pub, il vento che nonostante la lacca scompiglia di capelli di Michelle; e poi incontri politici d’obblifo e un discorso all’aria aperta sui temi dell’immigrazione.

Una notte a Dublino e poi via a Londra, per tre giorni a Buckingham Palace. Vi alloggiò anche il suo predecessore George W. Bush: una visita blindata, durante la quale non uscì praticamente mai dalla residenza della regina perché le vie di Londra erano piene di contestatori dell’invasione dell’Iraq e delle scelte ‘neo-cons’ dell’Amministrazione repubblicana. Obama, il problema non ce l’ha: in Europa, il presidente resta più popolare che in America, un dato costante da quando è comparso sulla scena internazionale.

Ma Dublino e Londra sono tappe a rischio nel segno della sicurezza e del rischio di colpi di coda del terrorismo internazionale, dopo l’uccisione, il 1.o Maggio, di Osama bin Laden, capo e fondatore della rete al Qaida. In Irlanda, poi, dove è appena stata la regina d’Inghilterra Elisabetta II, sono sempre attivi i dissidenti repubblicani nord-irlandesi, autori di minacce d’attentati rimaste senza seguito.

Da Londra, Obama si sposterà in Francia, a Deauville, al vertice del G8, sulla carta l’impegno politicamente più impegnativo della missione, e infine in Polonia, per galvanizzare il rapporto con l’alleato più solido dell’ex blocco comunista.

domenica 22 maggio 2011

SPIGOLI: Povero Nord!, anche i ricchi piangono miseria

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/05/2011

Gli stereotipi sono duri a morire, ma talora c'e' chi, per ammazzarli, e' disposto a sostenere le tesi più azzardate e improbabili. Un rapporto d'un centro studi veneziano, Sintesi, indica che citta' italiane al Nord comunemente considerate ricche, perche' lo sono, come Milano, Brescia e Como, oltre alla stessa Venezia, corrono più rischi di poverta' del Sud. Naturalmente, c'e' il trucco: lo studio tiene conto della capacita' di spesa locale, non regionale e nazionale, e, quindi, considera soglie di poverta' diverse da citta' a citta': al Sud, più basse; al Nord nettamente più alte, con il rischio, dunque, di scivolarci sotto più facilmente. Il WSJ ci abbocca, ma solo fino a un certo punto, perche', nel citare il rapporto, mette in evidenza che lo studio pare fatto apposta per sostenere la causa del federalismo e per avallare le rivendicazioni nordico-leghiste. Che poi chi gioca al gioco dello stereotipo rovesciato gioca con il fuoco e rischia, a sua volte, brutte sorprese. Alzi la mano chi crede che evasione fiscale ed economia in nero siano più diffusi al Sud che al Nord. Tutti? E invece un'analisi dello Svimez, meridionalista d'ufficio, dimostra che l'evasione fiscale pesa, sia pur di poco, più al Nord che al Sud. Anche qui, pero', c'e' il trucco: i redditi al Nord sono nettamente più alti che al Sud e, quindi, relativamente pochi evasori nordisti sottraggono al fisco somme maggiori dei molti sudisti.

Onu: diritti umani, Italia e facce di bronzo nel Consiglio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/05/2011

Per la serie, 'facce di bronzo'. O magari, evangelicamente, chi e' senza peccato scagli la prima pietra (cosi', nessuno rischierebbe di finire lapidato). Il Consiglio diritti umani dell'Onu, sede a Ginevra, rinnova i propri ranghi e richiama l'Italia in servizio permanente effettivo, ma non evita le polemiche: difficile trovare campioni senza fallo dei diritti dell'uomo. Anche se sono lontani gli anni in cui gli Stati Uniti del presidente Bush lasciarono l'analogo organismo allora esistente, stufi di vedervi Cuba e magari l'Iran esaltati come campioni dei diritti fondamentali. La crisi sfocio' nella creazione nel 2006 dell'attuale Consiglio.

Venerdì, l'Assemblea generale dell'Onu ha scelto 15 Paesi, tra cui l'Italia, per fare parte del Consiglio per i prossimi tre anni. L'Istituzione e' forte di 47 elementi e viene rinnovata per un terzo ogni anno. Questa volta, e' rimasta fuori la Siria, sotto schiaffo per la repressione delle proteste che continua da settimane e che ha gia' fatto centinaia di vittime. Fiutata l'aria pesante, Damasco giorni fa aveva ritirato la propria candidatura. Nonostante tutto, la Siria ha avuto cinque preferenze; e i Paesi arabi, che hanno condotto in porto la candidatura alternativa del Kuwait, si sono gia' accordati per rigiocare la carta siriana nel 2013 o nel 2014, quando l'eco delle stragi di Daraa si sara' persa. Un segno che la primavera araba non e' ancora radicata in profondo nei cuori e nelle menti dell'Islam.

Proprio ieri, le forze di sicurezza siriane hanno di nuovo aperto il fuoco, uccidendo cinque persone e ferendone una ventina davanti al cimitero di Homs, durante i funerali di una decina di vittime della repressione delle manifestazioni contro il regime del presidente Bashar al-Assad.

L'anno scorso, era toccato all'Iran di Mahmud Ahmadinejad ritirarsi per evitare la bocciatura, ricevendo in cambio -quasi uno sberleffo- un posto alla Commissione Onu sullo stato della donna. E solo a marzo, dopo i bombardamenti ordinati da Muammar Gheddafi sui civili insorti, la Libia e' stata espulsa dal Consiglio di Ginevra.

L'Italia, che aveva già fatto parte dell'organismo dal 2007 al 2010, ha ottenuto un nuovo mandato, raccogliendo 180 voti (su 194). Pure promossi Benin, Botswana, Burkina Faso e Congo (Africa); Filippine, India, Indonesia e Kuwait (Asia); Cile, Costa Rica e Perù (America Latina, Nicaragua fuori); Georgia e Austria (Europa).

Le organizzazioni umanitarie sono critiche verso il Consiglio colpevole di "grandi omissioni" perche' non osa mai criticare ad esempio Cina, Cuba e Russia (tutti con poltrona a Ginevra).

venerdì 20 maggio 2011

SPIGOLI: hit parade degli abusi, Mr B c'è, DSK non ancora

Scritto per Il fatto Quotidiano del 20/05/2011

Per il momento, Silvio Berlusconi è in classifica, anche se non sta sul podio, e Dominique Strauss-Kahn non c’è ancora. Ma Time, settimanale americano che si diverte a compilare classifiche su tutti i temi della commedia umana, che qualche volta è tragedia, assicura che ci finirà di sicuro, se sarà riconosciuto colpevole. DSK dietro o davanti Mr B? ‘Questione da bunga bunga’ per i giurati della rivista. La classifica, compilata sul tamburo, è quella degli abusi di potere: lista da tempi moderni, non certo storica, perché sennò Caracalla e il suo cavallo nominato senatore un posto ce l’avevano di sicuro. Questa volta, la ‘hit parade’ di Time non è proprio americano-centrica, anche se in vetta c’è il Watergate, lo scandalo degli Anni Settanta che costò la presidenza a Richard Nixon, e al terzo posto, un po’ sopravvalutate, diremmo, ci sono le orge d’ispirazione classica del finanziere Dennis Kozlowski. E poi di tutto un po’: le Telecom indiane al secondo posto e il nepotismo di Gheddafi, il presidente stupratore israeliano Katsav appena davanti al premier donnaiolo nostrano, le storie di sesso di Kim John Il e gli abusi pederastici di un vescovo belga, casi di corruzione cinesi e britannici. L’esercizio di Time è uno dei tanti ‘divertissements’ della stampa internazionale sulla vicenda DSK. E spesso Mr B ci finisce dentro, anche quando lo sguardo è oggettivo come quello del WSJ: “In Europa, le opinioni su Strauss Kahn variano; in Italia, abbondano i paragoni con Berlusconi”. Ma Les Echos assolve un po’ tutti, perché, dicono gli psicologi, “gli uomini di potere sono più inclini a derive sessuali”.

MO: Obama schiera l'America con la primavera contro i satrapi

Scritto per Il fatto Quotidiano del 20/05/2011

Barack Obama annuncia un nuovo approccio degli Stati Uniti verso il Medio Oriente; e chi non ha proprio fantasia riparla di Piano Marshall. Un piano di aiuti per miliardi di dollari, in effetti, c’è, negli impegni del presidente, ma non è il punto focale, né il fatto nuovo, del discorso, il più importante rivolto al Mondo arabo dopo quello del Cairo all’inizio del mandato.

Nella prima riflessione organica sulla politica internazionale dallo sbocciare della primavera araba e dall’avvio del domino dei satrapi –“due leader hanno lasciato, altri seguiranno… c’era troppo potere in poche mani, ora c’è aria nuova”-, Obama colloca l’America al fianco di quanti manifestano per la democrazia. E giudica la pace in Medio Oriente “più importante che mai”, sollecitando un rilancio dei negoziati –“lo ‘statu quo’ è insostenibile”, dice- e riproponendo, corretta, la formula dei due Stati per due popoli, l’israeliano e il palestinese che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza. E, per questo, aggiunge lo Stato palestinese dovrà essere “smilitarizzato”, e i confini di Israele dovranno essere basati su quelli del 1967. Ma pochi credono che la novità e l’appello possano davvero fare ripartire la trattativa, in un momento di grande incertezza che acuisce la prudenza e la diffidenza israeliane. Il premier Netanyahu dice no a un ritiro sulle posizioni di 44 anni or sono: Hamas non gradisce; solo l'Anp ci sta.

Obama parla anche dell’uccisione da parte di un commando americano di Osama bin Laden, capo e fondatore della rete terroristica al Qaida: ricorda che Osama “respingeva la democrazia e i diritti individuali per i musulmani e propugnava un estremismo violento”. Forse non casualmente, il discorso del presidente è preceduto di poche ore dalla diffusione di un video postumo dello sceicco del terrore, che fa pure lui l’elogio della primavera araba e promette collaborazione ai popoli che stanno abbattendo i loro tiranni. Per Obama, però, gli arabi, oggi, vedono l’estremismo di al Qaida come “un ostacolo”: la rete era già sconfitta prima ancora dell’eliminazione del suo capo, perché “l’immensa maggioranza dei musulmani capisce che il massacro di innocenti non è una risposta al loro desiderio di una vita migliore”.

Parlando al Dipartimento di Stato, introdotto da Hillary Clinton, il presidente prospetta “una profonda rottura” degli Stati Uniti con i regimi arabi, se non ci sarà un cambiamento di rotta “imperativo”, perché “la strategia della repressione non funziona più”. E se la prende in particolare con il dittatore libico Muammar Gheddafi e con il presidente siriano Bachar al-Assad, che –dice- “ha davanti a sé una scelta: può guidare la transizione o farsi da parte”. Se Assad, colpito personalmente da sanzioni americane, e il suo regime, messo sotto scacco pure dagli europei, non cesseranno le violenze contro i manifestanti e non libereranno i prigionieri politici, “continueranno a essere sfidati dall’interno e ad essere isolati dall’estermo”.

Obama accusa la Siria pure di collusione con l’Iran, “un regime ipocrita”, che nega il rispetto dei diritti umani alla sua gente e che aiuta Damasco a organizzare la repressione. E il presidente parla del Bahrein e dello Yemen, Paesi a vario titolo e con diversa affidabilità alleati degli usa nella lotta contro il terrorismo: invita a “un vero dialogo”, lì e altrove, e, per quanto riguarda il presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, al rispetto degli impegni verso la transizione.

Il piano di aiuti studiato per incoraggiare la democratizzazione del Mondo arabo ricalca il modello seguito dagli Stati Uniti per l’Europa orientale negli Anni Novanta, dopo la caduta del Muro e la fine della Guerra Fredda e il superamento del comunismo: due miliardi sono destinati solo all’Egitto, ma ci sono soldi pure per la Tunisia e gli altri paesi impegnati in riforme democratiche. Altri miliardi di dollari verranno dalle banche di sviluppo internazionali che sostengono piani di sviluppo multilaterali.

giovedì 19 maggio 2011

Osama ucciso: al Qaida, forse, ha scelto i nuovi capi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/05/2011

Nelle semplificazioni giornalistiche, e magari nelle manipolazioni dell'intelligence, l'al Qaida del dopo Osama bin Laden quasi assomiglia a un partito da democrazie liberali: nomina capi ad interim e forma governi provvisori, rinnovando tutti i 'ministri'; poco ci manca che faccia le primarie. La rete del terrore, descritta, finora, come decentrata e parcellizzata, sarebbe, invece, capace di decisioni rapide e centralizzate e avrebbe relegato il vice di Osama, l'egiziano Ayman al-Zawahiri, al ruolo di ideologo, una sorta di Mikhail Suslov dell'Internazionale terrorista.

La giornata che restituisce all'organizzazione tutta una linea di comando e controllo la priva, però, del capo militare in Iraq: Mekhlef al-Azzaui viene scovato dall'esercito di Baghdad con altri tre 'pezzi grossi' del suo gruppo. Alla perdita, fa eco un attacco talebano a Jalalabad in Afghanistan: almeno 13 morti e decine di feriti, quando un'auto imbottita di esplosivo salta contro un veicolo della polizia.

Resta da vedere che cosa ci sia di vero nelle notizie su al Qaida. Il consiglio direttivo (Majlis Shura) della rete, riunitosi dopo l'uccisione di Osama nel blitz ad Abbottabad il 1o maggio, avrebbe scelto l’egiziano Seif al-Adel come proprio capo e avrebbe formato un governo ombra con responsabili settore per settore: l'egiziano Muhammad Mustafa Yamani sarebbe il nuovo capo delle operazioni di terra; Adnan al-Kashri il nuovo capo dell'area comunicazione; Muhammad Nasir al-Washi Abu Nasir, l’uomo forte della penisola arabica, sarebbe ora incaricato anche dell’Africa; Muhammad Adam Khan Afghani gestirebbe le attività in Afghanistan e nel Waziristan pakistano; Fahad al-Qava curerebbe le missioni urgenti; Adnan al-Lheiri al-Masri guiderebbe logistica e organizzazione; Faid al-Iraqi controllerebbe l’area di confine tra Pakistan e Afghanistan. Come da desiderio attribuito allo stesso bin Laden, nessuno dei suoi figli ha assunto ruoli di comando nell’esecutivo terrorista.

Il nuovo capo, al-Adel, alias Muhamad Ibrahim Makkawi, un cinquantenne, fuggì dall’Afghanistan nell’inverno 2001, dopo la caduta dei talebani, rifugiandosi in Iran, da dove avrebbe finora guidato l’ala militare di al Qaida. E’ ritenuto responsabile degli attacchi del 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e in Tanzania e di una campagna di attentati in Arabia Saudita, culminata nella strage di Riad del maggio 2003. Su di lui, c’è una taglia di cinque milioni di dollari.

A dare la notizia della nomina alla Cnn è stato Peter Bergen, giornalista, autore a suo tempo d’un’intervista a Osama e del libro “Holy War, Inc.”, uscito poco prima dell’11 Settembre 2001. E la fonte di Bergen, citata dalla Cnn, è Noman Benotman, 44 anni, libico, discendente da una ricca famiglia osteggiata da Gheddafi. Nel 1990, Benotman lascia la Libia per l’Afghanistan: lì, frequenta il campo di addestramento di Farouk e partecipa lla vittoriosa battaglia contro l’invasore sovietico. Dopo l’11 Settembre, prende la distanze da al Qaida e si rifugia in Europa.

Le informazioni del duo Bergen / Benotman, pur avallate da fonti di stampa pachistane, vanno prese con prudenza. Bergen asserisce che la scelta di al-Adel non è una decisione formale della Shura (“impossibile riunirne tutti i componenti”), ma “d’un gruppo di 6/8 capi sul confine tra Pakistan e Afghanistan”. E Benotman ipotizza che “la scelta di un egiziano possa creare problemi fra i membri yemeniti e sauditi di al Qaida, che vogliono, come erede di bin Laden, uno che venga dalla Penisola araba”.

mercoledì 18 maggio 2011

SPIGOLI: Onu, la riforma parte da Roma, ma si blocca

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/05/2011

‘Fusse che fusse’ la volta buona: a riformare il Consiglio di Sicurezza, ancorato ai rapporti di forza del dopoguerra, ci si prova da anni, senza cavarci un ragno dal buco. Ma, questa volta, l’iniziativa transitata da Roma del gruppo ‘Uniting for Consensus’ ottiene l’attenzione della stampa americana: complice una Ap, il Washington Post e molti siti Usa si interessano al tentativo dell’Italia e di molti altri Paesi di aumentare la rappresentatività regionale del Consiglio di Sicurezza, dove, ad esempio, Asia, Africa e America latina hanno poca voce, e di evitare un aumento “puro e semplice” dei seggi che farebbe contenti una manciata di paesi (Germania, Giappone, India, Brasile, magari Egitto e SudAfrica) e scontenterebbe tutti gli altri. Il fatto è che, gli Stati Uniti, di questo esercizio sono protagonisti inevitabili, ma non decisivi: senza il consenso loro, come di tutti i Paesi con veto, Russia e Cina, Gran Bretagna e Francia, non si fa nulla; ma il loro consenso non basta. Il problema è (quasi) tutto dentro l’Ue: l’Italia, che non vuole la Germania fra i membri permanenti, porta avanti l’idea del seggio europeo, che è sacrosanta, nell’ottica dell’Unione politica europea, ma valla a fare digerire a britannici e francesi. Va a finire che anche stavolta non cambia nulla, a scapito dell’Onu, che non acquista autorevolezza, e della credibilità della governance mondiale.

martedì 17 maggio 2011

SPIGOLI: le prodezze del Signor Rossi stupiscono il Mondo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/05/2011

Uno di solito pensa che siano i nostri leader politici a farci fare brutta figura in giro per il mondo, mentre l’italiano qualsiasi, il signor Rossi, un po’ ci riscatta (e non solo quando corre in moto): siamo brava gente, anche se parliamo ad alta voce e si aiutiamo con i gesti per farci capire. Poi, ti capita l’autista romano ‘multi-tasking’ e sei fritto: dalli all’italiano, inaffidabile e fanfarone. Però Daily Mail e persino il NYT trattano la vicenda con grande rilievo, ma anche con un sorriso quasi d’invidia per questo campione dell’Atac di Roma, capace di parlare al telefono con un cellulare e allo stesso tempo di mandare un sms su un altro cellulare. Che cosa ci vuole?, dite; ci riuscite pure voi? Sì, ma lui guidava pure l’autobus con i gomiti: “Se eta un concorso –scrive Rob Cooper- meritava di vincere un premio”. Invece, la ‘performance’ sull’autobus per l’aeroporto di Ciampino, ripresa da un passeggero a suo volta svelto di telefonino, è valsa all’autista una sospensione, non (ancora?) il licenziamento, per avere messo in pericolo l’incolumità pubblica. L’autista di Roma non è l’unico signor Rossi di cui la stampa internazionale s’è occupata in questi giorni: un parroco di Genova arrestato per pedofilia è finito sui giornali francesi e spagnoli e su quelli americani, i più ‘scottati’ dal tema; e il (quasi) sposo piantato all’altare da una fidanzata indecisa a tutto ha divertito la stampa britannica e francese. Ma un vescovo ci riscatta: monsignor Domenico Mogavero, scrive il Guardian, indossa paramenti firmati Giorgio Armani, ma lo fa solo "per dare gloria al Signore".

domenica 15 maggio 2011

Libia: fatwa dell'iman, errori della Nato e gaffes di Frattini

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/05/2011

la Libia seppellisce 11 religiosi vittime, secondo il regime di Muhammar Gheddafi, d’un raid della Nato. E gli imam del regime lanciano una fatwa: “Mille persone moriranno per ciascuno dei religiosi uccisi”, minacciano, incitando i musulmani alla rappresaglia contro Italia, Francia, Danimarca, Qatar et Emirati Arabi Uniti, tutti Paesi che sono parte attiva della coalizione anti-libica.

Centinaia di persone hanno assistito, ieri, alle esequie dei religiosi uccisi nel cimitero di Chatia al-Henchir, a est di Tripoli, fra grida di ‘jihad, jihad’ e ‘Dio, Libia e Gheddafi’. Secondo le fonti del regime, gli 11 imam sono stati vittime, nella notte tra giovedì e venerdì, di un bombardamento della Nato su Brega (ci sarebbero pure state decine di feriti). Il comandante Khuildi al-Hamidi, un intimo di Gheddafi, rappresentava alla cerimonia il colonnello dittatore, che ha preferito restare nascosto nel suo nascondiglio dove, aveva detto alla Nato in un messaggio audio, “non mi troverete mai e non mi potete colpire”.

Il messaggio di Gheddafi, che smentiva di essere ferito o fuggito e asseriva di “essere nel cuore di milioni di libici” era una sfida all’Alleanza e pure una replica al ministro degli esteri Franco Frattini, con le sue sortite, irrita i nemici e imbarazza gli alleati –internazionali e politici, tanto che anche Il Foglio gli tira le orecchie-. Dopo un raid della Nato sul compound del colonnello a Tripoli –tre le vittime e 27 i feriti, secondo ler fonti ufficiali-, Frattini, con scelta diplomaticamente incomprensibile, aveva citato il vescovo di Tripoli monsignor Giovanni Martinelli e aveva giudicato “credibile” che il dittatore, apparso il giorno prima in un video della tv di Stato, fosse ferito e in fuga dalla capitale. Monsignor Martinelli ha poi smentito di avere mai fatto un’affermazione del genere.

Che la vicenda libica non nascesse sotto una buona stella per il ministro Frattini, come per l’Italia, handicappata dall’amicizia esagerata per il regime libico, era apparso evidente fin dai prodromi. La Tunisia era in fermento, l’Egitto in subbuglio, da Londra venivano annunci di mobilitazione dell’opposizione libica, ma il ministro, l’8 gennaio, dichiarava: “Gheddafi è un capo di Stato che riesce a controllare una situazione altrimenti esplosiva. Guardiamo a che cosa sta succedendo altrove, con rischi di tumulti e con il pericolo, nel Sahara settentrionale, di azioni terroristiche”. E il 1.o febbraio Frattini correggeva il tiro, ma ancora una volta non era buon profeta: “Quello che sta accadendo in Egitto deve essere una lezione per tutti. Credo che anche il leader libico stia guardando la tv e stia riflettendo su quello che può fare per il suo popolo”. Evidentemente, Gheddafi la tv l’aveva spenta o era sintonizzata su un altro canale.

I passi falsi del ministro Frattini, che sono poi quelli dell’Italia in questa crisi, sono poi proseguiti coi bombardamenti che non sono bombardamenti o la guerra a termine e la previsione che tutto è ormai “questione di settimane”. Un terreno su cui, ieri, l’ha però raggiunto il ministro degli esteri francese Alain Juppé, chiedendo d’intensificare la pressione militare sul regime libico, perché “non si tratta di tirare in lungo per mesi l’intervento, ma di chiuderlo in settimane”. E l’ex governatore della banca centrale libica Farhat Omar Bengdara pronostica al potere del rais “al massimo tre mesi”, perché “la lealtà introno a lui è ormai molto fragile”.

In un comunicato, la Nato ammette di avere colpito un centro di comando a Brega, utilizzato dal regime “per coordinare attacchi contro la popolazione civile”: “Sappiamo di affermazioni sulla morte di civili nell’attacco e benché non possiamo confermarne la correttezza ci rammarichiamo dell’uccisione di civili innocenti quando essa si verifica”. Il 1° aprile, l’Alleanza aveva colpito a morte nove ribelli e quattro civili a est di Brega e il 7 aprile aveva causato almeno quattro morti civili tra Brega e Ajdabiya.

Mentre la linea del fronte s’è ormai stabilizzata sostanzialmente da settimane proprio tra Ajdabiya, 160 km a sud-ovest di Bengasi, e Brega, 80 km più a ovest, nelle mani dei lealisti, l’iniziativa diplomatica è in pieno sviluppo: l’inviato dell’Onu Abdel-Elah al-Khatibè è di ritorno a Tripoli, mentre il capo degli insorti Mahmud Jibril rientra da Washington a Bengasi via Parigi (è il suo secondo incontro con il presidente francese Nicolas Sarkozy). Finora, solo cinque Paesi riconoscono il Cnt (Consiglio nazionale transitorio) dei ribelli come l’unico rappresentante legittimo del popolo libico, e non come uno degli interlocutori: Francia, Italia, Gran Bretagna, Qatar e Gambia.

Gheddafi tiene pure aperto il fronte della fuga dalla Libia di migliaia di disgraziati che scappano dalla guerra e dalla repressione e che prima, in forza del Trattato d’Amicizia con l’Italia, venivano tenuti prigionieri nei campi del colonnello. E questa è l’unica cosa che importa al ministro dell’interno, il leghista Roberto Maroni: ''L'unica soluzione e' che cessino i bombardamenti e che finisca la guerra. Se non c’è la guerra, non esistono nemmeno i profughi che diventano clandestini e che come tali puoi rimpatriarli”. Quel che poi succede loro, a Maroni, evidentemente, non importa.

sabato 14 maggio 2011

Osama ucciso: Pakistan, la vendetta dei talebani sui cadetti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/05/2011, non pubblicato

La vendetta dei talebani del Pakistan s'abbatte all'alba su un nugolo di cadetti della polizia di frontiera in partenza per la licenza: due kamikaze in moto si fanno saltare in aria l'uno dopo l'altro, uccidono quasi 90 persone e ne feriscono 150. Accade a Shabqadar, una località nel nord-ovest del Pakistan. I talebani rivendicano subito l’azione, “un primo attacco” –dicono- per riscattare l'uccisione di Osama bin Laden.

L’obiettivo e il luogo dell’azione potrebbero però tradire le difficoltà della rete terroristica al Qaida, cui i talebani del Pakistan sono strettamente collegati: riescono a colpire nella propria aerea d’influenza più tradizionale, tra il sud-est dell’Afghanistan e il nord-ovest del Pakistan, ma hanno difficoltà ad agire altrove, anche se il livello d’allarme non consente di abbassare la guardia.

Quello di Shabqadar è l’attentato più cruento dal novembre scorso: i guerriglieri integralisti, protagonisti da anni di una campagna d’attacchi letali in Pakistan, avevano minacciato rappresaglie contro Islamabad e le forze di sicurezza, accusandole di complicità con il blitz americano del 1o maggio ad Abbottabad, fatale a Osama. L’accusa cozza con le diffidenze degli Usa verso i servizi d’intelligenze pachistani, che avrebbero invece protetto il capo di al Qaida.

Shabqadar è una città alle porte della zona tribale lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, bastione dei talebani e santuario di al Qaida. In quest’area, negli ultimi giorni, i droni americani hanno colpito a più riprese gli insorti islamici: ieri, uno degli aerei senza pilota della Cia ha ucciso tre talebani nel Waziristan del Nord del Paese.

L’attentato è avvenuto di buon’ora. Un kamikaze in moto s’è fatto esplodere mentre i cadetti, tutti già in abiti civili, stavano salendo a bordo degli autobus e dei camion che dovevano portarli a casa per una licenza di dieci giorni. L’obiettivo dell’attacco era un centro d’addestramento della polizia di frontiera, un’unità paramilitare. In un secondo tempo, quando poliziotti e soccorritori erano intenti a prestare aiuto ai feriti, un secondo kamikaze in moto ha provocato un’altra strage.

Il portavoce dei talebani in Pakistan Ehsanullah Ehsan ha dichiarato: “Attendetevi altri attacchi più massicci ancora in Pakistane in Afghanistan”. Il moviòento dei talebani in Pakistan è responsabile di oltre 450 attentati, per la maggior parte azioni suicide, che hanno fatto circa 4500 vittime in tutto il Pakistan in circa quattro anni. Nell’estate del 2007, il movimento, seguendo istruzioni in tal senso di Osama, aveva dichiarato la jihad, cioè la guerra santa, contro il regime pachistano, per l’appoggio a Washington nella guerra contro il terrorismo.

E mentre la guerra resta cruenta, le relazioni tra Stati Uniti e Pakistan non accennano a migliorare. Giovedì, Islamabad aveva avvertito Washington che potrebbe rivedere la collaborazione alla lotta anti-terrorismo. E, ieri, il numero due dell’esercito pachistano, il generale Khalid Shamim Wynne, ha annullato una visita prevista negli Stati Uniti “a causa del clima creatosi”. Intanto, dai documenti che sono stati sequestrati nel covo di Osama, escono bozze di progetti di attentati allo studio.

venerdì 13 maggio 2011

SPIGOLI: terremoto immaginario e paure reali

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/05/2011

Non ci credeva nessuno, ovviamente; ma ne hanno scritto tutti. E i giochi di parole, scherzosi, si sono moltiplicati: «Tutte le strade portano fuori da Roma» (Daily Mail); «Vedi Roma e poi muori, ma non oggi » (Guardian); «la paura, non il sisma, mette sottosopra Roma» (El Mundo). Solo la Bbc la mette, un po’ seriosamente tra cronaca e lezione di sismologia: «Una previsione provoca l’esodo dalla città –esagerati !, ndr- anche se i terremoti non si possono prevedere». La stampa americana, imbeccata dall’Ap, constata che, l’11 ci sono state «dozzine di scosse» in Italia e altrove –tragica, quella in Spagna-, ma nessuna a Roma. Erano, pero’, giorni e giorni che la stampa estera ricamava sull’argomento: «Roma rumoreggia» (Le Monde); e, ancora, «il terremoto immaginario» (Les Echos), leggenda urbana, mito, psicosi, fuga, paura da BigOne, umori da cataclisma, fino al qualunquistico stereotipo dell’italiano furbo «un giorno di vacanza per studenti e lavoratori». La Bbc, che, evidentemente, non ci dormiva sopra la notte, scova che Mussolini fu cosi’ impressionato dal Nostradamus dei sismi, lo studioso Raffaele Bendandi, da insignirlo di un’onorificenza. Abilmente, il Telegraph mette insieme dieci ‘fini del mondo’ che, malgrado le predizioni, non ci sono mai state (ma, attenzione, ci aspetta il 2012). Poveri Incas, che l’aspettavano, sempre invano, ogni 52 anni.

Libia: Gheddafi ricompare in tv, ma il video fa discutere

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/05/2011

Dopo 11 giorni di silenzio e mistero, cosi’ fitti che neppure la Nato sapeva se Muammar Gheddafi fosse vivo o morto, il dittatore libico ricompare sulla tv di Stato in immagini quasi ieratiche per la loro fissita, mentre, in un hotel di Tripoli –quello, pare, dove vivono da mesi i giornalisti occidentali- incontra dei leader tribali: la scena è imbarazzata e senza spontaneità, in un ambiente non consono a riunioni del genere, che uno s’immagina piuttosto sotto la tenda.

Dopo l’uccisione di Osama bin Laden e la ‘guerra dei video’ che ne è scaturita, manco delle immagini ti fidi più: lo spezzone televisivo suscita più dubbi che certezze, anche se l’immagine che compare su un maxi-schermo alle spalle del colonnello è datata e, quindi, avvalora la tesi del ‘ritorno’ del rais, avvolto nella consueta mantella marrone.

Ma la ‘prova’ non basta a fugare i sospetti : i giornalisti si stupiscono che Gheddafi sia arrivato nel loro hotel e che nessuno di loro se ne sia accorto –certo, non è entrato dalla porta principale-. E i dubbi sulla sorte del dittatore restano: fuggito?, ferito?, morto?, oppure vivo e vegeto, ma cauto negli spostamenti e nelle ‘comparsate’?

Del resto, la Nato prosegue la notte i suoi raid su Tripoli e i dintorni. Poche ore dopo la sortita televisiva, gli aerei alleati colpiscono di nuovo il bunker del colonnello, già attaccato à più riprese (qui mori’ un figlio del rais, che proprio da allora non s’era più fatto vedere). I funzionari libici che mostrano ai giornalisti la zona colpita, a Bab al-Aziziyah, dicono che tre persone sono rimaste uccise e almeno 25 ferite.

Intanto, i ribelli rifiutano la proposta dell’Onu di un ‘cessate-il-fuoco’ e avanzano oltre Misurata: si sentono forti, sono di nuovo all’offensiva, dopo avere riconquistato l’aeroporto della città martire, e progettano la marcia su Tripoli, che finora non gli è mai riuscita. Di Gheddafi, loro non si fidano; e alla sua morte non hanno mai creduto: lo davano per fuggito nel deserto, o all’estero, ancora prima del bombardamento del suo bunker.

E mentre gli insorti si preparano a celebrare il ‘giorno della rabbia’ il 17 maggio, esattamente a tre mesi dallo scoppio della rivolta, il capo del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi Mahmud Jabril viene oggi ricevuto alla Casa Bianca dal consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Barack Obama, Tom Donilon. E’ la prima visita di un leader Cnt a Washington, dopo che Jabril è già stato a Parigi, a Roma e in altre capitali europee e mediterranee. Gli Usa hanno finora considerato il Cnt un interlocutore affidabile ma non l’hanno ufficialmente riconosciuto, né ne hanno sposato la causa con la dedizione della Francia, la più vicina ai ribelli, e dell’Italia.

Ma, da Bengasi, arriva una notizia imbarazzante proprio per la Francia: un francese è stato ucciso in città "durante un controllo di polizia" e altri quattro francesi sono stati fermati. Chi erano e che ci facevano li’? Il riserbo è totale, ma, di recente, ex militari francesi erano stati notati a Bengasi alla ricerca di contratti nella sicurezza privata: mercenari, insomma, più che combattenti della libertà.

mercoledì 11 maggio 2011

SPIGOLI: un secolo di bombe dal cielo (italiane) sulla Libia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/05/2011

Ecco un primato italiano di cui non andare proprio fieri. E un precursore di cui ci siamo (quasi) tutti dimenticati: il sottotenente Giulio Gavotti, pilota nella guerra di Libia –non questa, quella coloniale del 1911, un secolo fa giusto giusto-. La Bbc se n’è ricordata proprio al momento giusto. E la storia, sul sito dell’emittente britannica, è subito divenuta una delle più ‘cliccate’, complice una foto che ci mostra l’ufficiale ai comandi del suo aereo con indosso una mantellina che fa tanto Alberto Sordi e Giorgio Gasmann ne La Grande Guerra. Grazie alle lettere al padre del Gavotti, di cui è entrata in possesso, la Bbc puo’ ricostruire la genesi ‘fai-da-te’ del primo bombardamento aereo della storia. Nel novembre 1911, nel pieno dei combattimenti tra le forze italiane e quelle dell’Impero Ottomano, il sottotenente scriveva al padre: «Ho deciso di gettare bombe dal mio aeroplano. E la prima volta che ci proviamo: se ci riesco, saro’ davvero contento di essere la prima persona ad averlo fatto». Di li’ a poco, il Gavotti lo fece davvero, sporgendosi fuori dal suo fragile velivolo e lasciando cadere a tre riprese tre bombe da un chilo e mezzo ciascuna –almeno una a segno- su truppe turche stazionate in un’oasi nel deserto, Ain Zara, oggi una cittadina a Est di Tripoli. Guernica e Coventry, Dresda e Hiroshima, il napalm e ‘Shock and Awe’ su Baghdad 2003, infine i raid contro i bunker di Gheddafi, che richiudono sulla Libia il cerchio d’un secolo di morte dal cielo, la via era aperta.

Osama ucciso: non solo più terroristi fra i 'most wanted'

Scritto per il Blog e per Il Fatto Quotidiano del 11/05/2011

Sul sito dell'Fbi, il nome di Osama bin Laden non e' stato (ancora) cancellato, dalla lista dei 'super - ricercati', i 'most wanted'. Ma, accanto al nome del fondatore e capo della rete terroristica al Qaida, c'e' la dizione 'deceased', 'defunto', come a dire 'questo ce lo siamo tolto di torno'. L'uccisione di Osama, lo sceicco del terrore, cambia la mappa dei latitanti d'America (e del Mondo). Riviste, come Forbes o Time, compilano classifiche che danno l'impressione giornalistica di un cambio della guardia nelle priorita' della sicurezza internazionale: narcotrafficanti e mafiosi, anche italiani, in vetta alla lista, al posto dei terroristi.

Ma l'Fbi e la Cia, che badano al sodo e non guardano al titolo, hanno una linea più conservativa. Se usiamo l'entita' della taglia, come criterio oggettivo per valutare la pericolosita' percepita dei ricercati, vediamo che la cricca di al Qaida continua a dominare la scena. Exit Osama, con un risparmio di 25 milioni di dollari -la taglia non sara' pagata, e' stato detto, a tacitare voci di soffiate e tradimenti-. Resta, 'quotato' come lui, il suo vice e probabile successore, Ayman al-Zawahiri, un medico egiziano, figura meno carismarica e fisicamente meno ieratica, ma ideologicamente molto preparato. Poi, con un taglia di 5 milioni, alcuni 'alqaidisti' di vecchio corso, yemeniti ritenuti responsabili dell'attacco al cacciatorpediniere Cole (17 morti nell'autunno 2000, all'ingresso nel porto di Aden), libanesi considerati protagonisti d'un dirottamento aereo nel 1985, un presunto 'bombarolo' nel 1998 delle ambasciate Usa di Nairobi e Dar-es-Salam. Vale un milione una soffiata che conduca ad Adam Gadahn, lo jihaddista americano, portavoce californiano –strano, ma vero- di al Qaida.

In questa 'hit parade' ufficiale, il primo non integralista islamico e' quotato 'solo' 250mila dollari: e' Daniel Andreas SanDiego, un integralista dell'animalismo, una cui azione salvo' cavie, ma fece due vittime umane. Per l'intelligence americana, come per la polizia federale Usa, l'uccisione di Osama non cambia, dunque, almeno a caldo, la percezione della minaccia. Ma, da tempo, Hollywood e le serie tv sono alla ricerca di cattivi alternativi al terrorista mediorientale, cosi' tutto d'un pezzo nel suo fanatismo da avere poco 'appeal' come personaggio. E, allora, mentre Time si contenta di mettere Osama in prospettiva storica -fra i più grandi criminali di tutti i tempi, o fra le ‘primule rosse’ dai covi meglio protetti (fino al 1o maggio)-, Forbes mette 'il Corto' in testa alla sua classifica mondiale dei 10 'most wanted': Joaquin Guzman, detto 'El Chapo' -e' basso di statura-, sanguinario narcotrafficante messicano. Subito dietro, il criminale indiano Dawood Ibrahim, che collabora anche con organizzazioni terroristiche (c'era il suo zampino negli attacchi a Mumbai del 2008, oltre 190 vittime). Forbes non dimentica al-Zawahiri, tra mafiosi nostrani come Matteo Messina Denaro, capo di Cosa Nostra dopo l'arresto di Bernardo Provenzano, e pendagli da genocidio africani.

Liste ufficiali e classifiche stampa hanno un dato in comune: non lasciano spazio a 'post sovietici’. I cattivi per antonomasia di James Bond e di AirforceOne sono ormai icone del passato.

Osama ucciso: è guerra dei video tra Usa e al Qaida

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/05/2011

Non sai più a chi credere: appena uno dice una cosa, un altro la smentisce. Io, pero’, tra il presidente degli Stati Uniti, ora che è Barack Obama, ed un sito di terroristi, tendo a credere al presidente degli Stati Uniti. Nella vicenda dell’uccisione di Osama bin Laden, verità e falsità, informazione e propaganda, s’intrecciano di continuo: difficile districare l’una dall’altra. L’unica cosa davvero certa, e lo avevamo scritto fin dal primo giorno, è che il fondatore di al Qaida è stato ammazzato: foto o no, il dato non è mai stato smentito ed è anzi stato confermato dagli stessi jihaddisti.

Adesso, pero’, un sito mette in rete un video di al Qaida che accusa gli americani d’avere falsificato le immagini del terrorista baby-pensionato a 54 anni: uno spezzone di video che, da solo, inficia il mito del capo della rete e della mente degli attacchi dell’11 Settembre 2001. «Bisogna stare attenti: l’America mente», proclama il sito Shoumoukh al Islam, che di solito mette in rete i messaggi di al Qaida e che spiega d’avere voluto cosi’ rispondere «al video diffuso da media arabi e stranieri che mostra Osama mentre guarda in tv immagini di se stesso ». Ecco le ‘prove’ del falso: l’anziano dalla barba bianca del video diffuso dal Pentagono non sarebbe Osama, perchè gli occhi e le orecchie non paiono quelli del terrorista. Il tutto è un po’ vago, ma il sito conclude che, malgrado la morte del capo, «la jihad proseguirà fino al giorno del giudizio universale».

Gli Stati Uniti avevano annunciato che le forze speciali avevano sequestrato, nel blitz del 1o maggio, cinque video, uno o più computer e dei documenti nella casa covo d’Abbottabad. Uno dei video mostra, appunto, Osama, o un suo alias, barba bianca non curata, un berretto di lana nero in testa, una coperta marrone sulle spalle, mentre fa zapping con il telecomando alla televisione, passando da un canale all’altro e soffermandosi quando un’emittente diffonde sue immagini.

Il giallo del video c’era da aspettarselo, perchè quel frammento è davvero devastante per il mito di Osama e rischia di annacquarne l’iconografia anche nel Mondo arabo. La polemica ‘vero/falso’ è il fatto saliente di una giornata d’ordinario malessere tra Usa e Pakistan: stavolta, i contrasti nascono dal desiderio dell’intelligence americana d’interrogare le mogli di Osama che erano nella casa covo. Islamabad nicchia, mentre la stampa statunitense snocciola notizie urticanti per Islamabad. Eccone un’antologia: la Cia spiava da tempo l’Isi, il servizio segreto pachistano, e le Navy Seals del blitz erano autorizzate a rispondere al fuoco dei militari pachistani, se questi avessero cercato di fermarli; le squadre speciali avevano, inoltre, con se’ esperti per interrogare Osama, se l’avessero catturato, e specialisti di riti funebri islamici per seppellirlo, com’è poi avvenuto (ma i figli di Osama giudicano sul web «inaccettabile» e «umiliante» la sepoltura in mare eseguita). Infine, l’Amministrazione americana intende condividere con gli alleati le informazioni acquisite, ma non è detto che voglia spartirle con i pachistani. E per la seconda volta dal raid un drone Usa colpisce e uccide nel Waziristan, in quel lembo di territorio pachistano dove si credeva fosse Osama.

L’isi risponde facendo sapere che il figlio minore dei 24, o 26, di Osama, Hamza, sarebbe riuscito a fuggire dal covo di Abbottabad e avrebbe già vestito i panni di “principe ereditario del terrore”. In un video del 2001, un Hamza allora ragazzino legge una poesia sulle gesta del padre: “Avverto l’America che subirà conseguenze terribili se cercherà di prenderlo. Combattere gli americani è la base della fede”.

Il WSJ fa pregustare agli americani un frutto dell’eliminazione del ‘nemico pubblico numero 1’: il ritiro dall’Afghanistan di 5mila soldati entro luglio e di altrettanti entro fine anno (un’ipotesi che deve ancora ottenere il via libera del generale Petraeus, comandante Usa e Nato in Afghanistan, e della Casa Bianca). Il piano, in realtà, è precedente all’uccisione di Osama: attuato ora acquisterebbe un significato simbolico, ma potrebbe pure mandare il messaggio -sbagliato, per l’Amministrazione Obama- che la guerra è vinta. Infatti, con mossa bipartisan, due influenti senatori, John Kerry, democratico, e Richard Lugar, repubblicano, mettono in guardia la Casa Bianca: niente ritiro «precipitato» dall’Afghanistan, dove l’estate è il momento più cruento.

martedì 10 maggio 2011

SPIGOLI: un software ci libera da Mr B (ma solo inline)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/05/2011

Volete 'deberlusconizzare' il web, evitare di incagliarvi, mentre navigate, in una filippica contro la magistratura o in una photo gallery 'bunga bunga oriented'? Liberation ha scoperto un'applicazione che blocca l'accesso a tutto cio' che ha a che fare con il premier italiano. Il software si chiama DE(Berlusconi)ZER.http://deberlusconizer.com/ ed e' stato sviluppato da un gruppo di programmatori e artisti. Prima cancella con un grosso tratto giallo testi e immagini che menzionino Mr B; poi, riempie gli spazi vuoti con opere di artisti italiani e stranieri. Il De_Zer, scrive Libération, “sovverte la macchina mediatica creata da Berlusconi e ci sbarazza della sua invadente presenza...”. Il codice del progetto è 'open source' ed e' adattabile: gli utenti potranno presto creare vuoti e riempirli con loro contenuti, l’applicazione è “open source”. L'esigenza di 'deberlusconizzarsi' e' avvertita pure dal Chicago Tribune, che accomuna il premier al miliardario aspirante presidente (degli Stati Uniti) Donald Trump, sotto il titolo non proprio elogiativo: "I clown della politica saranno licenziati?". Un auspicio che echeggia la trasmissione tv del costruttore miliardario americano, che, alla fine di ogni puntata, 'licenzia' perfidamente il più brocco dei suoi collaboratori. Per il resto, la stampa estera, che avrebbe pure lei bisogno di 'deberlusconizzarsi', resta impaniata nei soliti titoli: i processi che non finiscono mai, la campagna anti-magistrati, l'ennesimo cavallo fatto senatore, sia pure solo in pectore, la Minetti.

Osama ucciso: video e balle per distruggere il mito

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/05/2011

Prima, lo hanno ammazzato per davvero. Ora, lo uccidono virtualmente: ne distruggono l’immagine che, in parte, loro stessi avevano contribuito a creare, facendo, talora involontariamente, un mito del fondatore e dell’ideologo di al Qaida, la mente e l’ispiratore degli attacchi terroristici contro l’America dell’11 Settembre 2001, sempre capace di sottrarsi alla cattura e di ricomparire minacciando l’America. I video di Osama bin Laden che il Pentagono ha diffuso sabato, sequestrati nella casa di Abbottabad, e le informazioni che, vere o false che siano, filtrano da fonti non sempre sicure sono tutti colpi di scalpello che incrinano la figura carismatica di Osama bin Laden.

Però, nello stesso tempo, un po’ contraddittoriamente, Casa Bianca e Pentagono vogliono tenere alta la tensione e salvaguardare il valore della preda. Il presidente Obama racconta di nuovo il blitz del 1° Maggio, “i 40’ più difficili della mia vita”, e dice: “Ora bisogna sferrare il colpo di grazia ad al Qaida”, che non è “ancora sconfitta” e che va “del tutto smantellata”. E, mentre sui siti islamici compare, annunciato e atteso, l’ultimo messaggio del capo ucciso, che lega la lotta dei terroristi e “la salvezza dell’America” alla causa palestinese, i militari e l’intelligence avvalorano l’ipotesi che Osama fosse ancora il comandante in capo della rete, non un terrorista baby-pensionato a 54 anni, che guarda i video in casa avvolto in una coperta

Snoccioliamoli, i granelli di sabbia che inceppano la macchina dell’immagine di Osama: si tingeva la barba per ‘andare in video’, mentre di solito l’aveva sciatta e bianca; viveva in locali modesti, guardava una tv piccola piccola. Era un uomo più vecchio dei suoi 54 anni, che, però, ci teneva all’apparenza e che odiava invecchiare: secondo un tabloid da prendere con le molle, il Daily News, usava pure un “viagra alle erbe”, uno sciroppo d’avena contro l’impotenza, una naturale alternativa al celebre farmaco. Vi ricorda qualcuno? Sì, certo, Gheddafi, che nel 1993 si fece fare un bel lifting e ama le donne. E pure Berlusconi, che di trapianti di capelli se ne intende, apprezza le feste con le belle ragazze e detesta quei segni dell’età fastidiosi che non lo fanno sentire potente (non solo politicamente).

E Osama mica poteva apparire un anziano acciaccato, nei suoi video minacciosi, nei suoi proclami apocalittici: un Osama vittima della videocracy, e pure post-moderno, alle prese con medicinali e cosmetici simboli della decadenza del Mondo che voleva annientare, l’Occidente. La più giovane delle tre attuali mogli di bin Laden, la yemenita Amal Ahmed Al Sadah, 27 anni, che era con lui ad Abbottabad e che adesso è in mani pachistane –ma nessuno vuole tenersi lei e i figli piccoli-, avrebbe indicato che il marito “non era in un cattivo stato di salute”, smentendo così le tanti voci secondo cui Osama, padre dalla fertilità comprovata da un numero di figli imprecisato, fino a 26, fosse da tempo gravemente malato. In passato, lo avevano dato per morente, o per morto, afflitto da problemi renali. Secondo la Cbs, nel covo c’erano solo farmaci di tipo corrente, per curare problemi di stomaco, gastriti, oppure una pressione troppo alta. Nulla che faccia pensare a malattie croniche, in particolare renali. Il terrorista avrebbe risolto i suoi problemi con due interventi chirurgici –narra la moglie- e ora “si curava da solo”, “non era nè fragile nè debole” e mangiava molte angurie.

Che cosa c’è di verso e che cosa è falso? Certa è la tensione, che resta, tra Usa e Pakistan, perché lo sceicco del terrore ha goduto si copertura e, forse, si protezione, negli anni passati accanto a centri nevralgici del potere militare pachistano.

domenica 8 maggio 2011

Osama ucciso: video più da terrorista pensionato che da capo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/05/2011

L'Amministrazione Obama solleva un velo sui misteri del raid del 1o maggio, in cui e' stato ucciso Osama bin Laden. Anche sotto la spinta dell'opinione pubblica, il Pentagono diffonde alcuni video sequestrati nel bunker di Abbottabad: e' materiale giudicato "importantissimo", la prova che Osama era ancora il capo e la mente della rete terroristica al Qaida.

In un briefing con i giornalisti fonti della difesa degli Stati Uniti definiscono i video trovati nel covo "il più significativo" sequestro mai realizzato nella lotta contro il terrorismo. Essi mostrano, fra l'altro, momenti di vita quotidiana nella casa bunker di Abbottabad: in uno il fondatore di Al Qaida compare mentre passeggia, in un altro mentre guarda la televisione, in un altro ancora nell'atto di indossare la tunica e il copricapo tradizionali. In una sequenza, Obama e' intento a visionare un suo stesso filmato, come se stesse studiando il modo migliore per realizzare un nuovo messaggio. In un altro frammento, su un monitor su cui la mente degli attentati dell'11 Settembre sta analizzando dei filmati compare, per una frazione di secondo, una foto del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, apparentemente inserita in un servizio di una tv araba. L'immagine di Obama e' accanto a quella di un giovane Osama, mentre il capo di al Qaida, seduto a terra, sta lavorando con il telecomando come per cercare il 'montaggio' ideale. Il video è stato chiaramente girato da un'altra persona, cui Osama si rivolge dandogli consigli sulla ripresa.

Sulla base del materiale trovato ad Abbottabad, l'intelligence militare americana pare convinta che Osama avesse il pieno controllo "strategico e operativo" di Al Qaida. Non solo, quindi, un simbolo o un punto di riferimento ideologico, una figura carismatica, ma un vero e proprio capo, anche se i filmati offrono l'immagine di un terrorista baby pensionato a 54 anni. Se cosi' era davvero, il covo in Pakistan, non lontano da un'accademia militare e a meno di 100 km dalla capitale Islamabad, non era un semplice rifugio, ma fungeva da vero e proprio "centro di comando attivo", pur se privo di telefono e di internet.

Nell'annunciare la diffusione dei video, le principali tv Usa, citando fonti dell' Amministrazione, afferrmano che il materiale ora reso pubblico dovrebbe mettere a tacere "una volta per tutte" le polemiche sulla mancata pubblicazione delle foto del cadavere di Bin Laden e della sequenza della sepoltura in mare. In realta', i video nulla dicono sulle circostanze del raid e dell'uccisione di Osama, ne' della sepoltura; e neppure svelano i misteri sulla latitanza del terrorista, che sarebbe prima vissuto, dal 2003, in un villaggio non lontano da Abbottabad e poi in citta', senza che nessuno mai lo notasse. Il capo di al Qaida, malato di reni, non si sarebbe mai sottoposto a dialisin come invece ipotizzava la Cia, ma, secondo la moglie, si sarebbe curato da solo "mangiando angurie".

E mentre il blitz Usa ha aperto una grave crisi nei servizi segreti pachistani, oltre che tra Washington e Islasmabad, in Afghanistan i talebani lanciano un'offensiva di kamikaze su Kandahar: ore di esplosioni, combattimenti, terrore, ma, a conti fatti, gli attacchi sono un flop.

sabato 7 maggio 2011

Osama ucciso: tutti chiedono a Obama le foto del trofeo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/05/2011

Se c'era un dubbio, e non c'era, sulla morte di Osama bin Laden, adesso e' stato fugato: la Jihad piange il leader ucciso e gli giura vendetta. Ma il grido di battaglia degli integralisti, che suona minaccia ("America maledetta"), non sovrasta la domanda di verita' e di chiarezza che le Nazioni Unite e la comunita' internazionale rivolgono a Barak Obama. Anche l'AP, la più grande agenzia stampa mondiale, chiede al presidente d'osservare la legge degli Stati Uniti.

Mentre dall'analisi del o dei pc -pure questo non e' chiaro- del capo di al Qaida emergono i preparativi di attentati ai treni in diverse localita' Usa nel decennale dell'11 Settembre, fra quattro mesi, il Village Voice on line racconta che l'Associated Press non accetta la decisione di Obama di non diffonderà le foto del cadavere di Osama e lancia una sfida alla Casa Bianca: chiede che quelle immagini, assieme al video girato dagli uomini delle Navy Seals e a quello del funerale in mare, siano mostrate al pubblico.

La Ap, che e' un'azienda totalmente privata, una cooperativa fra i quotidiani Usa, invoca il rispetto, anche da parte dell'Amministrazione,, della legge sulla libertà e la trasparenza dell'informazione, il 'Freedom of Information Act', o 'Foia'. Ma, attenzione!, a norma di legge non e' certo che la Casa Bianca e la Cia siano tenute a rispettare la legge: pare un gioco di parole, ma non lo e'. Anzi, proprio l'Amministrazione e le agenzie federali, il Pentagono e l'intelligence, afferma Scott Hodes, avvocato specialista in questioni relative ai limiti del diritto di cronaca, possono benissimo costituire delle eccezioni, rispetto ai doveri cui sono tenuti altri soggetti. "Lo status legale di quelle foto è quanto meno incerto", sostiene Hodes.

La Ap, nel motivare la richiesta, va, pero', dritto al cuore di Obama: sottolinea che "questo presidente ha sempre amato definirsi il più trasparente della storia degli Stati Uniti, il più rispettoso della legge sulla libertà di stampa. Molto più di quanto non fu in passato la presidenza Bush". E, adesso, vorra' mica smentirsi, dopo avere gia' faticato a smarcarsi dal suo predecessore su Guantanamo e su alcune pratiche poco esemplari dei servizi segreti.

La strada legale alla pubblicazione delle foto e di altri documenti sul raid di domenica ad Abbottabad sembra, comunque, impervia, nonostante che anche ex e futuri avversari, come Donald Rumsfeld e Sarah Palin, partecipino al coro di chi vuole vedere il volto del nemico, bin Laden, straziato dai colpi, un' immagine definita "raccapricciante", dai pochi che l'hanno davvero vista. Il dibattito politico, non mediatico, sarebbe ora feroce, se Obama, mercoledì, non l'avesse troncato decidendo che foto e documenti restino, per ora, nei cassetti della Cia: "Non esibiamo segreti" (e neppure sveliamo segreti magari scomodi).

Certo, le pressioni per ritornare sulla decisione presa sono forti: l'AP, ma anche gli esperti di diritti dell'uomo dell'Onu, secondo i quali "il comportamento degli Usa nella lotta al terrorismo finisce per fare da paradigma" per altri Paesi e per casi futuri e deve quindi essere ed apparire al di sopra di ogni sospetto. E dall'Italia si fa sentire Nessuno tocchi Caino.

Nella serie delle verita' distillate un poco alla volta, il WP racconta che la Cia sorvegliava da mesi la casa dove viveva il capo terrorista ed aveva ad Abbottabad una base ora chiusa. Se e' vero, e' uno smacco in più per l'intelligence pachistana. Nella serie delle bufale, c'e' la storia che racconta un giornalista pachistano: Osama era morto da giorni, per cause naturali, quando e' scattato il raid. E nella serie 'repetita iuvant', Obama insiste che Osama ha ricevuto sepoltura degna e rispettosa.

Intanto, i droni sono tornati a compiere azioni letali nel Waziristan, in Pakistan (8 morti) e nello Yemen (2 morti). Con il rischio di ulcerare ultriormente le relazioni tra Usa e Pakistan, in un venerdì segnato da manifestazioni anti-americane in molte localita' dell'Islam, in attesa che Osama il morto torni a parlare: al. Qaida ha un suo messaggio audio, registrato -pare- una settimana prima del raid fatale.

venerdì 6 maggio 2011

Libia: la guerra non si fa a termine, o si fa, o non si fa

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 05/05/2011

Mercoledi’, mentre il Parlamento italiano votava sulla missione in Libia, bombe si’, ma a termine, il segretario generale dell’Alleanza atlantica Anders Fogh Rasmussen ricordava ai giornalisti le tre condizioni fissate dai ministri degli esteri dell’Alleanza, riunitisi a Berlino in aprile, per sospendere gli attacchi della Nato sulla Libia, in corso dal 20 marzo: la sospensione di tutti gli attacchi contro i ribelli e i civili; il ritorno nelle loro basi di tutte le forze militari e paramilitari fedeli al regime; la garanzia che gli aiuti umanitari possano essere distribuiti in modo libero e sicuro. Rasmussen ripeteva: «Lo abbiamo deciso insieme a Berlino», presente il ministro degli esteri italiano Franco Frattini. «Quando questi obiettivi saranno stati raggiunti, la missione della Nato in Libia sarà conclusa». E ai giornalisti che l’interrogavano sulla pretesa dell’Italia di fissare una scadenza per la fine degli attacchi della Nato, Rasmussen rispondeva, con l’aria di chi ripete una lezione fin troppo nota: «Non si puo’ fissare una data. Sono quelle tre condizioni che determinano la durata dell’operazione ». Ora, uno puo’ pensare che Rasmussen, un ex premier danese, conservatore, buon amico del presidente Bush –mica solo Silvio lo era-, pecchi di rigidità nordica nel recepire l’astuta sottigliezza dei messaggi politici italici. Ma, oggi, le stesse cose le ha dette, con parole analoghe, l’ammiraglio GiamPaolo di Paola, un ex capo di Stato Maggiore della Difesa italiano, ora presidente del comitato militare della Nato. E l’ammiraglio le sottigliezze italiche le coglie. Il fatto è che la guerra non si fa a termine: quando la s’incomincia, non si sa mai di sicuro quando, e come, andrà a finire. Lo sanno pure, siatene certi, Frattini e il ministro della difesa Ignazio La Russa, ma talora fa comodo dimenticarsene. Guardate la guerra al terrorismo, che i militari americani chiamarono, fin dalla prime battute, «the long war», la lunga guerra: ci sono voluti quasi 10 anni per quei 38 minuti del blitz letale contro Osama bin Laden, che Hillary Clinton, oggi, a Roma, ha definito «i minuti più intensi della mia vita», aggiungendo che «la lotta non finisce» con la morte del capo di al Qaida. Al Gruppo di Contatto sulla Libia, che stanzia aiuti per la Libia per 250 milioni di dollari e avalla i capi d’accusa ipotizzati dal tribunale dell’Onu per crimini contro l’umanità contro Muammar Gheddafi, Frattini, come se la mozione del Parlamento nulla fosse, conferma l’impegno dell’Italia nelle missioni internazionali. Un impegno a termine? Il ministro glissa, ma ne dice una nuova, il ‘cessate-il-fuoco’ ci sarà entro poche settimane. Magari sarà vero, specie se l’Alleanza non fisserà limiti di tempo alla sua azione. La guerra non si fa a termine, nè «solo un poco»: o la si fa, o non la si fa. Potendo scegliere, la seconda è meglio, ma bisogna pensarci prima.

giovedì 5 maggio 2011

Osama ucciso: Obama non pubblica le foto

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/05/2011

Ci ha pensato su 72 ore, poi ha deciso di non farlo: gli Stati Uniti non pubblicheranno le foto di Osama bin Laden ucciso, immagini che chi le ha viste definisce «atroci» e «raccapriccianti». Il presidente Barack Obama ha fatto conoscere la sua decisione quando l’attesa delle immagini era ormai divenutq parossistica e la Cia aveva anzi indicato come «probabile» la loro diffusione. Una prova in più che l’intelligence non sempre ci azzecca, neppure quando gioca in casa. Chiedere ai servizi di sicurezza pakistani per conferma.

A favore della pubblicazione delle foto, l’idea che essa potesse stemperare il tamtam senza tregua nel mondo islamico che l’uccisione del capo di al Qaida è un falso Usa, un’invenzione americana. Ma le immagini avrebbero anche potuto fare crescere, non solo fra gli arabi, l’orrore e il raccapriccio: esse mostrano, racconta sempre chi le ha viste, il volto del terrorista squarciato da una delle due pallottole che lo hanno colpito, una poco sopra l’occhio, l’altra al petto.

Il no di Obama è un segno di forza e di serenità: il presidente è sicuro del fatto suo (e sa che la leggenda di ‘Osama è vivo’ resisterà sul web per anni e anni, come e peggio di quella di Elvis Presley). Le foto ci sono (sono state mostrate a deputati e senatori), le prove pure.

I dubbi che restano non toccano la morte di Osama, ma le sue circostanze. Versioni prima raccontate da fonti Usa ufficiali, poi negate: una donna gli ha fatto velo ed è stata uccisa (non è vero); il capo di al Qaida era armato (non è vero). Molti particolari restano sfocati nella ricostruzione del raid che domenica ha condotto all’eliminazione del ‘nemico pubblico N 1’ degli Stati Uniti e non solo: 79 uomini, due elicotteri, 40 minuti, per colpire ‘Geronimo’ –nome in codice di Osama-.

Una figlia di 12 anni, che era nel bunker, avrebbe raccontato che il padre sarebbe stato catturato vivo e quindi ammazzato –una versione sinceramente improbabile: Obama avrebbe preferito il nemico vivo piuttosto che morto e aveva dato ordini in tal senso -. La ragazzina è detenuta in Pakistan, con una moglie del terrorista ferita e altri bambini che vivevano nel bunker.

Intanto, gli esperti della Cia vagliano i segreti dei computer di Osama –sarebbero cinque, non solo uno, quelli sequestrati, ma la notizia non è certa-. E c’è chi afferma che addosso ad Obama siano state trovate –anche questo va verificato- due banconote da 500 euro, con numeri di telefono su cui si starebbe lavorando-. Nel blitz, sarebbe stato usato un tipo di elicottero invisibile ai radar nemici: quelli di al Qaida, in fondo improbabili, e quelli dei militari pakistani, che ad Abbottadad hanno un’accademia e numerose installazioni.

E questo ci riconduce alla polemica tra Washington e Islamabad: i pachistani rimproverano agli americani di non averli neppure informati; gli americani dubitano della lealtà dei pachistani. Il premier Yussuf Raza Gilani, in visita a Parigi, denuncia «il fallimento delle intelligence di tutto il mondo»; e aggiunge : «noi vogliamo lottare contro estremismo e terrorismo». Ma il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen si fa interprete di buona parte dell’Occidente chiedendo al Pakistan meno ambiguità e più cooperazione. L’Amministrazione Usa non vuole arrivare alla rottura e neppure al punto che il Congresso tagli gli aiuti militare all’alleato controverso.

Obama, la cui popolarità è salita di 11 punti al 57%, va oggi a incontrare i familiari delle vittime dell’11 Settembre a Ground Zero, a New York. Voleva accanto il suo predecessore George Bush, che ringrazia, ma declina. Il presidente sarà superprotetto; e già ci si preoccupa della sua missione in Europa a fine mese. Dal sud dello Yemen, un capo di una cellula di al Qaida annuncia vendetta: lui alla morte di Osama ci crede.

mercoledì 4 maggio 2011

Osama ucciso: Usa, "ha resistito, ma non era armato"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/05/2011

Il turismo vizioso e guardone della cronaca nera nostrana ha come mete Avetrana o Brembate o –è la storia più fresca, quella di Melania- il bosco delle Casermette nel Teramano. La gente di Abbottabad, la città del Pakistan dove Osama bin Laden è stato ucciso in un raid delle forze speciali della U.S. Navy, si assiepava, invece, ieri davanti al compound fortificato che da anni il capo della rete terroristica al Qaida aveva scelto come rifugio. Le tv americane all news mostrano militari pachistani rilassati e quasi divertiti di guardia alla casa, da dove, probabilmente, tutto quello che c’era da portare via è stato portato via, cadaveri, persone, cose.

Nel covo di Osama, che non aveva nè telefono nè internet, il commando ha recuperato il computer del capo terrorista, un suo video inedito, che forse avrebbe dovuto essere presto diffuso, vari files e molto materiale elettronico: «Una miniera d’oro» per la Cia che spera di ricavarne informazioni sulle ramificazioni di al Qaida. La rette s’è man mano decentrata: Osama ne era ormai più un simbolo che un comandante in capo.

Attenzione!, pero’: tutte le notizie di questo articolo vanno lette al condizionale, perchè le versioni s’intrecciano, si sovrappongono, si contraddicono. Osama era li’, nel bunker, forse dal 2003 o poco dopo, ma la sua presenza sarebbe stata segnalata, o sospettata, solo da otto/nove mesi (altri dicono già dal 2009).

Il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha fornito più particolari sull’incursione e sull’uccisione di ‘Geronimo’, il nome in codice dell’obiettivo dell’operazione, condotta da 79 uomin e durata 40 minutii: Osama era al secondo piano della casa, ha opposto resistenza -ma non era armato- ed è stato ucciso. Una donna che era con lui, una moglie, è stata ferita a una gamba ed è stata evacuata. Fonti pachistane indicano, invece, che il killer sarebbe stato una guardia del corpo. Altri membri della famiglia, che erano nella casa, fra cui una figlia di Osama di 12 anni, che avrebbe visto tutto, e dei bambini, sarebbe nelle mani delle autorità pachistane ; alcuni sarebbero sottoposti a cure mediche.

Il blitz per mettere fuori combattimento il capo di al Qaida è stato seguito in diretta, nella Situation Room della Casa Bianca, dal presidente Barack Obama, che avrebbe dato l’ordine di attacco con un bigliettino, mentre si trovava in Florida, e dal suo staff, con il capo della Cia Leon Panetta in collegamento video costante.

L’attesa di altre foto e di altre prove di quanto avvenuto è andata finora delusa. C’è certo il timore che la loro pubblicazione –Carey ha definito le immagini «atroci»- possa scatenare maggiori proteste nel mondo musulmano. Ieri, a Karachi e altrove, vi sono state preghiere per il «martire» di al Qaida, mentre su internet uscivano foto ‘taroccate’.

Ed è forte la polemica mediatica tra Washington e Islamabad : il Pakistan denuncia «l’azione unilaterale non autorizzata» condotta dagli americani sul suo territorio; gli Stati Uniti ammettono di avere tenuto l’alleato pachistano all’oscuro nel timore che qualcuno finisse con l’avvertire Osama e farlo fuggire, dice Panetta a Time.

Le cose stanno cosi’?, o è un gioco delle parti? Al presidente pachistano Asif Ali Zardari, puo’ fare comodo apparire ignaro di tutto, di fronte a un’opinione pubblica che hq fermenti di simpatia per Osama e per al Qaida. Pero’ , Zardari si preoccupa pure di diffondere una versione diversa negli Stati Uniti: sul Washington Post, scrive che l’eliminazione di Osama è frutto «d’un decennio di cooperazione Usa/Pakistan» e che il primo passo sarebbe stata l’identificazione di «un messaggero» nel 2007. Ma pure l’intelligence afghana vuole il merito di avere individuato la pista giusta: all’Afp, una fonte dice che agenti nel campo di rifugiati di Haripur, vicino ad Abbottabad, avrebbero notato «movimenti sospetti» intorno alla casa bunker.

Il Pakistan è da sempre sospettato di doppio gioco, o almeno di mancanza di chiarezza, nella lotta al terrorismo: a conti fatti, Osama non stava nascosto in qualche valle remota e inaccessibile delle montagne al confine tra Pakistan e Afghanistan, ma in una città di guarnigione, in un quartiere di militari in pensione, a meno di cento km dalla capitale. Integralisti e talebani godano dell’appoggio di parti dell’Isi, il servizio d’intelligence pachistano. E i talebani non s’arrendono all’evidenza: non ci sono prove –dicono- che Osama sia morto.

La Cia cerca di capire chi assumerà il comando di al Qaida, quasi certamente Ayman al-Zawahiri, il numero due, ma soprattutto cerca di contrare possibili ritorsioni, adottando misure di massima allerta e suggerendo agli alleati di fare lo stesso. Domani, Obama sarà a New York, a Ground Zero: un pellegrinaggio e pure un bagno di folla per misurare la rinnovata popolarià.

martedì 3 maggio 2011

Osama/Gheddafi: cacciare il tiranno, catturare il terrorista, non ucciderli

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/05/2011

Non e' lecito uccidere il tiranno. O il terrorista. O l'orco. Cacciarlo si', catturarlo, giudicarlo e condannarlo. Ma ucciderlo no. E meno che mai e' lecito uccidere tre bimbi di neppure tre anni, tentando di colpire il tiranno. L'uccisione di parte d’un commando di squadre speciali Usa –pare- del capo terrorista Osama bin Laden, così come l'attacco della Nato contro la famiglia Gheddafi, sabato sera, ripropongono un quesito antico. Ma la risposta non può più essere quella di Armodio e Aristogitone, nobili ateniesi dalle vicende personali controverse, che accoltellarono a morte Ipparco il tiranno e furono poi assolti dalla storia (ma giustiziati seduta stante o quasi dal fratello di Ipparco, Ippia, che era pure peggio). E, infatti, il presidente statunitense Barack Obama, nell’annunciare l’uccisione di Osama, indica espressamente di avere autorizzato un’operazione per catturare il capo di al Qaida e assicurarlo alla giustizia, non per ammazzarlo. E la Nato nega di avere voluto uccidere Gheddafi o membri della sua famiglia e insiste di avere attaccato obiettivi militari, o ritenuti tali, anche perché il mandato dell’Onu non parla assolutamente di assassinare Gheddafi (e eppure di cacciarlo), ma solo di proteggere la popolazione civile, teoricamente lealista o ribelle che sia. Le scene di giubilo americano a Washington, davanti alla Casa Bianca, e a New York, nei pressi di Ground Zero, suscitano un malessere analogo all’esultanza araba a Gaza e altrove, subito dopo gli attentati dell’11 Settembre. Perché “non ci si rallegra della morte”, ammonisce padre Lombardi, portavoce del Vaticano; e qualsiasi imam di buona volontà ne sottoscriverebbe le parole.