Viktor Orban, presidente ungherese, ama più il calcio –è
tifoso del Milan- che la democrazia: lui, che a 50 anni presto suonati scende
ancora in campo, dribbla gli strali della Commissione europea alle sue riforme
costituzionali liberticide (non gli sta molto a cuore, ad esempio, il
pluralismo dell’informazione). Ma i cittadini ungheresi dribblano lui,
euro-scettico se ce n’è uno e nazional-populista, profittando della libertà di
circolazione che l’appartenenza all’Ue dal 2004 garantisce loro.
Héti Vilàggazdasàg, giornale economico ungherese, stima a
500 mila gli ungheresi che, da quando Orban è al potere per la seconda volta,
hanno lasciato il proprio Paese: il 5% della popolazione (gli ungheresi non
sono neppure 10 milioni, su una superficie che è un terzo dell’Italia), il 12%
della forza lavoro. Se ne vanno i giovani e quelli che hanno una qualificazione
professionale.
Mezzo milione: più del doppio rispetto ai circa 200 mila
ungheresi che fuggirono dal Paese dopo che, nell’autunno del 1956, i carri
sovietici schiacciarono l’insurrezione popolare anti-comunista. Certo, allora,
la scelta degli esuli fu molto più drammatica: fra di loro, c’erano alcuni
campioni della nazionale magiara che solo due anni prima, in Svizzera, aveva
sfiorato il titolo mondiale, sconfitta in finale dalla Germania allora Ovest.
Puskas, Kubala, Szabo furono le vedettes di quella ‘fuga verso la libertà’.
Oggi, e da molto tempo ormai, l’Ungheria non produce più
giocatori di classe. E questa non è solo
un’emigrazione politica, ma è anche una scelta economica. Le autorità di
Budapest, che non hanno il mito della trasparenza, ridimensionano il fenomeno:
non mezzo milione, ‘appena’ 170mila, il che vorrebbe comunque dire tanti quanti
nel 1956.
In questo contesto, fa sorridere che, proprio oggi, il
ministro degli esteri Janos Martonyi abbia detto che “è interesse condiviso di
tutte le nazioni che le minoranze etniche si sentano a casa loro dove vivono”.
Orban e i suoi coltivano il mito della Grande Ungheria e irritano i Paesi
vicini, specie Slovacchia e Romania, facilitando l’accesso alla nazionalità
ungherese agli ungheresi che vivono fuori dai confini nazionali; però, a conti
fatti, il regime attrae meno ungheresi dall’estero di quanti non ne induca a
lasciare la madre patria.
Orban, premier giovanissimo dal 1998 al 2002, poi rieletto
nel 2010, non è solo nel mirino dell’Ue: l’Onu gli rimprovera l’inasprimento
della legge contro i senzatetto, nonostante le misure siano state bocciate
dalla Corte Suprema; e l’Fmi contesta l’ingerenza “accresciuta” del governo
nelle scelte degli imprenditori, col risultato che gli investimenti non sono
mai stati così bassi da 10 anni in qua e che la recessione non è agli
sgoccioli, mentre la disoccupazione è nella media europea. E persino gli
intellettuali prendono le distanze dalla cultura ‘pro Orban’: due
rappresentazioni d’un regista vicino al
premier, Attila Vidnyanszky, sono state annullate a Strasburgo, dopo vivaci
polemiche.
Eppure, i sondaggi indicano che gli ungheresi che restano in
patria potrebbero rieleggere Orban l’anno prossimo, anche a causa delle
divisioni nell’opposizione di sinistra che non riesce a trarre consensi dalla
profonda insoddisfazione in un Paese colpito dalla recessione e il cui governo
non rispetta gli standard democratici europei.
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