Il
‘profumo d’Europa’ non basta a sostenere la candidatura di Romani Prodi alla
presidenza della Repubblica. Anzi, l’esito del quarto scrutinio potrebbe avere
azzoppato in modo definitivo le possibilità dell’ex premier ed ex presidente
della Commissione europea, che, mentre il Parlamento italiano vota, partecipa,
a nome dell'Onu, a Bamako, a una riunione sul futuro del Mali e del Sahel.
Prodi ottiene meno di 400 voti: gliene mancano un centinaio di quelli della
coalizione Pd-Sel. Stefano Rodotà, il candidato dei ‘grillini’, ottiene,
invece, più voti di quelli che gli venivano attribuiti: ne riceve 214. Anna
Maria Cancellieri conta sull'ottantina di voti dei centristi di Mario Monti.
C’è qualche decina di suffragi dispersi, Pdl e Lega non partecipano alla
votazione.
Affondata venerdì la candidatura di larga intesa di Franco Marini al Quirinale, il Pd puntava oggi su Prodi, un profilo decisamente europeo e internazionale. Al mattino, la terza votazione, che richiedeva ancora la maggioranza dei due terzi, 672 voti sui 1007 Grandi Elettori, passava quasi inosservata, con una valanga di scada bianca. Ma la quarta votazione, quando bastava la maggioranza assoluta, 504 suffragi, poteva essere quella della fumata bianca, o almeno poteva dare un segnale decisivo, se il Pd e i suoi alleati fossero stati compatti sull'indicazione Prodi con tutti i loro 495 voti o quasi. Invece, uno su quattro ha fatto una scelta diversa.
La stampa estera continua ad apparire un po’ frastornata, in questa vicenda del nostro nuovo presidente. Ma –ammettiamolo!- non è che noi abbiamo proprio tutto chiaro: Bersani che passa settimane a non volere fare il governo con Berlusconi e poi gli affida la scelta di un candidato comune in una rosa per lui tutta senza spine, di amici suoi; Grillo che passa settimane a non volere fare accordi con Bersani e poi gli consegna su un vassoio un candidato che è stato presidente e più volte deputato del suo partito (di Bersani); la coalizione di Bersani che implode davanti al candidato scelto da Berlusconi -Marini- e al rifiuto di quello offerto da Grillo –Rodotà-. I Grandi Elettori affossano l’inciucio e bollano l’insipienza dei leader, ma alimentano pure la confusione e, anzi, la ingigantiscono, con la sinistra che, dopo essersi ‘squagliata’ su Marini, si disperde pure su Prodi.
Ammettiamolo: se succedesse altrove, penseremmo che sono tutti fuori di testa. E, così, chi ci guarda da lontano si rifugia in predicozzi, come faceva ieri il Financial Times, che, in un editoriale dal titolo Voto chiave a Roma, auspicava un presidente della Repubblica “forte e credibile, in Italia e all'estero”.
E, ancora, il Financial Times si aspettava un presidente che abbia la "credibilità internazionale" di cui gode quello attuale: "Gli alleati dell'Italia devono sapere che a Roma c'è qualcuno di cui ci si può fidare". Un presidente –interpretiamo noi- che sappia d’Europa. In tutti i sensi. Con “un profumo d’Europa”: che conosca l’Unione, le sue regole e i suoi meccanismi; che abbia la visione dell’integrazione, meglio se in una prospettiva federale; che sia stimato dai partner europei -oltre che transatlantici- per quello che ha fatto e per come l’ha fatto.
Sono elementi di un identikit tracciato con la convinzione, che è un dato di fatto, della centralità della questione europea per il prossimo governo e per la prossima legislatura –questa, se poi avrà vita propria, o la prossima, se questa si ridurrà solo ad una falsa partenza-. Essere stato, come Marini, deputato europeo può volere dire avere in mano un ori, ma non certo un sette bello. E, a questo punto, si direbbe che non basta neppure essere stati presidente della Commissione europea.
L’inciucio fallito ha probabilmente bruciato, con Marini, gli altri petali della rosa offerta da Bersani a Berlusconi, Amato, D’Alema, Mattarella; ma, sembra, non ha danneggiato Rodotà. Ora, pure la candidatura di Prodi appare compromessa. Resta, sotto traccia, con le caratteristiche giuste, Emma Bonino, che ha esperienze europee –è stata commissaria-, che non ha mai abiurato la scelta dell’integrazione -ha una radicata visione federalista-, gode di rispetto e di stima in Europa e nel Mondo. Di lei, però, non si parla: forse è meglio così, fin quando la confusione è così alta.
Affondata venerdì la candidatura di larga intesa di Franco Marini al Quirinale, il Pd puntava oggi su Prodi, un profilo decisamente europeo e internazionale. Al mattino, la terza votazione, che richiedeva ancora la maggioranza dei due terzi, 672 voti sui 1007 Grandi Elettori, passava quasi inosservata, con una valanga di scada bianca. Ma la quarta votazione, quando bastava la maggioranza assoluta, 504 suffragi, poteva essere quella della fumata bianca, o almeno poteva dare un segnale decisivo, se il Pd e i suoi alleati fossero stati compatti sull'indicazione Prodi con tutti i loro 495 voti o quasi. Invece, uno su quattro ha fatto una scelta diversa.
La stampa estera continua ad apparire un po’ frastornata, in questa vicenda del nostro nuovo presidente. Ma –ammettiamolo!- non è che noi abbiamo proprio tutto chiaro: Bersani che passa settimane a non volere fare il governo con Berlusconi e poi gli affida la scelta di un candidato comune in una rosa per lui tutta senza spine, di amici suoi; Grillo che passa settimane a non volere fare accordi con Bersani e poi gli consegna su un vassoio un candidato che è stato presidente e più volte deputato del suo partito (di Bersani); la coalizione di Bersani che implode davanti al candidato scelto da Berlusconi -Marini- e al rifiuto di quello offerto da Grillo –Rodotà-. I Grandi Elettori affossano l’inciucio e bollano l’insipienza dei leader, ma alimentano pure la confusione e, anzi, la ingigantiscono, con la sinistra che, dopo essersi ‘squagliata’ su Marini, si disperde pure su Prodi.
Ammettiamolo: se succedesse altrove, penseremmo che sono tutti fuori di testa. E, così, chi ci guarda da lontano si rifugia in predicozzi, come faceva ieri il Financial Times, che, in un editoriale dal titolo Voto chiave a Roma, auspicava un presidente della Repubblica “forte e credibile, in Italia e all'estero”.
E, ancora, il Financial Times si aspettava un presidente che abbia la "credibilità internazionale" di cui gode quello attuale: "Gli alleati dell'Italia devono sapere che a Roma c'è qualcuno di cui ci si può fidare". Un presidente –interpretiamo noi- che sappia d’Europa. In tutti i sensi. Con “un profumo d’Europa”: che conosca l’Unione, le sue regole e i suoi meccanismi; che abbia la visione dell’integrazione, meglio se in una prospettiva federale; che sia stimato dai partner europei -oltre che transatlantici- per quello che ha fatto e per come l’ha fatto.
Sono elementi di un identikit tracciato con la convinzione, che è un dato di fatto, della centralità della questione europea per il prossimo governo e per la prossima legislatura –questa, se poi avrà vita propria, o la prossima, se questa si ridurrà solo ad una falsa partenza-. Essere stato, come Marini, deputato europeo può volere dire avere in mano un ori, ma non certo un sette bello. E, a questo punto, si direbbe che non basta neppure essere stati presidente della Commissione europea.
L’inciucio fallito ha probabilmente bruciato, con Marini, gli altri petali della rosa offerta da Bersani a Berlusconi, Amato, D’Alema, Mattarella; ma, sembra, non ha danneggiato Rodotà. Ora, pure la candidatura di Prodi appare compromessa. Resta, sotto traccia, con le caratteristiche giuste, Emma Bonino, che ha esperienze europee –è stata commissaria-, che non ha mai abiurato la scelta dell’integrazione -ha una radicata visione federalista-, gode di rispetto e di stima in Europa e nel Mondo. Di lei, però, non si parla: forse è meglio così, fin quando la confusione è così alta.
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