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martedì 30 aprile 2013

Governo Letta: l'impegno e le incognite europei, rischio iato parole / fatti

Scritto per AffarInternazionali il 30/04/2013

La scommessa é di innescare nell’Ue un circolo virtuoso, facendo perno su un cambio di rotta che Enrico Letta e i suoi ministri chiederanno con forza ai partner europei. Il rischio è d’avvitarsi, per compiacere gli alleati più attenti ai calcoli elettorali, in una spirale ‘meno ricavi – più spese’ che già mette sul chi vive le istituzioni comunitarie e soprattutto la Germania e i falchi a guardia dell’euro. Sull’orizzonte immediato, gli adempimenti obbligati del ‘semestre europeo’ ed il rischio di spingere la Commissione europea a mantenere la procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, impedendo l’innesco di investimenti produttivi.

Il postulato del premier, formulato nel chiedere la fiducia al parlamento, è che i conti dell'Italia sono in ordine e che si può dunque procedere ora con le politiche di crescita. E a conferma del dichiarato impegno europeo e pure europeista del suo governo, Letta, appena incassata la fiducia del Senato, dopo quella della Camera, ha avviato una serie di contatti nelle capitali chiave dell’Unione europea: Berlino, Parigi, Bruxelles. Qualcosa di analogo aveva fatto il suo predecessore Mario Monti.

Alla cui azione, Letta intende agganciare la propria. Dopo l'impegno per il risanamento dei conti dell’Esecutivo Monti, l'Italia vuole mantenere la rotta del contenimento del deficit e della riduzione del debito, ma il nuovo governo, che è politico, ha più forza e le sue richieste in sede bilaterale e multilaterale potranno essere più pressanti. La partita è quello di uno sfondamento del deficit senza subirne le conseguenze.

Una ventata d’aria fresca, ma nessuna garanzia

I primi commenti dei partner europei e della stampa estera oscillano tra lo scontato ottimismo ufficiale e una diffusa diffidenza: per i media francesi e tedeschi, bene Letta, ma a vincere è stato Silvio Berlusconi –e si può legittimamente dubitare dell’europeismo del programma di governo, se Angelino Alfano dice che lui e il Pdl ci si riconoscono a pieno-. La stampa anglosassone, cui dell’europeismo poco importa, si chiede prosaicamente dove il premier prenderà i soldi. Fuori gioco Beppe Grillo e l’M5S: The Times e Time li giudicano sconfitti, una bolla sul punto di scoppiare.

Der Spiegel sintetizza così il nuovo esecutivo: “una ventata d’aria fresca, ma nessuna garanzia”, perché donne e giovani non bastano a fare primavera; e neppure la presenza di ‘punte di diamante’ europee capaci e affidabili, come Emma Bonino agli esteri ed Enzo Moavero agli Affari Europei, senza contare Mario Mauro alla difesa, a lungo luogotenente di Berlusconi nel Parlamento europeo, prima di lasciare il posto e il Pdl giusto in tempo per transitare nelle liste elettorali di Scelta Civica.

Il programma europeo del governo Letta ricalca, in buona parte, quello indicato dai Saggi incaricati da Giorgio Napolitano di tratteggiare le linee guida del nuovo Esecutivo, quando non si sapeva come le cose sarebbero andate a finire tra Quirinale e Palazzo Chigi. Il percorso è uno slalom stretto tra scadenze serrate nei prossimi due mesi, dal G8 nell’Ulster ai due Vertici europei a Bruxelles, oltre a riunioni a maggio e a giugno dell’Eurogruppo e dell’Ecofin.

Il percorso europeo, uno slalom stretto

L’esordio europeo di Letta nel nuovo ruolo a un Consiglio europeo avverrà il 22 maggio: l’incontro è centrato sulla lotta contro l’evasione. Poi, dopo il G8 del 17 e 18 giugno, l’altro appuntamento europeo del premier prima dell’estate è il Vertice del 27 giugno. E’ probabile che l’Italia si coordini con Francia e Spagna, due Paesi i cui governi, pur senza rinnegare il rigore, condividono quelle che dovrebbero essere priorità italiane, più crescita e più occupazione, in dialettica con la Germania. Ma nessuno vorrà provocare strappi nei rapporti con Berlino, almeno fino alle elezioni politiche tedesche del 22 settembre.

La fiducia a Letta è stata accolta nelle sedi europee con un sospiro di sollievo: tutte le Istituzioni chiedevano all'Italia un governo “stabile e forte” che “continuasse le riforme”. Ma la vicepresidente del Parlamento Anni Podimata, greca, socialista, è una voce fuori del coro e ammonisce: “L’esito (della crisi di governo italiana, ndr) non deve tradire il messaggio degli elettori”. Pena, il montare dell’onda euro-scettica.

Il programma del Governo prevede, fra l’altro, la sospensione del pagamento della rata di giugno dell'Imu; il reddito minimo per le famiglie in difficoltà; l’impegno per una soluzione del problema degli esodati; il superamento del'emergenza lavoro. Ai mugugni di chi nota come non ci sia copertura delle uscite, o delle minori entrate, Letta risponde: "Non farò debiti, come un buon padre di famiglia". Ma c’è chi gli presenta un conto di sette miliardi di euro.


Il contagio italiano delle larghe intese

Invece che il tanto temuto ‘contagio della crisi’, l’Italia sembra trasmettere all’Europa il contagio della voglia di larghe intese: persino nella Francia dell’antitesi tra Gauche e Droite, quattro cittadini su cinque auspicano una grande coalizione e uno su due non sono manco contrari al coinvolgimento del Front National di Marine Le Pen - fonte: un sondaggio del Journal du Dimanche -. Molti partner della Germania vedrebbero bene una grande coalizione tedesca dopo le elezioni politiche, così d’allungare il vino del rigore della Merkel con l’acqua della crescita socialdemocratica, invece d’inasprirlo con l’aceto dell’austerità liberale.

Il rischio di questa voglia di larghe intese è quello di non interpretare, ed anzi di deludere, l’istanza di rinnovamento che anima i cittadini (europei, non solo italiani) e di intercettare unicamente l’ansia di rassicurazione e il senso di sollievo che emerge dai messaggi di congratulazione al premier Letta del presidente Usa Barack Obama e di molti leader europei, fra cui i presidenti delle istituzioni Ue.

Pure i fantomatici ‘mercati’ appaiono succubi di questa fascinazione, della medusa della normalità: lo spread scende solo perché c’è un governo, non importa quale e non importa se esposto ai calcoli di Berlusconi, che può farlo cadere quando gli aggrada; e l’asta dei btp va bene, nonostante l’Istat certifichi che la fiducia delle imprese continua a scendere -è al punto più basso dal 2003, 74,6 in aprile rispetto al 78,5 di marzo-. D’altronde, lo scoramento imprenditoriale è diffuso in tutta l’Eurozona, a testimoniare lo iato ormai palese tra finanza ed economia.

L’effetto boomerang di una politica disattenta alle istanze dei cittadini per placare le proprie ansie è, proprio come dice la Podinmata, la crescita dell’euro-scetticismo e dell’euro-qualunquismo. Pazienza, ancora, se è quello britannico, endemico: magari, sarebbe una buona cosa se l’Unione finalmente si liberasse della palla al piede albionica, restituendo la Gran Bretagna a quello cui appartiene, lo Spazio economico europeo, a fare buona compagnia alla Norvegia e alla Svizzera. E pazienza pure se è l’apatia per l’Ue dei croati, che entreranno nell’Unione il 1.o luglio, o l’ostilità all’integrazione degli islandesi: solo un croato su quattro era andato alle urne il 14 aprile per eleggere i propri euro-deputati; e, domenica 28, gli islandesi, che, travolti dalla crisi finanziaria, avevano guardato all’Ue,  hanno bocciato i partiti pro-Unione e optato per il centro-destra euroscettico.

Ma se il boomerang colpisce i Paesi nucleo dell’integrazione e dell’Unione e se intacca uno spirito di solidarietà già fiaccato dagli egoismi della crisi, le larghe intese non saranno argine adeguato. Meglio il coraggio delle scelte che l’oppio dell’acquiescenza.


lunedì 29 aprile 2013

Ue: il contagio, e l'effetto boomerang, delle larghe intese

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 29/04/2013

Altro che il contagio della crisi, temuto da Wolfgang Schaeuble e dai falchi dell’euro-rigore. L’Italia trasmette all’Europa il contagio della voglia di larghe intese: persino nella Francia dell’antitesi tra Gauche e Droite, quattro cittadini su cinque auspicano una grande coalizione e addirittura uno su due sono favorevoli alla partecipazione del Front National di Marine Le Pen - fonte: un sondaggio del Journal du Dimanche -. E molti fra i partner della Germania vedrebbero bene una grande coalizione tedesca dopo le elezioni politiche del 22 settembre, così da annacquare il vino del rigore della Merkel con la crescita socialdemocratica, invece di inasprirlo con l’aceto dell’austerità liberale.

Il rischio di questa voglia di larghe intese è quello di non interpretare, ed anzi di deludere, l’istanza di rinnovamento che anima i cittadini (europei, non solo italiani) e di intercettare unicamente l’ansia di rassicurazione e il senso di sollievo che emerge dai messaggi di congratulazione al premier Letta del presidente Usa Barack Obama e di molti leader europei, fra cui i presidenti delle istituzioni Ue. C’è chi precorre i tempi, come John Kerry, segretario di Stato americano, che gratifica Letta a priori d’un ‘satisfecit’ come “amico buono e fidato” degli Stati Uniti, che “ha mostrato fermo impegno” nella partnership transatlantica.

Pure i fantomatici ‘mercati’ appaiono succubi di questa fascinazione, della medusa della normalità: lo spread scende solo perché c’è un governo, non importa quale e non importa se esposto al ricatto del ‘babau’ delle borse e del differenziale, Mr B, che già detta condizione per mantenere una fiducia non ancora data; e l’asta dei btp va bene, nonostante l’Istat certifichi che la fiducia delle imprese continua a scendere -è al punto più basso dal 2003, 74,6 in aprile rispetto al 78,5 di marzo-. D’altronde, lo scoramento imprenditoriale è diffuso in tutta l’Eurozona, a testimoniare lo iato ormai palese tra finanza ed economia.

L’effetto boomerang di una politica disattenta alle istanze dei cittadini per placare le proprie ansie è la crescita dell’euro-scetticismo e dell’euro-qualunquismo. Pazienza, ancora, se è quello britannico, endemico: magari, sarebbe una buona cosa se l’Unione finalmente si liberasse della palla al piede albionica, restituendo la Gran Bretagna a quello cui appartiene, lo Spazio economico europeo, a fare buona compagnia alla Norvegia e alla Svizzera. E pazienza pure se è l’apatia per l’Ue dei croati, che entreranno nell’Unione il 1.o luglio, o l’ostilità all’integrazione degli islandesi: solo un croato su quattro era andato alle urne il 14 aprile per eleggere i propri euro-deputati; e, ieri, gli islandesi, che, travolti dalla crisi finanziaria, avevano guardato all’Ue,  hanno bocciato i partiti pro-Unione e optato per il centro-destra euroscettico.

Ma se il boomerang colpisce i Paesi nucleo dell’integrazione e dell’Unione e se intacca uno spirito di solidarietà già fiaccato dagli egoismi della crisi, le larghe intese non saranno argine adeguato. Meglio il coraggio delle scelte che l’oppio dell’acquiescenza.

venerdì 26 aprile 2013

Visti dagli Altri: Governo, Forza Letta, ma vince Mr B e perde Grillo

Scritto per il blog de Il Fatto ed EurActiv il 26/04/2013

Sarà che l’imprinting lo dà la stampa italiana. Ma la stampa estera è già tutta una ‘letteide’, proprio come, 18 mesi or sono, nel novembre 2011, era tutta una ‘monteide’ e, solo la settimana scorsa, era tutta una ‘giorgeide’. Questa volta, però, con meno deferenza: i media internazionali fanno il tifo perché il tentativo di formare il governo riesca, ma sono concordi nel sostenere che questa partita l’ha vinta Silvio Berlusconi. Per il Times, il Cavaliere “torna al top”; mentre, per il Time, “il gioco è nelle mani di Berlusconi”. E, fra gli sconfitti, i corrispondenti esteri cominciano a collocare pure Beppe Grillo: Le Monde sentenzia, nella scia delle polemiche sul 25 Aprile, che “le provocazioni” del leader del M5S “non fanno più titolo”; e un blog sul Financial Times si domanda se la “bolla” del Movimento “stia scoppiando”.

Del resto,  neppure i partner europei, concordi nell'auspicare che l’Italia si dia un governo, sono poi unanimi nel promettere rose e fiori all'Esecutivo Letta: la Germania già spegne le attese del premier che verrà d’allentamento del rigore; e Olanda e Finlandia le tengono, come sempre, bordone.

Naturalmente, la stampa estera ha il problema di spiegare chi è ‘sto Letta, “un moderato pacato –scrive il WSJ- con legami nell'emiciclo”, le cui “chances di successo –nota l’FT- dipendono molto dall'autorità che gli deriva dall'essere stato nominato da Napolitano. Il presidente della Repubblica è emerso come ‘il più potente politico italiano’, estendendo le sue prerogative costituzionali ai limiti di … un temporaneo passaggio da un sistema parlamentare a uno presidenziale”.

Non mancano dubbi e interrogativi, specie da parte britannica: nei commenti, ci si chiede quanto questo “matrimonio forzato” delle larghe intese durerà, mentre i servizi di cronaca riferiscono, come fa la Bbc, che “la problematica coalizione” sta “prendendo forma”. In un editoriale dal titolo “Il momento di Enrico Letta”, il Financial Times scrive: “E' pure possibile che non riesca a formare un Esecutivo. E, comunque, il suo governo difficilmente durerà a lungo.  Se riesce a formarlo, dovrebbe dare la priorità alle riforme politiche rispetto a cambiamenti di politica economica”, perché lì sarebbe più difficile “costruire un consenso”. “Idealmente –nota il quotidiano economico-, l’Italia ha bisogno di un governo forte per varare riforme economiche. Ma questo non è disponibile. Letta dovrebbe puntare a una nuova soluzione politica che spiani la strada a cambiamenti economici significativi”.

L’approccio critico dell’FT segue d’un giorno un articolo di Guy Dinmore, corrispondente da Roma, “Letta chiede di allentare le politiche d’austerità”: “La prospettiva di un nuovo governo in Italia –riferiva Dinmore- spinge i mercati al rialzo ed è ben vista dalla stampa internazionale, anche se molti commentatori dubitano che questo governo duri a lungo”.

L’Economist propone l’equazione “Vecchio presidente, nuovo premier, stessi problemi per l’Italia”. Il nuovo governo appare al settimanale piuttosto promettente, ma il suo mandato dovrebbe essere breve: gli italiani dovranno probabilmente tornare alle urne presto “data la nota instabilità politica”. Ma un altro articolo della stessa rivista rovescia, per una volta l’abusato aforisma del Gattopardo “Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi”. Ora, invece, gli strateghi dell’operazione Letta avrebbero fatto in modo che le cose restino com'erano perché possano cambiare. Ma è davvero così?

giovedì 25 aprile 2013

Governo: Letta atteso alle prove europee, con pregiudizi positivi

Scritto per EurActiv il 25/04/2013

Il programma ‘europeo’ del governo di Enrico Letta, se e quando nascerà, ricalcherà, in buona parte, quello dei Saggi incaricati da Giorgio Napolitano di tratteggiare le linee guida del nuovo Esecutivo, quando non si sapeva ancora come le cose sarebbero andate a finire tra Quirinale e Palazzo Chigi. Un percorso in parte obbligato, con scadenze serrate nei prossimi due mesi, dal G8 nell’Ulster ai due Vertici europei a Bruxelles, oltre a riunioni a maggio e a giugno dell’Eurogruppo e dell’Ecofin.

La designazione di Letta riceve un’accoglienza cautamente, ma nettamente positiva in ambito europeo, dove si prevede che l’Italia prosegua nel solco tracciato dal governo Monti, anche se il FT dice che il neo-premier intende sollecitare un’attenuazione delle politiche del rigore e punti su scelte per la crescita e l’occupazione.

L’esordio europeo di Letta nel nuovo ruolo dovrebbe avvenire al Vertice del 22 maggio, dedicato alla lotta contro l’evasione. Ma non è escluso, ed è anzi probabile, che il premier, che ha avuto una breve esperienza da parlamentare europeo, compia, prima, una missione conoscitiva presso le Istituzioni comunitarie, dove c’è il desiderio che l’Italia partecipi alla ricerca di vie d’uscita dalle difficoltà della zona euro e alla costruzione di una nuova e più efficace governance economica, nella prospettiva della realizzazione dell’Unione politica.

Poi, dopo il G8 del 17 e 18 giugno, l’altro appuntamento europeo del premier Letta prima dell’estate è il Vertice del 27 giugno. L’Italia, in questa fase, ha l’opportunità di coordinare la propria azione con Francia e Spagna, due Paesi i cui governi, pur senza rinnegare il rigore, condividono quelle che dovrebbero essere priorità italiane, più crescita e più occupazione, in dialettica con la Germania. Ma i rapporti con Berlino non subiranno, probabilmente, strappi, almeno fino alle elezioni politiche tedesche del 22 settembre.

La dimensione europea del rapporto dei Saggi, una dimensione che “fa parte della dimensione nazionale”, è stata particolarmente seguita da Enzo Moavero, ministro per gli Affari Europei uscente. Oltre agli aspetti più noti e scontati del rapporto Roma-Bruxelles, Moavero ha fatto emergere la prospettiva d’un piano ambientale nazionale che consentirebbe di colmare le lacune dell’Italia rispetto all’Ue e, al contempo, di dare una spinta alla crescita con investimenti importanti. Altre due carte da giocare al doppio tavolo europeo e nazionale sono il rilancio del turismo e l’Expo 2015.

L’incarico a Letta è stato accolto nelle sedi europee con un sospiro di sollievo, perché tutte le Istituzioni chiedono all'Italia un governo “stabile e forte” che “continuasse le riforme”. Martin Schulz, presidente dell’Assemblea di Strasburgo, giudica la notizia “positiva”, auspica il superamento dello “stallo politico”, benedice l’ipotesi di larghe intese e avalla le priorità di Letta: “Lavoro, lotta alla disoccupazione e recupero della credibilità della politica”.

Lettera 43 riferisce, però, un ammonimento della vicepresidente greca del Parlamento Anni Podimata, socialista come Schulz: “Il risultato finale (della crisi di governo italiana, ndr) non deve tradire il messaggio degli elettori». La frammentazione dei risultati ricorda quella della Grecia. Le tensioni anche. E se non si cambia rotta, tanto in Italia quanto in Europa, il rischio è che alle prossime elezioni i parlamenti si riempiano di anti-europeisti e populisti.

Presidential Library: Bush jr offre a Mr B uno strapuntino internazionale

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/04/2013

Capita proprio a fagiolo, per Silvio Berlusconi, questa inaugurazione della ‘Presidential Library’ di George W. Bush: l’ex premier recupera un po’ di visibilità internazionale e si ritrova a tu per tu con tutti i presidenti americani viventi (Jimmy Carter, George Bush padre e figlio, Bill Clinton e, ovviamente, Barack Obama) e con gli amichetti più fidati di Bush jr, come l’ex premier britannico Tony Blair e l’ex capo del governo spagnolo José Maria Aznar. Manca un altro fidatissimo, l’uomo delle Azzorre, l’ex premier portoghese José Manuel Barroso, che oggi fa il presidente della Commissione europea.

Con Berlusconi, Blair ed Aznar sono i soli leader europei che ora potranno vantarsi di essere stati in tutti i luoghi ‘bushiani’: ospiti alla Casa Bianca; a Camp David, fra le montagne del Maryland; al ranch di Crawford in Texas; e ora alla ‘Presidential Library’, presso un’Università di Dallas, sempre in Texas.

Il Cavaliere arriva alla festa da ex uomo di governo e da presidente del Popolo della Libertà, ma fresco dei successi elettorali e ‘presidenziali’. Fra Bush jr, ormai ridotto a quel che fa meglio, il ‘ranchero’, Aznar e Blair, che esercita ancora un ruolo nel Quartetto per il Medio Oriente, Mr B è il meno ex di tutti. E la ‘photo opportunity’ che l’inaugurazione gli offre servirà a ravvivarne l’immagine di statista di mondo, più di una delle solite istantanee ‘siberiane’ con l’amichetto suo Vladimir Putin.

E' la prima volta che i cinque attuali membri del ‘president’s club’ degli Stati Uniti si trovano insieme, dopo un loro brevissimo incontro al primo Inauguration Day di Obama, nel gennaio 2009. Quando Bush era alla Casa Bianca, il ‘presidents clubs’ riuniva cinque ex presidenti, fatto senza precedenti nella storia americana. Poi, la scomparsa di Ronald Reagan e di Gerald Ford li ha ridotti a quattro. A Dallas, insieme a centinaia di invitati, c’è pure Hillary Clinton, nelle vesti, però, di ex first lady, non di aspirante prima donna presidente Usa.

La ‘Presidential Library’, grande biblioteca-museo, è insieme centro di studi e di ricerche e luogo di iniziative filantropiche. Quella della biblioteca presidenziale è una tradizione americana: quando lascia l’incarico, ogni presidente riceve fondi per realizzarla, che poi integra, se vuole, con soldi suoi e donazioni private. E ciascuno la realizza dove vuole: Reagan in California, come prima di lui fece Nixon; Bill Clinton se l’è messa a Little Rock nell’Arkansas, il suo Stato; Bush jr s’è scelto il campus della Southern Methodist University.

Obama è già in Texas da ieri: con Michelle, è stato a West, la cittadina devastata una settimana fa dall'esplosione di un impianto di fertilizzanti, dove ancora si scava alla ricerca dei dispersi, e ha poi reso omaggio alle vittime parlando alla Baylor University di Waco, città poco lontano, luogo d’un’altra tragedia americana, il rogo dei davidiani nel 1993.

Per Bush jr, come per i suoi predecessori, l’allestimento e l’apertura della biblioteca è l’occasione per sciorinare ricordi e documenti della sua presidenza, ma anche per rileggerne gli eventi più contestati in una luce a lui favorevole. “Voi che cosa avreste fatto al mio posto?" chiede l’ex presidente a tutti i visitatori, reali e virtuali, del museo interattivo. I cittadini potranno confrontarsi con le scelte più difficili che Bush ha dovuto fare nei suoi due mandati: invadere l'Iraq o lasciare Saddam Hussein al potere?, inviare a New Orleans le truppe federali dopo l'uragano Katrina o affidarsi alle forze locali?, salvare Wall Street o lasciare fallire le banche? Prima di decidere se comportarsi o meno come l'ex presidente, i visitatori potranno vedere filmati e ascoltare testimonianze di ex consulenti della Casa Bianca.

Nel centro costato 250 milioni di dollari, non mancano i cimeli, tra cui il megafono utilizzato da Bush jr a Ground Zero dopo gli attentati dell'11 settembre e una trave di acciaio del World Trade Center. "Il museo stesso - spiega Mark Langdale, numero uno della fondazione George W. Bush - - testimonia la convinzione dell'ex presidente che ciò che pensano gli americani è importante".

mercoledì 24 aprile 2013

Italia/Europa: Caro Enrico, ti scrivo... Firmato, Olli

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 24/04/2013
Nove settimane e neppure mezza in più: di qui al 30 giugno, anzi al 28, le sorti europee del governo e dell’Italia saranno  bell’e decise. Non c’è manco bisogno d’una lettera personale del commissario per gli Affari economici Olli Rehn al nuovo premier: gli impegni e le scadenze sono già noti, quasi tutti vincolanti a termini di Trattati. Così com’è noto il programma di governo: previdente, e un po’ preveggente, il presidente Napolitano s’era portato avanti, facendolo scrivere dai Saggi. Pareva, allora, tempo perso; è, adesso, tempo guadagnato.
Insomma, il nuovo premier e il nuovo governo di margini di libertà ne avranno pochi tra le scadenze del cosiddetto ‘semestre europeo’, la chiusura della procedura di infrazione Ue per deficit eccessivo e una raffica di riunioni di Ecofin, Eurogruppo e Vertici cruciali per portare avanti dossier come l’Unione bancaria, la lotta all’evasione fiscale –c’è un’azione che parte dall’Italia, pensate un po’-, la misure per la crescita e ancora la crisi di Cipro, con il ricorso ai prelievi forzosi sui conti correnti che l’Italia ha già sperimentato e che vede come uno spauracchio.
Un preciso articolo di Giuseppe Latour su EurActiv.it dettaglia scadenze e appuntamenti: a maggio, Eurogruppo ed Ecofin si riuniranno il 13 e 14, un Vertice è in programma il 22; a giugno, ancora Eurogruppo ed Ecofin e un Vertice il 27 e 28.
Fortuna che siamo partiti col piede giusto, senza manco saperlo.  Un dato statistico che ci dice bene: secondo Eurostat, il deficit di bilancio italiano nel triennio 2012/’14 si mantiene al di sotto del 3%: quel che serve per toglierci dalla procedura d’infrazione Ue per deficit eccessivo e acquisire margini per investimenti produttivi, che, col pagamento di parte dei debiti della Pubblica Amministrazione, possono funzionare da volano della ripresa.
La prima scadenza è quasi immediata. Tanto più che ci cade tra un ponte (del 25 Aprile) e l’altro (del 1.o Maggio): entro il 30 aprile, per la procedura prevista dal ‘semestre europeo’, che serve all’Unione a tenere sotto controllo i conti dei Paesi dell’Eurozona, la Commissione europea dovrà ricevere dal Governo italiano, che infatti li ha già preparati,  nel quadro del Documento d’economia e finanza (Def), il Piano nazionale di riforma (Pnr) e il Programma di stabilità e convergenza - manca, però, l’ok del Parlamento -.
Poi, ai primi di maggio, la Commissione pubblicherà le sue previsioni economiche di primavera: base di partenza i dati di Eurostat, integrati, per l’Italia, dall’impatto sul deficit del decreto sui pagamenti della P.A. Senza, siamo al 2,1% del Pil; con, il governo calcola che arriviamo al 2,9%; essenziale che la Commissione non ci stimi oltre il 3%.
Solo così, infatti, l’Esecutivo comunitario potrà sospendere, probabilmente in maggio, la procedura d’infrazione per deficit eccessivo, aprendoci una possibilità di “investimenti produttivi”, al di fuori dai vincoli di bilancio comunitari. Senza questo spazio di manovra, il nuovo Governo non avrà quasi modo di avviare una politica di sostegno alla crescita con la benedizione di Bruxelles.
Tra fine maggio e inizio giugno, la Commissione dovrà poi elaborare, sulla base di ciascun Pnr, raccomandazioni specifiche per i singoli Paesi, che avranno poi qualche settimana per discuterle e, magari, negoziarle, prima dall’adozione formale in Consiglio tra fine giugno e inizio luglio. E, una volta vidimate, le raccomandazioni saranno quasi vangelo: ci sarà solo da attuarle.

lunedì 22 aprile 2013

Dopo Napolitano: per un ‘nativo digitale’, ci tocca attendere vent’anni

Scritto per gli Appunti di Media Duemila online del 22/04/2013

A termini di Costituzione, per salutare il primo presidente della Repubblica italiana ‘nativo digitale’ dovremo attendere ancora una ventina d’anni, poiché bisogna avere compiuto 50 anni per insediarsi al Quirinale. Ma, se va avanti così, altro che 2030 o giù di lì: dovremo –anzi, dovrete- attendere forse il 2050 e magari il 2060. I presidenti, infatti, ce li andiamo a prendere sempre più vecchi, quasi dovessimo compensare con la loro saggezza l’improvvisazione e l’approssimazione dei leader meno sperimentati.

Con la sua rielezione, Giorgio Napolitano, che già al primo colpo, nel 2006, non era un ragazzino, con i suoi 80 anni, batte il record di Sandro Pertini, che finora era il più anziano presidente eletto: era vicino agli 82 anni nel giugno 1978.

Fino a sabato 20, l’età media di elezione di un presidente italiano era 71 anni, con quel giovanotto di Francesco Cossiga, salito al Quirinale a soli 57 anni, ad abbassare la cifra. Dopo Cossiga, però, negli ultimi vent’anni e nelle ultime quattro elezioni, l’età media è stata nettamente più alta: Oscar Luigi Scalfaro 74 anni, Carlo Azeglio Ciampi 77, Napolitano 80 e 87, abbiamo una media che sfiora gli 80 anni.

Invece, fino a Pertini, avevamo avuto De Nicola 69, Einaudi 74, Gronchi 68, Segni 71, Saragat 66, Leone 63, con una media di appena 67 anni e mezzo.

E, allora, se si andasse avanti con il trend attuale, un ‘nativo digitale’ non entrerebbe al Quirinale prima del 2060. E, nel frattempo, chissà quali e quante diavolerie saranno state escogitate, per fare sentire pure loro, i ‘nativi digitali’, dei ‘matusa’ –termine che, di per sé, mi colloca fra quelli che erano giovani nell’arco di tempo compreso tra Mary Quant e gli ‘indiani metropolitani’-.

E’ un handicap?, quello di attendere a lungo un presidente più a suo agio su twitter che al telefono? Fino a un certo punto, perché, a ben vedere –e lo abbiamo appena visto, in questi ultimi concitati giorni-, tecnologie dell’informazione e social media ci azzeccano abbastanza poco con l’elezione del capo dello Stato: tutto avviene all’interno di un gruppo ristretto, quello dei Grandi Elettori, dove la comunicazione diretta viene ancora meglio di quella online.

I social media possono piuttosto servire a dare la temperatura delle reazioni dell’opinione pubblica, almeno quella tecnologicamente evoluta, alle decisioni in fieri. Sempre con un margine di errore: se il flop della candidatura di Franco Marini appariva quasi scontato dal traffico che scorreva sui mio account twitter tra giovedì sera e venerdì mattina, quello della candidatura di Romano Prodi lo era molto di meno 24 ore più tardi.

Certo, però, che ciascuno dovrebbe tarare la propria comunità di followers, per farne uno strumento di previsione affidabile. Se no, s’intrecciano e si confondono preferenze e previsioni. E, alla fine, ci s’incarta: proprio come avvenuto alla leadership del Pd. Ma, per carità, non diamo la colpa a twitter.

domenica 21 aprile 2013

Visti dagli Altri: Napolitano dopo Napolitano, palla in corner

Scritto per il blog de Il Fatto il 21/04/2013

Non ci hanno capito quasi nulla, proprio come la maggior parte di noi italiani. I media esteri hanno faticosamente seguito, nelle cronache e nei commenti, i colpi di scena dell’elezione del presidente della Repubblica italiana, dopo essersi già interrogati perplessi sulla scelta di ‘fermare gli orologi’ nella ricerca del nuovo governo in attesa del nuovo presidente. Che poi finisce per essere il vecchio, con in più il potere di sciogliere le Camere.

L’essere usciti con la trovata Napolitano da tra giorni d’errori e d’orrori (politici e partitici) appare, agli occhi di molti, un sospiro di sollievo più che un colpo di genio, una palla in corner piuttosto che un salvataggio definitivo –e su corner capita di prendere gol-.

Perché resta il problema del governo e d’un quadro politico complessivo traballante, dove spiccano, come vincitori, Grillo e Berlusconi: due che non tranquillizzano gli interlocutori internazionali. Quanto agli sconfitti, Bersani e il Pd fanno l’unanimità. Ma, quello, l’abbiamo ben capito pure noi.

E’ il “naufragio della politica”: Le Monde legge così la rielezione di Napolitano, al di là dei giudizi, in genere positivi, sul capo dello Stato uscente e subentrante. “Nel campo di rovine che è diventata la politica italiana, Napolitano è il solo a essere rimasto più o meno in piedi, affidabile, rassicurante, professionale”. “Si sono rivolti a lui –racconta il giornale francese- per uscire dall’impasse politica che minacciava di diventare un abisso che li avrebbe inghiottiti. Bersani, Berlusconi, Monti l’hanno supplicato di rimanere altri sette anni”.

La Bbc fa un racconto analogo: “Nella crescente disperazione, si sono rivolti all’uomo che avrebbe dovuto andare in pensione”. Poiché la maggior parte dei quotidiani europei la domenica non escono, corrispondenti e commentatori hanno modo di riordinare le idee, dopo avere sparato a caldo titoli e commenti sui siti: protagonisti, Napolitano, con la sua conferma, e Grillo, con la sua denuncia dell’avvenuta rielezione come “un colpo di Stato”.

La stampa americana guarda al sodo e al dopo, cioè al prossimo governo. Il Wall Street Journal prevede la formazione di un esecutivo “bipartisan”, che è un modo di tradurre “di larghe intese”: e giudica la rielezione di Napolitano un tentativo “disperato” da parte di Pd e Pdl di evitare il ritorno alle urne, ma anche una “notevole sconfitta per la politica italiana” e in particolare per il Pd.

Il New York Times vede come “una speranza” una grande coalizione tra destra e sinistra, di fronte al  “crescente caos politico” italiano; segnala la “drammatica sconfitta” di Bersani e del Pd; e tocca pure un aspetto poco esplorato dai media esteri perché poco comprensibile alloro pubblico (accenna cioè all’ipotesi che l’immunità di Berlusconi sia stata un fattore della rielezione di Napolitano, che potrebbe fare il leader del Pdl senatore a vita).

Ovviamente meno dialettici, ma un po’ scontati, i messaggi ufficiali a Napolitano di felicitazioni e d’auguri, dove conta solo il risultato e non il come vi si sia giunti. Valga per tutti, ché molti sono simili, quello di José Barroso, presidente della Commissione europea: “Il rinnovo del suo mandato conferma … il successo del suo primo settennato, nel corso del quale lei è stato punto di riferimento istituzionale e garante riconosciuto dell'unità nazionale e del prestigio internazionale” dell’Italia.

La rielezione giunge “in un momento cruciale del processo d'integrazione”: governi nazionali e istituzioni europee “sono chiamati a dar prova di grande equilibrio, coraggio e lungimiranza”, perché “i cittadini europei chiedono un rinnovato impegno democratico che porti al superamento della crisi con il rilancio della crescita e dell'occupazione”. E Barroso è certo che “l'Italia, nel solco della sua tradizione europeista, continuerà a dare un decisivo contributo al comune ideale europeo”.

sabato 20 aprile 2013

Dopo Napolitano: ancora Napolitano, vecchia bussola europea

Scritto per EurActiv il 20/04/2013

Dopo Napolitano, ancora Napolitano: la politica italiana ricorre alla sua ‘vecchia’ bussola europea, per uscire dal marasma in cui l’hanno precipitata i risultati delle elezioni politiche dello scorso febbraio e l’incapacità dei partiti e dei leader di soddisfare sia l’esigenza di formare un governo che l’imperativo di scegliere un presidente.

Sulla conferma del presidente uscente, un inedito nella storia dell’Italia repubblicana, il consenso è largo e rapido: più un sospiro di sollievo che una trovata di genio. Così, almeno una è fatta: c’è un presidente che, alla bisogna, può sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, perché ne ha il potere.

Che, poi, forse non ce ne sarà neppure bisogno, se –come si dice- la convergenza sul nome di Napolitano prefigura già un’intesa per un governo delle larghe intese, che avrebbe la maggioranza e un programma di riforme magari essenziale su cui andare avanti per un po’. Almeno fin quando non sia passata –potrebbe essere il disegno- l’ondata d’insofferenza popolare per questi leader politici che la vicenda presidenziale non ha certo attenuato, ma ha anzi accresciuto.

Giorgio Napolitano, 87 anni, viene rieletto al sesto scrutinio, con una quantità di voti, 738, nettamente superiore alla maggioranza assoluta dei Grandi Elettori necessaria (504 su 1007). Non l’hanno dichiaratamente votato i ‘grillini’ e Sel, che hanno ancora puntato su Stefano Rodotà, e, nell’area di centro-destra, Fratelli d’Italia, oltre a franchi tiratori sparuti, non certo efficaci come lo erano stati giovedì per fare saltare la candidatura dell’inciucio di Franco Marini, scelto da Silvio Berlusconi in una rosa propostagli da Pierluigi Bersani, e venerdì per fare saltare quella che doveva essere la candidatura dell’ ‘orgoglio Pd’ di Romano Prodi.

Se uno cercasse di costruire un grafico di queste giornate, specie dell’atteggiamento del Pd, gli verrebbe fuori una linea a zig-zag: prima, alla ricerca d’un’intesa con i ‘grillini’, nei giorni del tentativo di formare un governo, chiudendo la porta a un’intesa con il Pdl; poi, alla ricerca di un accordo con Berlusconi sul presidente, sbattendo la porta in faccia ai ‘grillini’ che pure candidavano l’ex presidente del partito precursore del Pd, il Pds, Rodotà; poi alla ricerca del colpo di forza su un candidato di bandiera; infine, a ricucire la grande coalizione per sconfessare la quale s’è andati alla fine precipitata del governo Monti e al voto.

Tutto questo nulla toglie alla valenza, europea e pure internazionale, della conferma di Napolitano, cui, fra i primi, sono giunte le congratulazioni del presidente della Commissione europea José Manuel Durao Barroso e di altri leader dell’Unione. Napolitano è uomo dalle sicure e forti convinzioni europeiste –prima di diventare presidente, guidava il comitato italiano del Movimento europeo- ed è divenuto, nei momenti più difficili dell’ultimo governo Berlusconi, un punto di riferimento per i leader europei e pure americani, che hanno visto in lui un elemento di continuità dell’affidabilità dell’Italia come paese europeista ed atlantico. Elemento di continuità che viene ora esaltato dalla rielezione, anche se essa avviene sulle macerie di un sistema politico mostratosi incapace, dopo le elezioni, di azzeccarne una.

Dopo Napolitano: bruciato pure Prodi, candidato dal 'profumo europeo'

Scritto per EurActiv il 19/04/2013

Il ‘profumo d’Europa’ non basta a sostenere la candidatura di Romani Prodi alla presidenza della Repubblica. Anzi, l’esito del quarto scrutinio potrebbe avere azzoppato in modo definitivo le possibilità dell’ex premier ed ex presidente della Commissione europea, che, mentre il Parlamento italiano vota, partecipa, a nome dell'Onu, a Bamako, a una riunione sul futuro del Mali e del Sahel. Prodi ottiene meno di 400 voti: gliene mancano un centinaio di quelli della coalizione Pd-Sel. Stefano Rodotà, il candidato dei ‘grillini’, ottiene, invece, più voti di quelli che gli venivano attribuiti: ne riceve 214. Anna Maria Cancellieri conta sull'ottantina di voti dei centristi di Mario Monti. C’è qualche decina di suffragi dispersi, Pdl e Lega non partecipano alla votazione.

Affondata venerdì la candidatura di larga intesa di Franco Marini al Quirinale, il Pd puntava oggi su Prodi, un profilo decisamente europeo e internazionale. Al mattino, la terza votazione, che richiedeva ancora la maggioranza dei due terzi, 672 voti sui 1007 Grandi Elettori, passava quasi inosservata, con una valanga di scada bianca. Ma la quarta votazione, quando bastava la maggioranza assoluta, 504 suffragi, poteva essere quella della fumata bianca, o almeno poteva dare un segnale decisivo, se il Pd e i suoi alleati fossero stati compatti sull'indicazione Prodi con tutti i loro 495 voti o quasi. Invece, uno su quattro ha fatto una scelta diversa.

La stampa estera continua ad apparire un po’ frastornata, in questa vicenda del nostro nuovo presidente. Ma –ammettiamolo!- non è che noi abbiamo proprio tutto chiaro: Bersani che passa settimane a non volere fare il governo con Berlusconi e poi gli affida la scelta di un candidato comune in una rosa per lui tutta senza spine, di amici suoi; Grillo che passa settimane a non volere fare accordi con Bersani e poi gli consegna su un vassoio un candidato che è stato presidente e più volte deputato del suo partito (di Bersani); la coalizione di Bersani che implode davanti al candidato scelto da Berlusconi -Marini- e al rifiuto di quello offerto da Grillo –Rodotà-. I Grandi Elettori affossano l’inciucio e bollano l’insipienza dei leader, ma alimentano pure la confusione e, anzi, la ingigantiscono, con la sinistra che, dopo essersi ‘squagliata’ su Marini, si disperde pure su Prodi.

Ammettiamolo: se succedesse altrove, penseremmo che sono tutti fuori di testa. E, così, chi ci guarda da lontano si rifugia in predicozzi, come faceva ieri il Financial Times, che, in un editoriale dal titolo Voto chiave a Roma, auspicava un presidente della Repubblica “forte e credibile, in Italia e all'estero”.

E, ancora, il Financial Times si aspettava un presidente che abbia la "credibilità internazionale" di cui gode quello attuale: "Gli alleati dell'Italia devono sapere che a Roma c'è qualcuno di cui ci si può fidare". Un presidente –interpretiamo noi- che sappia d’Europa. In tutti i sensi. Con “un profumo d’Europa”: che conosca l’Unione, le sue regole e i suoi meccanismi; che abbia la visione dell’integrazione, meglio se in una prospettiva federale; che sia stimato dai partner europei -oltre che transatlantici- per quello che ha fatto e per come l’ha fatto.

Sono elementi di un identikit tracciato con la convinzione, che è un dato di fatto, della centralità della questione europea per il prossimo governo e per la prossima legislatura –questa, se poi avrà vita propria, o la prossima, se questa si ridurrà solo ad una falsa partenza-. Essere stato, come Marini, deputato europeo può volere dire avere in mano un ori, ma non certo un sette bello. E, a questo punto, si direbbe che non basta neppure essere stati presidente della Commissione europea.

L’inciucio fallito ha probabilmente bruciato, con Marini, gli altri petali della rosa offerta da Bersani a Berlusconi, Amato, D’Alema, Mattarella; ma, sembra, non ha danneggiato Rodotà. Ora, pure la candidatura di Prodi appare compromessa. Resta, sotto traccia, con le caratteristiche giuste, Emma Bonino, che ha esperienze europee –è stata commissaria-, che non ha mai abiurato la scelta dell’integrazione -ha una radicata visione federalista-, gode di rispetto e di stima in Europa e nel Mondo. Di lei, però, non si parla: forse è meglio così, fin quando la confusione è così alta.

giovedì 18 aprile 2013

Visti dagli Altri: dopo Napolitano, a monte l’inciucio, ora Prodi o Bonino

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 18/04/2013

Adesso, magari, succederà qualcosa di buono. Che, di peggio di quanto è già accaduto, è pure difficile. La stampa estera continua ad apparire un po’ frastornata, in questa vicenda del nostro nuovo presidente. Ma –ammettiamolo!- non è che noi abbiamo proprio tutto chiaro: Bersani che passa settimane a non volere fare il governo con Berlusconi e poi gli affida la scelta di un candidato comune in una rosa per lui tutta senza spine, di amici suoi; Grillo che passa settimane a non volere fare accordi con Bersani e poi gli consegna su un vassoio un candidato che è stato presidente e più volte deputato del suo partito (di Bersani); la coalizione di Bersani che implode davanti al candidato scelto da Berlusconi –Marini- e al rifiuto di quello offerto da Grillo –Rodotà-. I Grandi Elettori affossano l’inciucio e bollano l’insipienza dei leader, ma alimentano pure la confusione.

Ammettiamolo: se succedesse altrove, penseremmo che sono tutti fuori di testa. E, così, chi ci guarda da lontano si rifugia in predicozzi, come faceva oggi il Financial Times, che, in un editoriale dal titolo Voto chiave a Roma, auspicava un presidente della Repubblica “forte e credibile, in Italia e all'estero”. Il giornale della City non faceva nomi, ma non pareva avere in mente una figura come Marini, quando avvertiva che la scelta del nuovo presidente "definirà il futuro politico dell'Italia": se a vincere sarà una figura autorevole, ma "vecchio stile", l’attesa di cambiamento testimoniata dall'esito delle elezioni di febbraio non troverà riscontro.

All’FT, come a tutti i media stranieri, tocca spiegare ai lettori che il presidente, in Italia, conta magari poco, sulla carta, cioè a termini di Costituzione, ma che il settennato di Giorgio Napolitano ha modificato la situazione: durante il suo mandato, si legge, "il presidente è diventato un attore chiave della politica", perché ha spesso dovuto "riempire il pericoloso vuoto di potere derivante dalla debolezza dei partiti" e sopperire alla mancanza di credibilità della leadership (quando questa era affidata a Berlusconi).

E, allora, il Financial Times si aspetta un presidente che abbia la "credibilità internazionale" di cui gode quello attuale: "Gli alleati dell'Italia devono sapere che a Roma c'è qualcuno di cui ci si può fidare". Un presidente –interpreto io- che sappia d’Europa. In tutti i sensi. Che abbia “un profumo d’Europa”: che conosca l’Unione, le sue regole e i suoi meccanismi; che abbia la visione dell’integrazione, meglio se in una prospettiva federale; che sia stimato dai partner europei -oltre che transatlantici- per quello che ha fatto e per come l’ha fatto.
Sono elementi dell’identikit del nuovo presidente della Repubblica italiana, partendo dalla convinzione, che è un dato di fatto, della centralità della questione europea per il prossimo governo e per la prossima legislatura –questa, se avrà vita propria, o la prossima, se questa si ridurrà solo ad una falsa partenza-. Essere stato, come Marini, deputato europeo può essere un ori, ma non è certo un sette bello.
L’inciucio fallito ha probabilmente bruciato, con Marini, gli altri petali della rosa offerta a Mr B; e, forse, ha pure danneggiato Rodotà. Ma non ha toccato Romano Prodi ed Emma Bonino, che hanno esperienze europee -sono stati l’uno presidente della Commissione e l’altra commissaria-, che non hanno mai abiurato la scelta dell’integrazione -Prodi portò l’Italia nell’euro, la Bonino ha una radicata visione federalista- , che godono di rispetto e di stima in Europa (e si sono fatti pure rispettare e stimare in America).
E pazienza se, su di loro, non ci sarà una larga intesa. Chi mai l’ha scritto?, ‘sto elogio tutto italico del compromesso ad ogni costo. Scegliere è meglio che impapocchiare. E capita pure di scegliere bene.

mercoledì 17 aprile 2013

Boston: sangue sulla maratona, la striscia di morte del nemico interno

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/04/2013

“Un atto di terrorismo”, perché “colpire con ordigni esplosivi civili innocenti è sempre terrorismo”. Ma s’ignora ancora se opera di un singolo o di un gruppo, di stranieri o di americani. A un giorno dall'attacco alla maratona di Boston, le parole del presidente Obama testimoniano che tutte le piste restano aperte. In attesa di indizi precisi e di riscontri concreti, alcuni elementi inducono a pensare ad un’azione endogena o al gesto di un ‘lupo solitario’ più che all'opera d’un gruppo organizzato e strutturato: l’America ha già vissuto episodi di questa matrice, prima e dopo l’attacco integralista coordinato dell’11 Settembre contro le Torri Gemelle a New York e il Pentagono a Washington. E c’è qualcosa, nelle tecniche impiegate, che evoca Anders Behring Breivik, il templare norvegese, fondamentalista cristiano, che nel luglio 2011 compì  due stragi nel contro di Oslo e sull’isola d’Utoja (77 i morti).

Se, invece, la matrice dovesse risultare quella del terrorismo integralista, allora potrebbe trattarsi dell’opera di qualche cellula isolata e capace di condurre solo azioni d’impatto limitato, come farebbero supporre l’entità relativamente modesta dell’esplosione e l’obiettivo non politicamente significativo, e quindi non particolarmente protetto, prescelto.

A complicare le valutazioni, una ridda di coincidenze. L’attacco alla maratona avviene nel Patriot’s Day, che a Boston celebra le prime vittorie dei ‘coloniali’ contro le truppe britanniche nella Guerra d’Indipendenza, e in una data prossima agli anniversari di altri capitoli Usa di drammatica violenza: la strage di Waco in Texas il 19 aprile 1993, quella di Oklahoma City il 19 aprile 1995, pure quella di Columbine il 20 aprile 1999. Senza contare che il 15 aprile è, negli Stati Uniti, il giorno entro cui bisogna pagare le tasse: probabilmente, non c’entra nulla, ma nella città culla del Tea Party qualunquista ed anti-tasse la circostanza può apparire inquietante.

Non sarebbe neppure la prima volta che un attentatore ‘anomalo’ prende di mira un evento sportivo: il 27 luglio 1996, la sera, un individuo senza complici, Eric Robert Rudolph, fece detonare una bomba artigianale nel Parco olimpico del Centenario, ad Atlanta, dove erano in corso i Giochi. Una donna fu uccisa , oltre cento persone rimasero ferite. Un cameramen turco fu stroncato da un infarto mentre riprendeva la scena. Arrestato, Rudolph dichiarò di avere voluto protestare contro l’aborto. Lo si sospetta di altri attentati compiuti ad Atlanta e mai chiariti,  contro una discoteca frequentata da omosessuali, contro un edificio di uffici e contro una clinica.

Gli agguati, anche mortali, contro i medici che praticano l’aborto sono un altro filone di violenza americana, come le sparatorie nelle scuole (Columbine e Newtown nel dicembre 2012 le più tragiche) e sui luoghi di lavoro.

A parte gli attentati integralisti contro il World Trade Center (quello dell’11 settembre 2001 ebbe un precedente il 26 febbraio 1993, sei morti e un migliaio di feriti), e una serie di azioni dagli Anni 70 fino al 1981, rivendicati da movimenti armati portoricani, la storia del terrorismo americano nel Secondo Dopoguerra è tutta autoctona.

L’episodio più sanguinoso del filone ‘supremazista’ e ‘anti-governativo’ avviene il 19 aprile 1995: salta in aria un edificio federale a Oklahoma City; ci sono 168 morti, fra cui 19 bambini ospiti d’un asilo allestito nell'immobile, e oltre 500 feriti. Timothy McVeigh, un reduce della Guerra del Golfo, vicino alle milizie di estrema destra, viene arrestato e giudicato colpevole di avere collocato sotto il palazzo un camion imbottito d’esplosivo. L’11 giugno 2001, la sua condanna a morte venne eseguita nel carcere federale di Terre Haute nell'Indiana. Un suo complice sconta l’ergastolo.

L’attacco di Oklahoma City, come, pochi mesi dopo, il 9 ottobre 1995, il deragliamento in Arizona di un treno che collegava Miami a Los Angeles (un morto e un’ottantina di feriti), rivendicato da sedicenti ‘figli della Gestapo’, erano probabilmente collegato in qualche modo alla strage di Waco, in Texas, 80 morti il 19 aprile 1993, quando la polizia diede l’assalto a una fattoria dei seguaci d’una setta ‘davidiana’.

Nella serie dei ‘lupi solitari’ del terrorismo americano, spicca l’Unabomber Tedd Kaczynski, quasi il prototipo dello scienziato pazzo, condannato per aver inviato pacchi postali esplosivi a numerose persone, durante un periodo di quasi 18 anni, provocando tre morti e 23 feriti. Spiegò i suoi atti come tentativi di combattere “i pericoli del progresso tecnologico”.

Un capitolo misterioso resta quello degli attacchi all'antrace del 2001, subito dopo l’11 Settembre: una serie di pacchi con spore di antrace furono inviati a diversi media e a due senatori democratici causando la morte di cinque persone. La vicenda contribuì a destabilizzare ulteriormente un Paese che s’era appena scoperto vulnerabile. Dopo anni, i sospetti dell’Fbi ricaddero su Bruce Edwards Ivins, uno scienziato federale, che non fu però mai incriminato.

martedì 16 aprile 2013

Boston: sangue sulla maratona; l'attacco è locale, l'allarme è globale

Scritto per il blog de Il Fatto il 16/04/2013

L’attacco è locale, l’allarme è globale. Le esplosioni all'arrivo della Maratona di Boston - la più antica al Mondo: si corre da 117 anni - deflagrano nelle case d’Europa come in quelle d’America. Anzi, a causa dell’ora, forse più qui che lì: due ore dopo, telefono a parenti, ad amici, negli Usa e alcuni, in Texas o sulla Costa del Pacifico, manco lo sanno, perché per loro è tempo di lavoro, sono in giro, non davanti alla tv, come noi di sera.

Gli eventi americani, le tragedie americane, diventano subito globali, le sentiamo subito nostre: ci sono a correre lì quasi 300 italiani –e uno di noi la vinse pure, Gelindo Bordin-; arrivano subito le immagini; e quei posti ci sono familiari –magari solo per i film e le serie tv -. La stessa violenza fosse esplosa, in circostanze analoghe, altrove, in Africa, o in Asia, ci avrebbe lasciato quasi indifferenti.

Naturalmente, come sempre in questi casi, il fumo delle esplosioni crea confusione nelle notizie e ne slabbra i contorni: sul numero delle vittime –tre morti, fra cui una ventenne e un bambino di 8 anni, con circa 150 feriti, alcuni dei quali gravi, amputati- e sulle circostanze della ‘macchinazione’ –si parla di molte più deceduti, di altre esplosioni, di altri ordigni non esplosi disattivati, di un islamico arrestato, tutti elementi poi smentiti-.

C’è più equilibrio nelle parole del presidente Barack Obama, tre ore dopo, che in molti commenti giornalistici ‘a caldo’: il presidente non pronuncia la parola terrorismo, dice che “non ci sono ancora risposte” su chi e perché, esprime la solidarietà della Nazione alle vittime, promette inevitabilmente che i responsabili saranno individuati, trovati, presi, puniti.

L’America sotto attacco e l’eco dell’11 Settembre invadono notiziari e commenti. Ma, piuttosto che all’11 Settembre 2001, gli attacchi alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono a Washington, l’azione di Boston evoca, nelle dimensioni e nelle circostanze, la bomba di Atlanta sulle Olimpiadi del 1996 –vittime fra la folla di un concerto in un parco- o altre azioni di terrorismo ‘autoctono’. Non per questo meno criminale, meno sanguinario, meno deprecabile.

Certo, le misure di sicurezza che vengono adottate, la chiusura dello spazio aereo, o l’interdizione dei cellulari per impedire l’attivazione di ordigni a distanza, sono lezioni imparate dagli Stati Uniti, e dal Mondo intero, con l’11 Settembre. Ma c’e’ pure, in questo attentato atroce, un’eco di violenza tutta americana: la maratona di Boston era dedicata, quest’anno, alle vittime della strage di Newtown la cittadina del Connecticut in cui, a dicembre, un giovane esaltato uccise 27 persone, fra cui oltre venti scolari, in una scuola elementare. E, fra le vittime delle esplosioni di Boston, vi sono molti bambini, in vacanza per la maratona, che è una festa cittadina, con le scuole chiuse.

lunedì 15 aprile 2013

Dopo Napolitano: ancora un presidente che sappia d'Europa

Scritto per EurActiv il 15/04/2013

Un presidente che sappia d’Europa. In tutti i sensi. Un presidente, cioè, che conosca l’Unione, le sue regole e i suoi meccanismi. Un presidente che abbia la visione dell’integrazione, meglio se in una prospettiva federale. Un presidente che sia stimato dai partner europei -oltre che transatlantici- per quello che ha fatto e per come l’ha fatto.

Sono elementi dell’identikit del nuovo presidente della Repubblica italiana, partendo dalla convinzione, che è un dato di fatto, della centralità della questione europea per il prossimo governo e per la prossima legislatura –questa, se avrà vita propria, o la prossima, se questa si ridurrà solo ad una falsa partenza-.

Non c’è dubbio che fra i molti nomi che vengono evocati in questi giorni, dove è spesso difficile distinguere tra candidature vere e proprie, tentativi di bruciatura  e ‘ballons d’essai’, alcuni hanno quel ‘profumo d’Europa’ che noi cerchiamo. Due su tutti: Romano Prodi ed Emma Bonino, perché hanno esperienze europee –sono stati l’uno presidente della Commissione e l’altra commissaria-, perché non hanno mai abiurato la scelta dell’integrazione –Prodi portò l’Italia nell’euro, la Bonino ha una radicata visione federalista- , perché godono di rispetto e di stima in Europa (e si sono fatti pure rispettare e stimare in America).

Prodi e la Bonino non sono i soli ad avere queste caratteristiche, che non sono, del resto, le uniche in base a cui valutare. E fra i tanti citati ve ne sono altri meritevoli di considerazione e d’apprezzamento e validi dal punto di vista europeo: Giuliano Amato, uomo d’acume e d’intelligenza, fu vicepresidente della Convenzione europea che contribuì a disegnare l’attuale architettura istituzionale Ue; e Mario Monti è stato commissario europeo per due mandati e, come presidente del Consiglio, s’è guadagnato credito e credibilità nei Vertici europei, anche se le sue ultime scelte politiche possono averlo messo fuori gioco per il Quirinale.

Il Parlamento riunito in sessione congiunta con i rappresentanti delle Regioni comincerà le votazioni giovedì: per i primi tre scrutini, ci vorrà la maggioranza dei due terzi del collegio elettorale  (671), dopo basterà la maggioranza assoluta (504). Sommando i 620 deputati, i 319 senatori –quattro quelli a vita, ma Carlo Azeglio Ciampi difficilmente sarà in aula- e i 58 delegati scelti dalle regioni, i grandi elettori sono, infatti, 1007 in tutto. Nessuna componente politica ha, neppure sulla carta, la forza di farcela da sola, anche se il centro-sinistra, vede, secondo i calcoli più accreditati, quota 500.

Le votazioni dovrebbero procedere due al giorno. E, in corso d’opera, le sorprese non sono escluse.

sabato 13 aprile 2013

Visti dagli Altri: presidente cercasi (ma ‘de che?’)

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 13/04/2013

Questa storia che gli italiani stanno cercando, o magari aspettando, un presidente della Repubblica, quando uno penserebbe che stiano cercando, e certo aspettando, un presidente del Consiglio, molti media stranieri non sembrano proprio averla capita bene. Tant’è che alla corsa per il Colle –che già bisogne spiegare che cos’è e perché si chiama così- non si sono finora appassionati, mentre continuano a prendere sul serio –per carità, senza esagerare!- le mosse di e i contatti tra Bersani e Berlusconi, i dispetti di Renzi a Bersani e persino le conclusioni dei lavori dei Saggi (per le beghe della Lega, invece, spazio poco o zero).

Ora, magari, le cose cambieranno, con le ‘quirinarie’ grilline e l’avvicinarsi delle votazioni. Ma - viene da chiedersi - sono loro un po’ di coccio?, o siamo noi un po’ strani? Come quasi sempre, è un po’ l’uno e un po’ l’altro… Che l’Italia abbia bisogno d’un presidente del Consiglio, e quindi d’un governo, nella pienezza dei poteri, piuttosto che di un presidente della Repubblica, lo sappiamo pure noi… Solo che, così come stanno le cose, dopo le elezioni di febbraio, il governo non s’arriva a farlo; e, allora, si prova a cambiare rotta e a ‘buscar’ il Levante per il Ponente, cosa che, almeno una volta nella storia, ci ha detto bene, sia pure un po’ casualmente…

Queste le nostre buone ragioni. E quelle degli altri?, che non capiscono la scelta d’una rotta opposta al comune buon senso… Un po’ c’è l’anomalia della procedura –e va bene-; un po’ c’è il fatto che, di solito, in una Repubblica non presidenziale, la scelta del presidente conta relativamente poco e suscita relativamente scarso interesse –alzi la mano chi conosceva il nome del presidente tedesco, prima della sua visita, il mese scorso, a Sant’Anna di Stazzema: molti non l’avevano probabilmente mai sentito nominare, il buon pastore Joachim Gauck-; un po’, infine, c’è il fatto che molti dei nomi di cui si parla sono poco o punto noti al pubblico internazionale e, quindi, destano poca curiosità…

Prendiamo come cartina di tornasole proprio le ‘quirinarie’: nella rosa di dieci nomi uscita, solo Romano Prodi ed Emma Bonino, oltre a Beppe Grillo e a Dario Fo, hanno una certa riconoscibilità internazionale, per ruoli passati (alla Commissione europea), titoli acquisiti (il premio Nobel) o popolarità attuale… Gli altri, senza nulla togliere ai loro meriti e alle loro qualità - ché non ce n’è uno da scartare a priori -, vanno spiegati al pubblico non italiano (e qualcuno pure a quello italiano), pure Gino Strada, noto solo in alcuni ristretti contesti internazionali.

Dalla prossima settimana, però, ne sono sicuro, anche i media strenieri inizieranno ad appassionarsi alla corsa al Colle –e, magari, a fare il tifo per Emma o per Romano, due che all’estero hanno stima e seguito-. E il presidente (del Consiglio) può attendere il prossimo giro.

giovedì 11 aprile 2013

Corea: Kim che abbaia non morde, ma allarme resta e sale

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/04/2013

Un test missilistico nord-coreano è possibile “in ogni momento”, fonte Usa. “E potrebbero esserci lanci simultanei da siti diversi”, fonte sudcoreana. Però, a conti fatti, e dopo tanto ‘al lupo’, non succede nulla, neppure nel giorno in cui –ieri- molti pensavano che qualcosa potesse avvenire, sia pure solo di dimostrativo. Anche perché qui non si tratta di tenere col fiato sospeso il Mondo intero, che non mi pare se la prenda troppo calda –le borse d’Asia vanno alla grande-; ma di non tenere a lungo sulla corda per niente il proprio popolo, che va bene l’effetto 1984, ma prima o poi ti sgama che vendi fumo.

Comunque, sempre per il principio che “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”, la Corea del Sud e gli Stati Uniti hanno alzato i livelli d’allarme, a fronte della “minaccia vitale” costituita dalla Corea del Nord, che starebbe per effettuare uno o più test missilistici. E l’attenzione si sposta al 15 aprile, lunedì prossimo, un altro anniversario legato alla dinastia dei Kim, cui appartiene l’attuale leader Kim Jong-un, nipote del fondatore dello Stato comunista Kim Il-sung. Ma c’è pure chi pensa che la ‘prova di forza’ potrebbe coincidere con la visita a Seul, domani, del segretario di Stato americano Kerry e del segretario generale della Nato Rasmussen. Della minaccia nordcoreana, si parla oggi al G8 di Londra

Citando fonti militari anonime, la Yonhap, l’agenzia di stampa sud-coreana, informa che il comando integrato delle forze alleate in Corea del Sud ha portato da 3 a 2 il livello d’allarme (1 è lo stato di guerra). La scala riguarda i dispositivi di sorveglianza e di raccolta d’informazioni militari, non lo stato operativo delle truppe e degli armamenti o la mobilitazione delle riserve.

Anche il Giappone, che ha schierato batterie di Patriot a Tokyo e pure sull’isola di Okinawa, s’è messo in stato di allerta. Il che offre il pretesto alla stampa nordcoreana di denunciare “l’avventurismo militarista” nipponico e di rilanciare le minacce: “L’esercito popolare di Corea è perfettamente capace di polverizzare le basi militari americane” in Giappone e nel Pacifico, ‘spara’ il quotidiano ufficiale del regime nordcoreano, il Rodong Sinmun, citando come obiettivi Tokyo e Osaka.

Il ministro degli esteri sud-coreano Yun Byung-se ha informato il Parlamento che Pyongyang può ormai passare all’azione senza ulteriore preavviso. Secondo l’intelligence sudcoreana, le forze nordcoreane sono pronte a lanciare due missili Musudan, le cui rampe di lancio sono state posizionate la scorsa settimana lungo la costa orientale: i Musudan hanno una gittata teorica di 4.000 chilometri e, quindi, sempre teoricamente, possono raggiungere, oltre alla Corea del Sud ed al Giappone, anche l’isola di Guam, nel Pacifico, dove gli Stati Uniti hanno una grossa base.

E, come già avvenuto in passato, il regime nordcoreano potrebbe optare per una gragnola di missili: c’è  notizia di movimenti anche di lanciatori di Scud -centinaia di chilometri di gittata- e di Rodong -un migliaio di chilometri-.

mercoledì 10 aprile 2013

Corea: missili e contro-missili pronti, tra rischio e bluff

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/04/2013

La Corea del Nord ha completato i preparativi per il lancio di missili a media gittata dalla sua costa orientale: lo riferisce l'agenzia sudcoreana Yonhap, citando fonti militari. "Tecnicamente",  è "possibile" che il lancio possa essere effettuato “anche oggi”. Infatti il 10 aprile, questo mercoledì, è un giorno a rischio perché coincide con l’anniversario della nascita di Kim Il-sung, il fondatore della Corea del Nord ‘moderna’, cioè comunista, e il nonno dell’attuale leader, Kim Jong-un.

C’è un rischio reale?, o si tratta solo dell’ennesimo bluff? Jay Carney, portavoce della Casa Bianca, dice che Pyongyang cerca solo un'escalation delle tensioni con la retorica: lo fa ormai senza sosta da quasi due settimane. Washington prova, invece, di raffreddare la situazione, affermando che non abbatterà missili che non costituiscano una minaccia –un lancio di prova, cioè, non sarà intercettato.

E, lunedì, gli Stati Uniti avevano già smontato gli allarmi per un nuovo test nucleare nord-coreano (sarebbe il quarto della serie), la cui ipotesi aveva invece fatto evocare a Vladimir Putin l’ipotesi d’un olocausto nucleare al cui confronto l’incidente di Chernobyl sarebbe stato uno scherzo.

Quella di Kim ha tutti i crismi di una "retorica inutile": il regime farebbe meglio a “concentrarsi sulla propria economia piuttosto che sulle continue minacce" –il suggerimento è di Carney-. Eppure, a scanso di equivoci, il ministero della Difesa giapponese prende misure precauzionali e sistema batterie anti-missile Patriot Advanced Capability-3 (Pac3) nel quartier generale di Ichigaya, nel centro di Tokyo, e in altri punti dell'area metropolitana (ad Asaka e Narashino).

La mossa, decisa dal ministro Itsunori Onodera, punta a "neutralizzare" eventuali lanci balistici ostili nordcoreani. Il governo nipponico ha pure dislocato due cacciatorpediniere con sistemi radar antimissili Aegis, dotati di intercettori, nel Mar del Giappone. Un arsenale il cui spiegamento, più che dissuasivo, appare quasi provocatorio; e che certo non lascia tranquilli i cittadini giapponesi.

Se a Guam, nel Pacifico, dove gli Usa hanno una base, la gente e i militari sono più preoccupati dall’imminente tifone che dai missili nordcoreani –che arrivino fin lì, poi, è una scommessa-, Kim e la sua cricca recitano fino in fondo il copione della retorica bellicistica e rinnovano l’invito a lasciare il Paese agli stranieri, diplomatici compresi.

E dall’Onu e dall’Ue, come dalle capitali di mezzo mondo, anche da Pechino, arrivano gli inviti ormai rituali alla moderazione. Persino Mario Monti, che accoglie a Roma il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, fa sentire la voce di un’Italia un po’ afona negli ultimi tempi sulla scena internazionale: “No all’uso della forza” e “cessino le provocazioni” dice il Professore, che parla pure da ministro degli esteri.

martedì 9 aprile 2013

Morte Thatcher: lei e Reagan, dioscuri della deregulation in anni di giganti

Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 09/04/2013

Herman van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, un belga che compone haiku, la ricorda con parole neutre: la signora Thatcher –dice- “è stata una personalità notevole e uno dei più influenti leader europei dei suoi tempi. Negli 11 anni del suo governo, la signora Thatcher rappresentò una forza di trasformazione in Gran Bretagna e fu ugualmente rilevante nel plasmare l’agenda europea”. Termini misurati, ma che non ne rendono a pieno la personalità senza chiaroscuri e l’incidenza sulle vicende comunitarie –allora, si diceva ancora così- e internazionali degli Anni Ottanta. Gli Anni di Ronald Reagan, ma anche quelli di Margaret Thatcher.

Per un quinquennio, in Europa non si mosse foglia perché la Thatcher anteponeva a ogni decisione la pregiudiziale del rimborso britannico, cioè della riduzione dello squilibrio tra quanto Londra versava alle casse della Cee e quanto ne otteneva. Il compromesso, trent'anni dopo essere stato definito, è tuttora operativo a beneficio della Gran Bretagna.

Van Rompuy dice: “Uno dei più influenti leader europei dei suoi tempi”. A leggerlo senza pensarci non pare neppure un complimento, se si pensa a chi siede oggi intorno al tavolo dei Vertici. Prima e quasi sempre unica donna, la Thatcher però dovette confrontarsi per quasi tutto il suo tempo con François Mitterrand ed Helmut Kohl, due tipi tosti, che per di più andavano mano nella mano verso l’Unione europea e che non condividevano il suo liberismo; e poi arrivano pure Felipe Gonzalez e Mario Soares, due icone della democrazia riconquistata nella penisola iberica. L’Italia, come sempre, cambiava  spesso: si trovò a trattare con il più thatcheriano dei nostri politici Bettino Craxi, la cui durezza era più arroganza che fermezza, e con il meno thatcheriano di tutti, Giulio Andreotti.

La “Lady di Ferro che ha cambiato il Mondo” è il tributo ricorrente dei media e dei leader, quelli che le sopravvivono e quelli che mai l’incrociarono. Lo dice di lei anche Romano Prodi, che però aggiunge: la sua rivoluzione liberista ha portato "all'aumento delle differenze fra ricchi e poveri" ed ha "certamente aiutato e forse provocato" la crisi economica mondiale. Un giudizio condivisibile, ma che suona un po’ crudo e che, comunque, chiama in causa anche quanti vennero dopo i ‘dioscuri della deregulation’, la Thatcher e Ronald Reagan: alla fine degli Anni Ottanta il liberismo trionfava, vinceva persino la Guerra Fredda. Per evitarne i contraccolpi più dannosi e disinnescare la spirale della globalizzazione, ci sono poi stati circa vent’anni,  prima della crisi del 2008.

Liberista ed anti-europeista, la Lady di Ferro ha fatto di questi due credo l’ago della bussola d’ogni sua scelta politica: disse sì al mercato unico europeo, perché realizzava la sua visione mercantilista dell’integrazione, ma, poco prima di lasciare, scandì ai Comuni tre volte “no” ai progetti europeisti di Jacques Delors. La rigidità ideologica non le impedì, però, qualche intuizione di rara perspicacia: intervistata dalla Bbc nel dicembre 1984, disse “Mi piace il signor Gorbaciov, possiamo fare affari insieme”. In quel momento, Michail Gorbaciov non era ancora il leader dell’Urss, ma la Thatcher lo aveva già scelto come interlocutore.

Morte Thatcher: ultra-liberismo e anti-europeismo, ma fermezza e risultati

Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 09/04/2013

Quando, il 22 novembre 1990, giunse a sorpresa, inatteso, l’annuncio delle dimissioni di Margaret Thatcher, un collega familiare con le contorte logiche politiche italiane mi chiese: “ E adesso?, che cosa succede?”, cioè come manovrerà la Thatcher per riprendersi il potere senza i bastoni fra le ruote che negli ultimi tempi il suo stesso partito le aveva messo? “Non accadrà nulla –risposi-. La Thatcher lascia: ha finito, non tornerà, non cercherà di farlo”. Quel giorno, ci azzeccai: una settimana dopo, John Major, il suo delfino, le succedeva come premier. Fu la sua ultima vittoria: da perdente, aveva fatto fuori il suo rivale, Michael Haseltine, che l’aveva sfidata. Ma la previsione era troppo facile: quella era la Dama di Ferro, mica un tiramolla nostrano delle galassie democristiana e socialista che ancora non lo sapevano, ma erano già avviate al buco nero.

Che la signora in tailleur e borsetta, dai capelli irrigiditi dalla lacca e dal sorriso esagerato stampato in viso davanti ai flashes dei fotografi, fosse una tipa tosta i capi di Stato e di Governo dell’allora Cee, che erano appena nove all'inizio, l’avevano capito fin dal suo esordio, a un Vertice a Lussemburgo. La discussione s’incancrenì ben presto, perché la Thatcher cominciò subito a tirare fuori il suo ‘I want my money back’, ‘Voglio indietro i miei soldi’, destinato a diventare per cinque anni, fino alla metà del  1984, l’unico refrain dei Consigli europei.

Credendo di esercitare pressione sulla collega inesperta d’Europa e di potere, unica donna in un consesso fino ad allora sempre e solo maschile, il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing a un certo punto diede ordine che si preparasse la sua vettura, perché –disse- aveva da fare a Parigi; e lo fece sapere alla stampa. Come a significare “qui stiamo per finire, io me ne vado”. Manco per sogno: la vettura del presidente rimase per oltre un’ora a motore acceso davanti al palazzo del Kirchberg che ospitava i lavori. E la Thatcher tenne tutti in scacco. Quella volta e in tutti i successivi Vertici, fino a che, a Fontainebleau, nel giugno 1984, un altro presidente francese, François Mitterrand, che non la sopportava, come non la poteva soffrire –“m’ha sempre dato il mal di testa”- il cancelliere tedesco Helmut Kohl, non riuscì a confezionare l’accordo sul rimborso alla Gran Bretagna e “a spazzare dall'uscio della Cee –annunciò- la polvere del passato”.

Nacque da quel compromesso la stagione più fertile dell’integrazione europea: l’anno dopo, a Milano, ci fu l’atto unico sul mercato interno, che il liberismo mercantilista della signora Thatcher non ostacolò; e partirono di lì i preparativi del Vertice di Maastricht che, il 9 dicembre 1991, sancì l’Unione europea e gettò le basi della moneta unica. Ma, a quel punto, lei non c’era già più.

Con l’ideologia ostinatamente liberista della Thatcher, e anche con i suoi modi, uno poteva e talora doveva essere in profondo disaccordo: pensiamo a Bobby Sands e agli altri dell’Ira lasciati morire di fame nelle carceri britanniche. Ma la coerenza e la fermezza non le possono essere negate; e neppure i risultati conseguiti. Nel bene e nel male, con lei bisognava fare in conti. E con lei bisognava confrontarsi: aggirarla non era possibile. Lo capì fra i primi Ronald Reagan , che la volle ed ebbe sempre al fianco, mai contro.

Prese un Paese in crisi e in declino, gli restituì orgoglio e competitività. Anche con la guerra, impegnandolo in un conflitto da cui persino gli americani tentarono di scoraggiarla: mandò la flotta in capo al mondo, per riprendersi le Falkland, isole ‘britanniche’ occupate dalla dittatura argentina: una guerra atroce, come tutti i conflitti, che Londra non aveva voluto, ma il cui esito risultò determinante per il ritorno della democrazia in Argentina. Quando il segretario di Stato Usa Alexander Haig, un generale, provò a dissuaderla, ricordandole quanto lontane erano le Falkland, lei gli ricordò che pure la Hawaii sono lontane dall’America, ma che l’attacco a Pearl Harbor non era rimasto impunito.