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mercoledì 31 agosto 2011

Libia: Gheddafi, la caccia, un remake di Osama e Saddam

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/08/2011

Lo danno dovunque, ma non lo prendono mai da nessuna parte: nel suo bunker e sulla Piazza Verde; alla Sirte e in Algeria; cento chilometri a sud-est di Tripoli e “in un buco nel deserto”. Da quando, domenica 21 luglio, Tripoli è nelle mani dei ribelli, il dittatore Muammar Gheddafi è una primula rossa: gli insorti e, dal cielo, gli aerei della Nato cercano di snidarlo, o di ammazzarlo, per ora senza successo.

Accadeva lo stesso con Osama bin Laden, il capo di al Qaida. Dopo l’invasione dell’Afghanistan e il rovesciamento del regime dei talebani, gli americani credevano d’averlo imbottigliato nel dicembre 2001 fra le montagne di Tora Bora, lungo il confine con il Pakistan. Non s’è mai saputo con certezza se Osama fosse davvero lì, ma lo videro fuggire a piedi, a dorso di mulo, in sella a una moto. A conti fatti, non lo presero; e ci sono voluti altri nove anni e mezzo perché la caccia al terrorista si concludesse, il 1.o maggio di quest’anno, in Pakistan ad Abbottadab.

E accadeva lo stesso a Saddam Hussein, il rais iracheno: caduta Baghdad e abbattute le sue statue, il 9 aprile 2003, devastati i suoi palazzi e presi molti dei suoi fidi, Saddam riuscì a sottrarsi alla cattura per oltre otto mesi, fino al 14 dicembre, quando due soldati americani lo scovarono, quasi per caso, in un buco nel terreno vicino a Tikrit, la sua città, a nord della capitale. Prima, due suoi figli, Udai e Qusai, e un ragazzino di quest’ultimo, 14 anni, erano caduti in un conflitto a fuoco a Mosul.

Le latitanze di Saddam e di Osama durarono a lungo, malgrado le taglie cospicue poste dagli Usa sul loro capo –fino a 25 milioni di dollari, per il terrorista-. Nulla a che vedere con gli ‘appena’ due milioni di dinari, neppure 1,5 milioni di euro, promessi a chi consentirà di prendere Gheddafi “vivo o morto”. Dopo l’insurrezione e durante il conflitto, il colonnello dittatore ha più volte sfidato gli insorti e gli aerei della Nato, comparendo in pubblico, persino sulla Piazza Verde, o mostrandosi in tv.

Ma è soprattutto dal 21 agosto che Gheddafi e i suoi figli eludono la caccia dei ribelli e si fanno beffe degli annunci di cattura e/o di uccisione. Ricostruiamo alcuni degli episodi salienti:

22 agosto – Seif al-Islam, figlio del dittatore, dato per catturato con due suoi fratelli, si fa intervistare da Cnn e Bbc e, con un blindato, fa una capatina all’hotel dei giornalisti, affermando che suo padre è a Tripoli.

23 agosto – I ribelli razziano il quartier generale del regime a Bab al-Aziziya. Del colonnello nessuna traccia. Gheddafi annuncia d’averlo lasciato “per ragioni tattiche” e, in messaggi audio, sostiene di avere passeggiato in incognito per le vie della capitale.

25 agosto – Il dittatore, in un messaggio audio, invita alla resistenza. La Libia, afferma, “non è né della Francia né degli Stati Uniti”.

27 agosto – Un convoglio di sei Mercedes blindate entra in Algeria: a bordo, si ipotizza, Gheddafi con familiari e funzionari. Algeri smentisce, mentre il Cnt intima al colonnello di consegnarsi, “o rischia un’esecuzione sommaria”.

28 agosto – Il dittatore è alla Sirte, la sua roccaforte, dicono fonti Nato, mentre i ribelli puntano sulla città. Gheddafi fa sapere di essere pronto a trattare la transizione dei poteri. Il Cnt replica: “Prima arrenditi”.

29 agosto - Gheddafi è a cento km a sud-ovest di Tripoli con il figlio Saadi, dicono fonti diplomatiche; il resto della famiglia è in Algeria. Il figlio Khamis sarebbe stato ucciso da un elicottero Nato –notizia tuttora incerta-, vicino a Tarhouna, 80 km a sud di Tripoli. Pure ucciso nello stesso episodio, forse, Abdallah Senoussi, capo dell’intelligence.

30 Agosto – Algeri ammette di avere accolto familiari di Gheddafi: la moglie, due figli –Hannibal e Mohamed- e la figlia Aicha, che dà alla luce una bimba, Safia. Il Cnt critica l’Algeria e vuole la consegna dei congiunti del dittatore.

30 Agosto – Napoli, la Nato dice che Gheddafi riesce ancora a guidare le truppe a lui fedeli.

domenica 28 agosto 2011

Usa: Katrina peggio di Irene, Obama meglio di Bush

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/08/2011

Se George W. Bush e la destinata a divenire famigerata Fema, la sicurezza civile degli Stati Uniti, avessero preso all’arrivo di Katrina solo una frazione delle precauzioni che Barack Obama e il sindaco di New York Mike Bloomberg stanno prendendo per Irene ci sarebbero sicuramente stati centinaia di morti e un sacco di danni in meno, anche se New Orleans sarebbe uscita comunque semi-distrutta dal passaggio dell’uragano.

Nell’agosto 2005, Katrina, che fece quasi 2000 vittime e provocò devastazioni senza pari negli Usa dal 1928, superiori agli 80 miliardi di dollari, raggiunse l’intensità massima: oscillava tra forza 4 e forza 5 quando prese alle spalle New Orleans e fece tracimare le sue dighe inadeguate, battendo poi Mississippi e Alabama. Irene, che pure è mostruosamente vasto, è ormai sceso a forza 1, appena sopra una tempesta tropicale, con venti che neppure raggiungono più i 140 km l’ora: è la forza che aveva Isabel nel settembre 2003 quando arrivò su Washington, lasciando senza luce molti quartieri della capitale federale per una settimana.

Dunque, Obama, Bloomberg e tutti quanti stanno esagerando?, il gioco delle precauzioni non vale la candela dei rischi? Questo è un Paese, anzi in un Mondo, in cui la politica è schizofrenica ed è appena giunta a rimproverare al presidente di giocare a golf in vacanza mentre un terremoto faceva tremare la costa sbagliata degli Stati Uniti, quella Est, dove non te lo aspetti, come se Obama o altri i terremoti potesse prevederli. Senza contare che, per il sisma, né a Washington né a New York né altrove, non è successo assolutamente nulla, in termini di vittime e di danni: se una cosa del genere accadeva in Cile, o in Cina, manco mai avremmo saputo che c’era stato.

Perché gli uragani, come i terremoti, devono scegliere bene, se vogliono avere impatto mediatico. Gli uragani, ad esempio, contano se arrivano sugli Stati Uniti, mentre se si limitano a devastare Cuba e Haiti, o il Messico, contano solo nella misura in cui scomodano turisti occidentali. E i tifoni che stanno nel Pacifico non se li fila proprio nessuno, a parte gli allarmi per le centrali nucleari giapponesi. Gli uragani, se si scaricano sulla Florida o sull’arco di costa nord-americana dal Texas all’Alabama, o meglio ancora sulla Costa Est, hanno il successo assicurato: non c’è neppure bisogno che facciano vittime e danni come Katrina, basta che li minaccino. E subito diventano star dell’informazione.

Così, Obama e Bloomberg prendono il rischio di ‘iper-reagire’, piuttosto che quello di minimizzare. E, questa volta, le precauzioni sono davvero eccezionali: le simulazioni, a dispetto del calo d’intensità di Irene, dicono che New York potrebbe subite un’andata di due o tre metri. Il sindaco ha ordinato l’evacuazione di tutte le zone costiere e Obama, prima di lasciare l’isola delle vacanze dei ricchi e famosi, Martha’s Vineyard, dove andavano sempre i Kennedy, ha raccomandato ai suoi concittadini di attenersi alle indicazioni delle autorità.

I newyorchesi lo stanno facendo: le stazioni di servizio della Grande Mela sono a secco di benzina, tale è stato lo zelo dell’evacuazione. Gli ospedali a rischio sono stati svuotati (7000 i pazienti ‘sfollati’) e i tassisti di New York sfoderano un inconsueto senso civico: corse a tariffa fissa, per chi cerca riparo dall’uragano (250 mila hanno lasciato le loro case).

Ieri mattina, il sindaco Bloomberg ha fatto le ultime raccomandazioni, mentre già scrosci di pioggia annunciano Irene: sarà una notte pericolosa, mettetevi al riparo. Ma hotel e ristoranti con vista sull’uragano e ai piani alti di edifici robusti annunciano ‘serate Titanic’, musica, cocktail Irene e cena con show.

Questo è definito dagli esperti, tanto per mettersi al sicuro, se mai non ci azzeccassero, un uragano anomalo, più grosso che potente, ma anche relativamente imprevedibile. Il presidente ha già firmato lo stato di emergenza per alcuni Stati, fra cui quello di New York: un modo per sbloccare fondi d’urgenza, se necessario.

Fra le misure, il blocco, probabilmente per 48 ore, dei trasporti aerei da e per la East Coast –anche l’Alitalia tiene a terra i velivoli per New York e Boston-, oltre che stop più brevi alla metropolitana, ai ponti che collegano Manhattan alla terraferma, ai trasporti terrestri-. Fortuna che è un week-end di fine estate e non una concitata settimana lavorativa.

Lungo il percorso d’Irene che risale la costa dalla Carolina del Nord, abituata a sfuriate della natura, con le sottili spiagge a rischio delle Outer Banks, e cronache raccontano già di centinaia di migliaia di utenti senza energia elettrica –ma saranno milioni a conti fatti, in un Paese dove la maggior parte dei cavi sono ancora aerei e un palo che cade manda in tilt la rete-. Anche il calendario dello sport subisce i contraccolpi dell’uragano: sarà un week-end senza baseball per milioni di americani e anche gli US Open di tennis che dovrebbero cominciare lunedì potrebbero partire con l’handicap.

Intanto, tutti con il fiato sospeso: la mattina di domenica nella Grande Mela sarà da Day After?, o da scampato pericolo?

sabato 27 agosto 2011

Libia: lo strappo tra Mr B e Gheddafi diventa un'epopea

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/08/2011

Ora che la guerra è vinta, anche se non è ancora finita, apprendiamo che il dittatore libico Muammar Gheddafi voleva “trasformare Lampedusa in un inferno” e spingeva i barconi dell’immigrazione clandestina verso l’isola avamposto dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo. Parola rispettivamente del ministro degli esteri Franco Frattini e dell’ambasciatore di Libia a Roma Abdulhafed Gaddur, ormai acquisito alla causa ribelle.

In un’intervista a l’Avvenire, Frattini definisce “terribile” lo strappo tra Silvio Berlusconi e Gheddafi: il premier considerava il dittatore “un amico e l'ha poi visto uccidere donne e bambini": “amarezza”, “sdegno”, “l'amicizia si è trasformata in rabbia". I racconti caricati accentuano l’epopea italiana di questo conflitto, per aiutare a dimenticare l’imbarazzo della relazione (troppo) stretta con il regime libico.

Il match del dopo guerra tra Francia e Italia su chi sarà l’interlocutore privilegiato della nuova Libia prosegue a colpi di mosse diplomatiche, anche se i ministri Frattini e Ignazio La Russa (difesa) negano che vi sia “una gara coloniale” tra Parigi e Roma. La Francia annuncia di volere riaprire presto l’ambasciata a Tripoli, adesso che il governo di transizione vi s’è installato (e Frattini replica: “Siamo pronti pure noi”); e il presidente francese Nicolas Sarkozy progetta col premier britannico David Cameron progetta una missione a Tripoli (per Mr B, stavolta, non pare esserci posto).

Progetti tutti fluidi e incerti. La situazione in Libia non è sicura: il trasferimento del Cnt da Bengasi a Tripoli avviene con prudenza; il presidente Mustapha Abdel Jalil si sposterà solo quando non vi saranno rischi. Nella capitale, e alla Sirte, la caccia a Gheddafi continua. E va avanti, in parallelo, la caccia al tesoro: quello del colonnello, se c’è, nascosto da qualche parte nei palazzi del potere, ma soprattutto quello degli aiuti internazionali.

Mahmoud Jibril, il premier del Cnt, conferma a Istanbul, dove si riunisce il Gruppo di Contatto sulla Libia, che la sopravvivenza del Paese dipende, al momento, dallo sblocco dei beni libici congelati dalle organizzazioni internazionali e dai singoli Stati. Giovedì, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva già sbloccato 1,5 miliardi di dollari per finanziare aiuti d’urgenza alla ricostruzione del Paese –un’opera la cui durata è stimata in dieci anni-. E sempre giovedì l’Italia aveva promesso l’anticipo di 350 milioni di euro sullo sblocco dei beni per fare fronte alle esigenze più immediate, come il pagamento degli stipendi –c’è chi non lo riceve da mesi- e il ripristino dei servizi di base.

Ma, anche sul fronte economico, la coesione del Cnt lascia a desiderare. Mentre Jibril fa la questua, Jalil nega che vi sia un’emergenza, dice che in Libia non manca nulla e spende parole a favore “dei Paesi che ci hanno più aiutato, cioè, Francia e Gran Bretagna tra gli europei”. All’Italia, presta più attenzione Gheddafi, che, in un messaggio audio, afferma: “La Libia non è né della Francia né dell’Italia”.

Al meeting di Rimini, Frattini ostenta fiducia: “L’Italia è e sarà il primo partner economico libico”. E bolla come “roba da colonizzatori” le affermazioni del finanziere Tarak Ben Ammar, che prevede una “grande competizione” tra le società petrolifere Eni –italiana- e Total –francese- su gas e petrolio libici.

Si solleva un velo sul ruolo della Nato di appoggio ai ribelli, andato ben oltre il mandato dell’Onu. Frattini assicura che la missione continuerà “finchè sarà necessario” -33 le missioni aeree italiane compiute nell’ultima settimana-, mentre il ministro dell’interno Roberto Maroni vuole riprendere i negoziati sull’immigrazione. C’è la convinzione che il Trattato di Amicizia italo-libicodel 2008, attualmente sospeso, tornerà presto in vigore.

Preoccupazioni per il futuro trapelano da Hillary Clinton che invita gli insorti a mostrare “fermezza verso gli estremisti”. E il sottosegretario alla difesa Guido Crosetto, controcorrente, non esclude una presenza temporanea di forze Nato sul terreno.

L’Unione africana, spesso un passo indietro rispetto alla realtà, afferma, da Addis Abeba, che il Cnt non è ancora un potere “legittimo” perché i combattimenti proseguono: il presidente sud-africano Jacob Zuma invita a formare “un governo di transizione che coinvolga tutte le parti in causa”. Invece, piovono da varie capitali i riconoscimenti del nuovo governo.

Le organizzazioni umanitarie sono all’opera per alleviare le sofferenze delle popolazioni. L’Oim sta organizzando l’evacuazione di immigrati da Tripoli verso Bengasi, mentre Amnesty International invita lealisti e ribelli a cessare torture e maltrattamenti.

venerdì 26 agosto 2011

Libia: dopo Gheddafi, Mr B ha una storia (a tre) con Jibril

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/08/2011

Jibril chiede e Berlusconi sgancia senza abbozzare. Anzi, Mahmoud Jibril, capo del governo del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, Mahmoud Jibril, non deve neppure chiedere troppo, perché il presidente del Consiglio italiano lo previene con una pletora di concessioni. A Milano, in Prefettura, Jibril, che, ieri, a Parigi, aveva visto il presidente francese Nicolas Sarkozy, appare soprattutto preoccupato degli impegni finanziari cui la ‘nuova Libia’ deve fare fronte: l’incontro con Berlusconi si svolge nella tarda mattinata e dura poco più di un’ora, ma è denso di risultati.

Mentre a Tripoli e altrove in Libia si combatte ancora, Gheddafi resta uccel di bosco e la vicenda del sequestro di quattro giornalisti italiani si conclude presto e bene, il premier del Cnt sostiene che il rischio di destabilizzazione sarebbe forte soprattutto se i salari e i servizi (infrastrutture, scuole, sanità, trasporti, energia, etc.) non fossero ripristinati in fretta: la Libia, ha spiegato Jibril, ha bisogno di aiuti urgenti, “soprattutto per quelle persone che da mesi non sono retribuite”, fra cui anche militari e apparati di sicurezza, specie quelli nel campo degli insorti. E il premier si rivolge all’Occidente. “Dateci una mano”.

Di fronte all’emergenza, il Cavaliere gioca d’anticipo sull’Onu e sull’Ue, che proprio in queste ore stanno discutendo come sbloccare gli averi libici congelati: l’Italia mette sul tavolo una prima fetta di aiuti, 350 milioni di euro freschi (o quasi). Perché, spiega il ministro degli esteri Franco Frattini, si tratta solo di un anticipo sullo sblocco dei beni libici nelle banche italiane: un modo per aggirare le lungaggini delle autorizzazioni delle organizzazioni internazionali.

Tramite l’Eni, inoltre, l’Italia fornirà il gas e la benzina di cui la popolazione libica ha bisogno, senza farselo pagare subito. L’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni non indica quantità, ma precisa che le consegne ore fatte saranno pagate “in futuro” con forniture di petrolio e gas libici. Un’intesa in tal senso sarà formalizzata lunedì a Bengasi: essa prevederà, inoltre, da parte dell’Eni, forme di assistenza tecnica al Cnt per rimettere in funzione il più presto possibile le installazioni petrolifere nell’est del paese. Scaroni indica che le forniture di gas riprenderanno per prime, mentre quelle di petrolio potrebbero richiedere tra i 6 e i 18 mesi.

L’Italia e la Libia, inoltre, creeranno “un comitato di collegamento” dove concordare risposte rapide alle esigenze libiche in questa fase di transizione e di confusione. Frattini ne sarà a capo per l’Italia: obiettivo, “affrontare senza burocrazia e in modo duttile e rapido le esigenze della ricostruzione”.

Il governo Berlusconi, insomma, non vuole cedere il passo alla Francia e alla Gran Bretagna, che co-presiederanno la conferenza degli amici della Libia il 1.o settembre, a Parigi, nella corsa a chi sarà il migliore amico della nuova leadership. E, per farsi perdonare il peccato originale di essere stato il miglior amico del colonnello Gheddafi, oltre che le esitazioni sull’atteggiamento da tenere all’inizio dell’insurrezione, il Cavaliere punta a che l’Italia sia il paese “che dà di più alla Libia”. Nel contempo, Bengasi si mostra rassicurante verso le imprese che operano laggiù: l’accordo d’amicizia del 2008, ora sospeso, resta valido e “le nuove autorità rispetteranno tutti i contratti”. Roma non vuole neppure lasciare a Parigi e Londra la supremazia militare: se mercoledì s’era saputo che forze speciali francesi, britanniche e del Qatar operano sul terreno in Libia, ieri Frattini ha rivendicato la presenza da due mesi a Bengasi di addestratori italiani.

Jibril, per il momento, accetta l’amicizia di tutti: ringrazia, si dice pronto a negoziare con i lealisti e dà assicurazioni che gli insorti non indulgeranno a vendette e rivalse. Poi, parte per Istanbul, dove c’è una riunione del Gruppo di Contatto. E nel fine settimana sarà a un incontro della Lega araba.

giovedì 25 agosto 2011

Libia: 4 giornalisti italiani rapiti, una storia che si ripete

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/08/2011

Giornalisti italiani rapiti sulla prima linea di conflitti cruenti raccontati da vicino: storie, per fortuna, spesso a lieto fine, anche se lo sfondo è sempre tragico; ma ci sono purtroppo pure casi drammatici. E le vicende dei sequestri si intrecciano con quelle delle uccisioni: almeno una dozzina, negli ultimi 25 anni, alcune ancora vive nel ricordo dei colleghi e del pubblico, altre quasi dimenticate.

Certo, a fare i giornalisti si può finire ammazzati anche in Italia, di mafia o di criminalità, a volte pure di logge segreti o di dintorni della politica: non c’è bisogno di andare all’estero, per scoprire che d’informazione si muore, quando la si fa in modo scomodo per chi s’arroga il potere d’uccidere.

Ora, però, mentre cominciano ad affastellarsi notizie sul rapimento in Libia di Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera, di Domenico Quirico de La Stampa e di Claudio Monici de l’Avvenire, scorrono nella memoria i nomi dei ‘caduti in guerra’: un elenco non completo, ma già lungo. In Mozambico, nel 1987, venne assassinato il triestino Almerigo Grilz dell’agenzia Albatros. L’1 giugno 1993 fu ucciso in Bosnia il freelance Guido Puletti, 40 anni. Il 20 marzo 1994 uno degli episodi più impressionanti: furono ammazzati insieme, in Somalia, Ilaria Alpi, 33 anni, inviata del TG3, e il telecineoperatore triestino Miran Hrovatin, 46 anni. Un anno dopo, il 9 febbraio 1995, sempre in Somalia, fu ucciso, in un agguato, il telecineoperatore Rai Marcello Palmisano. Poi l’episodio più sanguinoso: tre triestini, il giornalista Marco Luchetta e gli operatori Alessandro Ota e Dario D’Angelo, ammazzati a Mostar in Bosnia dallo scoppio di un ordigno. E, poi, ancora Antonio Russo (15 ottobre 2000, 40 anni) inviato di Radio Radicale, assassinato sulla via di Tblisi in Georgia; Maria Grazia Cutuli (19 novembre 2001, 39 anni) del Corriere della Sera, uccisa nell’est dell’Afghanistan: il medico-reporter Raffaele Ciriello, ucciso in Palestina da soldati israeliani il 13 marzo 2002; e, infine, Enzo Baldoni (26 agosto 2004, 46 anni), un freelance ammazzato in Iraq, e Vittorio Arrigoni, l’attivista pro-palestinese, pur’egli freelance, ucciso a Gaza a 36 anni.

Quello di Baldoni è l’unico esempio, finora, di giornalista italiano sequestrato e non liberato. Fu preso nei pressi di Najaf il 21 agosto 2004 dall’Esercito islamico dell’Iraq, una sedicente organizzazione integralista forse collegata, in qualche modo, ad al Qaida. Dopo un ultimatum all’Italia perché ritirasse le sue truppe dal Paese invaso entro 48 ore, Baldoni venne assassinato: data, luogo e modalità dell’ ‘esecuzione’ non sono certi. I resti del freelance furono recuperati solo sei anni dopo e portati in Italia nell’aoprile 2010. Personaggio al crocevia di molti interessi e attività, Baldoni aveva valutato, prima di intraprendere la ‘missione’ in Iraq, l’eventualità di non tornare.

Gli altri rapimenti hanno avuto epiloghi diversi, anche se poche volte non c’è stato spargimento di sangue (di un accompagnatore, come l’autista dei quattro rapiti in Libia ucciso, o di un ‘liberatore’). Un caso a sé è la vicenda di Fausto Biloslavo, triestino, oggi uno degli inviati di guerra italiani più esperti, collega e amico di quel Grilz morto in Mozambico, con cui aveva fondato la Albatros. Nell’Afghanistan allora occupato dall’Armata Rossa, Biloslavo, nel 1988, venne arrestato proprio da agenti sovietici: rimase in carcere per sette mesi, riuscendo poi a rientrare in Italia solo grazie all’intervento diretto del presidente della repubblica Francesco Cossiga.

Più recenti le vicende di Giuliana Sgrena, in Iraq, e di Daniele Mastrogiacomo, in Afghanistan. Giuliana, inviata de Il Manifesto, viene rapita a Baghdad il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione della Jihad islamica e viene liberata un mese dopo, il 4 marzo, dai servizi segreti italiani. Ma, durante il trasferimento all’aeroporto di Baghdad, la vettura su cui la Sgrena viaggia accompagnata da uno degli artefici della sua liberazione, Nicola Calipari, è intercettata da una pattuglia di marines che, all’oscuro di tutto, la scambiano per un’auto di terroristi e aprono il fuoco: Calipari è ucciso, la Sgrena se la cava. Ne nascono polemiche su come la trattativa era stata condotta, ma soprattutto ne scaturisce una lunga vicenda giudiziaria, che porta a individuare il marines che ha fatto fuoco.

L’ultimo giornalista italiano rapito al fronte era stato, finora, Daniele Mastrogiacomo, inviato d’esperienza, vittima del sequestro nel 2007, durante un reportage in Afghanistan: la sua storia ebbe implicazioni di vario genere ed è poi stata da lui stesso raccontata in un libro dal titolo “I giorni della paura”. Il 5 marzo, il giornalista stava andando da Kandahar a Lashkargah, capoluogo dell’Helmand, nel sud del Paese, zona talebana, con un giornalista locale che faceva da interprete e un autista: i tre avevano un appuntamento con il mullah Dadullah, i cui uomini, invece, li circondano, li legano, li imbavagliano.

Mastrogiacomo è prima scambiato per un agente britannico e ripetutamente minacciato di morte. Poi, quando la sua identità viene chiarita, i rapitori chiedono, a mo’ di riscatto, che l’Italia ritiri dall’Afghanistan il proprio contingente. La pretesa viene respinta, ma le trattative, anche grazie all’attivo interessamento della Ong Emergency, vanno avanti, con momenti tragici, come quando l’autista viene sgozzato e decapitato perché tutti capiscano che i guerriglieri fanno sul serio. Il 19 marzo, Mastrogiacomo viene liberato, mentre le autorità afghane liberano alcuni detenuti talebani. Ma il suo interprete resta prigioniero e verrà ucciso poche settimane più tardi. La vicenda avrà poi seguiti polemici, con accuse di complicità mosse a Emergency e riflessi internazionali.

Libia: Francia (e Usa) organizzano il 'dopo Gheddafi'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/08/2011

Tripoli è l’epicentro dell’epilogo del conflitto in Libia: lì, va in scena il crollo di un regime. Ma, altrove, soprattutto a Parigi, si tessono le trame del ‘dopo Gheddafi’. Il capo del governo provvisorio del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) di Bengasi Mahmoud Jibril ha ieri incontrato all’Eliseo il presidente francese Nicolas Sarkozy; e oggi a Milano in prefettura vedrà il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Dal colloquio di Parigi è uscita confermata la linea tracciata, martedì, da Sarkozy e dal presidente Usa Barack Obama, d’accordo per mantenere la pressione militare fin quando Gheddafi e il suo clan non depongano le armi. C’è la convinzione, condivisa dal Cnt, che “il regime libico sarà finito solo quando il Colonnello sarà stato catturato o ucciso”, perché dittatore libero costituisce una minaccia.

Incontrando la stampa con Jibril, Sarkozy annuncia che una conferenza internazionale degli “amici della Libia” si riunirà a Parigi il 1.o settembre, già la prossima settimana: fra gli invitati, il capo dell’Onu Ban Ky-moon e i Paesi del Gruppo di Contatto, ma anche Russia, Cina, India. E conferma che le operazioni belliche cesseranno solo quando la ‘minaccia Gheddafi’ sarà cessata. Jibrill, invece, conferma la volontà di processare il Colonnello, su cui, vivo o morto, pende ora una taglia da due milioni di dinari, circa 1,5 milioni di euro, offerta da uomini d’affari libici, e indica l’intenzione di organizzare entro otto mesi elezioni legislative e presidenziali

Stati Uniti e Francia, insieme alla Gran Bretagna, stanno accelerando i tempi per sbloccare gli averi libici congelati, così che i ribelli possano disporne.Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu s’è ieri riunito per discutere una proposta di Washington su come smorzare gli effetti d’una risoluzione dell’Onu del 26 febbraio, che imponeva sanzioni severe al colonnello Gheddafi, alla sua famiglia, al suo clan, per la brutale repressione delle prime manifestazioni di protesta e dissenso. Il 17 marzo, il Consiglio di Sicurezza avrebbe autorizzato l’uso della forza in Libia, a tutela della popolazione civile.

Per Sarkozy e, in minore misura, per Obama, la vittoria dei ribelli a Tripoli è un punto a favore. Ma il successo internazionale appare destinato ad avere un impatto modesto sulle campagne elettorali che, l’anno prossimo, attendono entrambi i leader. La Francia, con la Gran Bretagna, è stata l’elemento di punta dell’intervento militare, schierando pure sul terreno proprio forze speciali, accanto a quelle britanniche e del Qatar, dopo essere stata il primo Paese a chiedere che Gheddafi lasciasse il potere (25 febbraio) e a riconoscere il Cnt come “interlocutore unico” (11 marzo) inviando un ambasciatore a Bengasi. L’incontro di ieri con Jibril è stato per Sarkozy un modo d’intascare il dividendo politico della vittoria libica, in attesa, magari, di incassare quello, più concreto, economico, energetico e commerciale.

Fra i leader meno esporti sul fronte libico, il presidente russo Dmitri Medvedev, sempre contrario all’intervento armato, ritiene che vi siano in Libia “due poteri” e invita al negoziato. Ma Mosca, come Pechino, è ora pronta a stabilire relazioni con i ribelli se questi riescono a unificare il Paese.

Fra gli ‘amici’ del Colonnello, che vede il suo regime dissolversi dopo oltre 42 anni, il Nicaragia è pronto ad accordargli asilo, come pure il Venezuela, nella cui ambasciata a Tripoli c’è chi crede che Gheddafi si sia già rifugiato. E pure l’Uganda aveva, tempo fa, offerto rifugio al dittatore libico.

mercoledì 24 agosto 2011

Libia: una nuova classe dirigente 'riciclata'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/08/2011

L’usato (più o meno) sicuro: è una leadership almeno al 50 per cento ‘riciclata’, quella della nuova Libia; e, di certo, scarsamente affidabile, vista la sua storia di voltagabbana e di opportunismo. Così, si presentano, per il momento, i quadri dirigenti ‘insurrezionali’ libici: un panorama provvisorio e precario, un po’ perché, in fondo al ‘dopo Gheddafi’, dovrebbero esserci elezioni libere e democratiche, il cui esito, come pure il cui svolgimento, è una totale incognita; e un po’ perché quel gruppo eterogeneo, tenuto finora insieme dall’obiettivo di rovesciare il regime, oltre che di sopravvivere al proprio passato, è costantemente a rischio di divisioni tribali, religiose, politiche, e di regolamenti di conti interni. Lo sta a provare tragicamente l’uccisione di Albel Fattah Younis, già ministro dell’interno del regime, prima di diventare comandante dell’esercito ribelle, fatto fuori il 28 luglio da quelli che dovevano essere suoi uomini: una vendetta per lo zelo che, come ministro, aveva dimostrato nel perseguire gli integralisti libici. La vicenda testimonia le difficoltà del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) di Bengasi di controllare la propria base.

Le defezioni eccellenti hanno accompagnato tutta l’insurrezione. Alcuni transfughi sono passati da un campo all’altro all’interno del Paese;altri hanno puntato su referenti internazionali, riparando all’estero. L’Italia, in queste ore, sembra, ad esempio, giocare la carta di Abdelsalam Jalloud, l’ex premier del colonnello Gheddafi, di cui, in un’intervista a Radio Anch’io, il ministro degli esteri Franco Frattini dice: “Non farò l’errore di scegliere io che sia il miglior leader per i libici. Ma ritengo che Jalloud ha ottime caratteristiche per essere uno dei protagonisti della transizione”, tanto più che sarebbe “un personaggio che ha svolto in Libia un ruolo equilibrato e non s’è macchiato dei delitti” della dittatura.

Per non sbagliarsi, Frattini aggiunge che anche gli attuali leader del Cnt, Mahmoud Jibril, capo del governo provvisorio, guarda caso un ex uomo chiave del sistema Gheddafi, e Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio di Bengasi, ex ministro della giustizia, “hanno finora dimostrato grandi doti di saggezza e di equilibrio, anche in momenti delicati”. Tutte valutazioni dietro le quali si cela – il ministro lo ammette - il rischio di cercare di trasformare “quel che piace agli occidentali in quel che piace ai libici”.

I cambiamenti di campo libici sono avvenuti in momenti e in circostanze diversi. Jalloud è un transfuga dell’ultima ora, o quasi; Jibril, invece, scelse di schierarsi con gli insorti fin dall’inizio: personalità d’orientamento liberal, se la parola ha un senso nel contesto libico e arabo, è stato un promotore della causa dei ribelli sulla scena internazionale. Jalil lasciò Gheddafi in disaccordo per la violenza usata per sedare le prime manifestazioni. E non solo i leader politici, ma anche quelli militari, hanno fatto percorsi analoghi: se Younis era un politico, il suo vice e poi successore, Suleiman Mahmoud, era il comandante delle truppe di Gheddafi a Tobruk ed è stato uno dei primi generali a cambiare divisa.

Massicce, e spesso della prima ora, anche le defezioni fra i diplomatici, favoriti dal fatto di stare già all’estero (anche se alcuni potevano temere ritorsioni sulle famiglie in patria). Fra i rappresentanti di Gheddafi ‘transitati’ presto al Cnt, c’è l’ambasciatore di Libia in Italia Hafez Gaddour. Ma, qualche volta, gli ambasciatori hanno anche provato a tenere il piede in due scarpe, come mostra la vicenda di Hadi Hadeiba, diplomatico della Libia presso l’Ue: un giorno, dichiarava la sua indignazione per i massacri compiuti dal regime, senza però dimettersi, come alcuni suoi colleghi in America e in Europa, perchè, diceva, “sono l’ambasciatore della Libia, non di Gheddafi”; e il giorno dopo cambiava registro, seguendo, evidentemente, più la bussola della cronaca che quella di una forte convinzione personale.

martedì 23 agosto 2011

Libia: le pagelle dei Grandi alla prova del dopo Gheddafi

ONU: un mese dall’inizio dell’insurrezione al voto della risoluzione che autorizza l’uso della forza per proteggere i civili. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite batte tutti i suoi record, muovendosi con inedita celerità, malgrado riserve russe e cinesi; e vara pure sanzioni anti-regime. Poi, però, Ban Ki-moon e l’Organizzazione non hanno né il polso né il potere per imporre il rispetto dei limiti da loro tessi tracciati. Voto: 6-

NATO: all’opposto dell’Onu, l’Alleanza atlantica parte lenta e male, fra contrasti sull’assunzione del comando delle operazioni militari e divisioni tra chi ci sta (a bombardare) e chi no. Una volta lanciata la missione Unified Protector, però, la Nato mostra costanza ed efficacia e si prende pure spazi d’azione ben al di là del mandato dell’Onu. L’accelerazione dell’epilogo evita il rischio logoramento. Voto: 6+.

UE: va al traino degli eventi, invece di cercare di anticiparli e condizionarli. Vara sanzioni nella scia dell’Onu, riconosce il Cnt come interlocutore solo quando molti Paesi dell’Unione europea lo hanno già fatto, non mette neppure in piedi un’azione umanitaria efficacia. Chissà, magari riuscirà a essere protagonista della ricostruzione post-bellica, ma con quella ‘mammoletta’ di Lady Ashton di mezzo le premesse non sono incoraggianti. Voto: 5.

USA: Barack Obama vince una guerra che non combatte. Dopo una gragnola di missili Cruise e ondate di raid nelle prime ore, l’apparato militare degli Stati Uniti fa quasi da spettatore, limitandosi a offrire supporto all’azione degli alleati –due droni e qualche aereo cisterna-, mentre il Congresso borbotta perché il presidente lo coinvolge tardi e l’opinione pubblica se n’infischia (”Gheddafi?, chi è costui?”). Alla fine, i conti tornano. Voto: 7-

Libia: Mr B dal silenzio alle chiacchiere da imbonitore

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/08/2011

Se parla persino Mr B, vuol dire che, per il colonnello Gheddafi e il suo regime, è proprio finita. Ieri, il presidente del Consiglio italiano ha fatto sentire la propria voce sulla vicenda libica dopo lungo silenzio, quando l’epilogo del conflitto è ormai tracciato: Silbio Berlusconi rivendica il posto dell’Italia accanto ai vincitori: “Il Consiglio nazionale transitorio –ha detto- e tutti i combattenti libici impegnati a Tripoli stanno coronando la loro aspirazione a una nuova Libia democratica e unita. Il governo italiano è al loro fianco”.

Da migliore amico del dittatore sconfitto a candidato migliore amico del ribelle vincitore, il passo può essere breve, quando uno ha la faccia tosta giusta. Al Cnt, Mr B rivolge pure un appello: “Esortiamo gli insorti ad astenersi da ogni vendetta e ad affrontare con coraggio la transizione verso la democrazia con spirito di apertura nei confronti di tutte le componenti della popolazione. Al tempo stesso, chiediamo al colonnello Gheddafi di porre fine a ogni inutile resistenza, risparmiando, in tal modo, al suo popolo ulteriori sofferenze”.

Una dichiarazione compitino, dopo avere seguito sostanzialmente in silenzio il crollo di un dittatore verso cui aveva mostrato eccessiva inclinazione. Chè, se uno gli amici se li sceglie pericolosamente fra i ceffi meno raccomandabili di questo mondo, dal bielorusso Lukashenko al kazako Nazarbayev, per non parlare del’ ‘amico Vladi’, il russo Putin, poi qualche incidente di percorso deve pure metterlo in conto.

In tutta questa evoluzione libica, il silenzio di Berlusconi doveva probabilmente servire a rendere meno stridente l’inversione a U dell’Italia, qualificatasi prima dell’insurrezione come la migliore amica del regime libico e che, dopo l’esplosione della rivolta, quando cambiare cavallo diventa inevitabile, cerca di riciclarsi come migliore amica della nuova Libia.

A quel punto, è meglio che Berlusconi, l’uomo che s’è inginocchiato di fronte a Gheddafi e che lo ha accolto due volte a Roma con onori straordinari, facendogli piantare la tenda a Villa Pamphili e lasciandogli predicare il Corano a centinaia di ‘vergini’, parli il meno possibile. Tanto più che, all’inizio della crisi, le dichiarazioni del premier avevano spesso causato imbarazzo alla diplomazia italiana già chiamata a barcamenarsi in una situazione oggettivamente difficile.

Il !9 febbraio, alla domanda se avesse chiamato l’amico Gheddafi dopo i primi scontri a Bengasi, Mr B risponde: “No, non l’ho sentito. La situazione è in evoluzione e, quindi, non mi permetto di disturbare nessuno”. Però, aveva aggiunto, “stiamo seguendo con il cuore in gola la situazione dell’arrivo di immigrati nel nostro Paese”, contro cui il regime di Gheddafi era un gendarme molto efficace, anche grazie alle motovedette fornitegli dall’Italia.

Il 22 febbraio, poi, quando Gheddafi accusa l’Italia, e l’America, di avere “dato dei razzi ai ragazzi di Bengasi”, Berlusconi gli telefona per smentire: “L’Italia non ha fornito armi ai manifestanti”. Ed il giorno dopo il premier dice sì basta “all’inaccettabile violenza libica che ha superato ogni limite”, ma esprime pure “massima allerta per un quadro imprevedibile che potrebbe degenerare in una deriva fondamentalista ad alto rischio per chi, come l’Italia, è esposto a potenziali e biblici flussi di emigranti e dovrà comunque fare tornare i propri conti energetici”. Insomma, la solfa di Mr B è stata a lungo quella di ‘chi lascia la vecchia via per la nuova sa cosa lascia e non sa cosa trova’.

A un certo punto, Francesco Verderami, sul Corriere della Sera, scrive che Berlusconi avrebbe paura della vendetta del rais: «Lui me l' ha giurata. Lo so da fonti certe». Il premier sarebbe più nervoso e del solito e apparirebbe scosso, perché «Gheddafi mi vuole morto». La rivelazione è seguita da puntuale smentita, ma è chiaro che un’amicizia s’è ormai rotta, mentre un’alternativa deve ancora essere costruita per salvaguardare gli interessi economici ed energetici dell’Italia. Più che di essere ‘fatto fuori’ dal colonnello dittatore, Mr B teme, forse, che vengano fuori i retroscena di un’amicizia improbabile quanto imbarazzante: intrecci d’affari che giustifichino il rapporto altrimenti improbabile fra un uomo d’affari milanese messosi in politica e un ufficiale tripolino radicale e rivoluzionario divenuto dittatore.

A puntellare un’ipotesi di alternativa post-Gheddafi, Berlusconi ci ha ieri provato con una telefonata al leader del Cnt Mahmud Jibril, di cui Palazzo Chigi ha dato un rendiconto molto positivo. “Nel colloquio, il presidente del Consiglio italiano s’è complimentato per la rapida avanzata delle forze del Cnt, riconfermando l’impegno dell’Italia a sostegno della nuova Autorità per la costruzione di una Libia democratica e unita. Il premier ha inoltre manifestato apprezzamento per la volontà del Cnt di evitare qualsiasi vendetta e ha auspicato che la Libia possa presto avere un governo che rappresenti tutte le componenti del Paese”. Jibril, dal canto suo, avrebbe “ringraziato calorosamente l’Italia per l’appoggio dato”, sottolineando in particolare che “la vicinanza dell’Italia al popolo libico ha radici profonde” –e chissà se pensava al passato coloniale o al Trattato d’Amicizia firmato d Gheddafi e Berlusconi bel 2008, quasi tre anni fa giusti giusti-. Il premier e il capo del Cnt avranno modo di approfondire la discussione in un incontro in Italia nei prossimi giorni. Nella certezza che Jibril non si porterà dietro tende da montare e non pretenderà ‘vergini’ da imbonire. Almeno per ora.

lunedì 22 agosto 2011

Libia: Gheddafi ha perso, ma chi ha vinto è un'incognita

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano del 22/08/2011

Hanno (quasi) vinto. Anzi, hanno vinto. Chi? I ‘buoni’, i ‘nostri’, i nemici del ‘cattivo’, il colonnello Gheddafi, gli amici della Nato e dell’Ue: gli insorti, i ribelli, quelli del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, che tutti, un po’ alla volta, a cominciare da Parigi e Londra e poi continuando con Roma, l’Ue, la Nato, gli Usa, hanno riconosciuto, in questa guerra intestina libica, prima come interlocutore e poi -alcuni molto presto-come unico interlocutore.

Adesso che hanno vinto, però, tocca cominciare a chiederci, visto che prima mica l’abbiamo fatto davvero seriamente, chi sono i ‘buoni’ e che cosa faranno della loro vittoria; e magari inserire qualche elemento di calmiere e di moderazione, pure di dubbio e di equilibrio, nel nostro sostegno alla loro causa. Perché questo conflitto, più di altri, è denso di contraddizioni nella sua genesi e di incognite nel suo epilogo.

Un punto è chiaro: che il regime di Gheddafi, con decine di anni di negazione delle libertà democratiche e dei diritti dell’uomo, a fronte del relativo benessere di un Paese straricco di petrolio e di gas, non merita, e non meritava, né sostegno né comprensione. E che chi, come l’Italia, glielo ha dato con una linea presso che costante d’amicizia e di disponibilità, se n’è resa complice.

Il resto è nebbia. O, visto che siamo nel deserto, una tempesta di sabbia dentro la quale vederci chiaro è impossibile. Tanto per cominciare, all’inizio i ruoli dei ‘buoni’ e del ‘cattivo’ non erano gli stessi per tutti. Pensiamo all’Italia, ma non solo: fino alla metà di febbraio, quando la protesta esplode, Roma era l’amica per antonomasia in Occidente del dittatore e del suo regime, che avevano il merito d’impedire la partenza dal territorio libico di barconi carichi di disgraziati in fuga da guerre e da persecuzioni dell’Africa sahariana e sub sahariana.; e, fino alla metà di marzo, quando l’Onu autorizzò l’uso della forza a protezione dei civili –un mandato di molto superato, nell’interpretazione della Nato-, il governo Berlusconi è stato incerto sul partito da prendere.

Perché, veniva allora spiegato, e veniva pure detto in Parlamento, fra gli insorti c’erano integralisti islamici e pure terroristi di al Qaida, che avrebbero, potuto profittare dei barconi della disperazione per raggiungere l’Italia –ma davvero al Qaida è ridotta così male che deve aspettare gli scafisti libici per infiltrare sue cellule sul nostro territorio?-. Poi, l’argomento non è più stato utilizzato. Ma se era sbagliato usarlo in funzione ‘pro Gheddafi’, è altrettanto sbagliato trascurarlo del tutto adesso che i neo-‘nostri’ hanno vinto, perché, fra le varie componenti del Cnt, politiche, sociali, religiose, tribali, vi sono indubbiamente anche integralisti islamici.

E, poi, molti di questi ‘buoni’ erano, fino a qualche tempo fa, alcuni fino a poco tempo fa, tutti ‘pappa e ciccia’ con il ‘cattivo’, suoi intimi, prossimi, alleati, collaboratori, magari passati all’opposizione dopo, e forse per, averne perduto favori e prebende. C’è da dubitare che ex ‘collaborazionisti’ del regime si dimostrino ora campioni della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo .

E, allora, adesso, che accadrà? A parte le incertezze che persistono sull’esito della vicenda, e in particolare sulla sorte del colonnello e della sua famiglia, l’ipotesi che appare meno probabile, anche alla luce di quella che è stata finora l’evoluzione sugli altri teatri della primavera araba, specie l’Egitto e la Tunisia, è proprio, purtroppo, lo scenario migliore: l’evoluzione della Libia verso una finora inedita forma di democrazia araba. Più facile, invece, che emerga un altro uomo, oppure un gruppo, forte, con l’augurio che questo almeno avvenga senza passare per regolamenti di conti sanguinosi tra gli insorti e i lealisti e, dopo, nella leadership degli stessi insorti. Naturalmente, sarò felice di constatare di essermi sbagliato.

venerdì 5 agosto 2011

Usa: l'intruso che voleva fare gli auguri a Obama

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/08/2011, provvisorio

Magari, voleva solo augurare buon compleanno a Barack Obama, in un modo certo più originale, ma sicuramente meno gradito, di quello scelto dal presidente italiano Giorgio Napolitano e dai leader di tutto il Mondo, che, ieri, giorno del suo 50.o compleanno, hanno spedito al presidente degli Stati Uniti messaggi intensi e calorosi. Napolitano ha scelto di scrivere: “Nel nome della nostra personale amicizia, che rispecchia i sentimenti che legano i nostri Paesi, le formulo fervidi voti di salute e serenità e di una proficua prosecuzione del suo alto mandato".

Ma è più probabile che l’individuo che mercoledì e' saltato nel giardino che circonda la Casa Bianca dopo aver scavalcato l’inferriata di cinta, non avesse intenzioni così innocue e amichevoli, anche se si ignorano tuttora sia le generalità dell’uomo che le ragioni del gesto, di cui riferisce l’agenzia EFE in base a immagini della Cnn. Lo sconosciuto ha scavalcato la cinta che corre intorno al complesso della Casa Bianca, solo per essere subito sopraffatto e arrestato da tre agenti del Secret Service, il servizio di sicurezza del presidente: l'intruso, riferisce l’EFE, ha fatto appena in tempo a lanciare lontano uno zainetto, che e' rimasto sull'erba, mentre gli agenti, armati di fucili automatici, gli ordinavano di sdraiarsi a terra e lo ammanettavano. L'invasore e' quindi stato trascinato via. Quanto allo zainetto, una squadra di artificieri è presto intervenuto per accertarne il contenuto e soprattutto per disinnescare eventuali ordigni esplosivi, che non c’erano.

All’incursore solitario, è andata proprio bene. Le violazioni della Casa Bianca, ce non sono così rare come si potrebbe credere, possono, infatti, finire tragicamente: negli Stati Uniti, violare il domicilio di qualcuno espone a grossi rischi; figuriamoci se si tratta del domicilio del presidente. Nel giro d’un decennio o poco più, si possono ricordare, senza pretesa di completezza, lo schianto tragico d’un aeroplanino sul prato della Casa Bianca, l’uccisione d’un individuo che fuori dalla cinta sfidava gli agenti del Secret Service e l’arresto di un ubriaco che, con una dinamica del tutto simile a quella ora segnalata dalla EFE, scavalcò l’inferriata e fu immediatamente bloccato, prima d’avvicinarsi all’ingresso della residenza (allora) di George W. Bush.

E non si può dimenticare il mistero che continua a circondare l’obiettivo del quarto aereo dirottato l’11 Settembre, il volo UA93, schiantatosi al suolo in Pennsylvania perché i passeggeri in rivolta mandarono a vuoto i piani dei terroristi: doveva abbattersi sulla Casa Bianca?, o sul Congresso Usa?, obiettivo più facile perché posto in rilievo sul Campidoglio. Da quel giorno, gli allarmi aerei alla Casa Bianca sono stati ben più di uno: quando un velivolo viola lo spazio vietato, scattano misure di sicurezza draconiane e il presidente, se c’è, deve riparare in luogo sicuro.

Se, invece, voleva proprio fare solo gli auguri al presidente, il misterioso ‘intruso’ aveva sbagliato, questa volta, indirizzo: Obama e famiglia abitano sì al mitico 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington, DC, ma il presidente festeggiava il compleanno a Chicago, la sua città, intento, oltre che a rispondere agli auguri, a raccogliere fondi per la campagna elettorale delle presidenziali 2012 e a incoraggiare i propri fan. Come in una catena di Sant’Antonio rivisitata nell’epoca di Facebook e Twitter, ognuno dovrà portargli 50 nuovi amici. Non che lui resti con le mani in mano: progetta, per riparare ai danni d’immagine del compromesso sul debito, un giro in pullman del Midwest e ha già annunciato che l’11 Settembre sarà a Ground Zero, a New York. Nel decimo anniversario dell’attacco all’America di bin Laden, Obama vorrà ricordare di avere eliminato il capo terrorista.

Storie di rapiti dimenticati: video dalla Nigeria con terrore

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/08/2011, provvisorio

Vicende di rapiti dimenticati: l'ansia delle famiglie, la tragedia dei prigionieri, l'impazienza - che ingigantisce la minaccia - dei sequestratori. Il video che una sedicente cellula di al Qaida ha fatto pervenire all'agenzia di stampa francese Afp, protagonisti un tecnico italiano e un suo collega britannico rapiti nel Nord della Nigeria il 12 maggio, diventa un motivo di speranza per i familiari di Franco Lamolinara: “Adesso ho una ragione in più per sperare che torni a casa: so che è vivo… La speranza si é fatta più forte", dice la moglie del tecnico di Gattinara, in provincia di Vercelli.

Il video, certo, è angosciante: Lamolinara e il suo collega sono bendati e in ginocchio e dichiarano loro stessi di essere nelle mani di al Qaida. Dietro di loro, tre uomini armati di fucili automatici,
con un turbante a coprirne il vico. Eppure, Anna, la moglie di Franco, fa sapere, tramite don Renzo Del Corno, parroco di San Bernardo, di sentirsene “sollevata”: “Resta preoccupata – riferisce il sacerdote -, ma dopo mesi di silenzio qualcosa s’è mosso”. Perché il silenzio, il non sapere nulla, è l’incubo peggiore, un tunnel senza luce.

A Gattinara, ci sono i figli dell’ostaggio e molti parenti. E don Renzo, a fine maggio, aveva promosso una fiaccolata silenziosa, proprio per denunciare la mancanza di attenzione mediatica, se non diplomatica, intorno alla vicenda. Un silenzio protrattosi, in pratica, fino all’arrivo del video, fatto pervenire all’ufficio di corrispondenza dell’Afp di Abidjan, in Costa d’Avorio.

Le autorità italiane e britanniche stanno ora cercando di verificare l’autenticità del documento, dove i due tecnici appaiono, complessivamente, in buona salute. Un comunicato del Foreign Office è laconico: "Possiamo confermare che le due persone del video sono state rapite in Nigeria il 12 maggio … Stiamo verificando con urgenza l'autenticità" delle immagini. La Farnesina ricordava, fin da mercoledì, che "il governo italiano continua a seguire con la massima attenzione, attraverso l'Unità di Crisi del Ministero degli Esteri e l'ambasciata ad Abuja” l’andamento del sequestro: "Come in tutti i precedenti casi analoghi che hanno coinvolto connazionali all'estero il Ministero mantiene l'usuale riserbo sull'intensa attività politico-diplomatica in corso e auspica ogni possibile
Collaborazione su questa linea con gli organi di stampa". Cioè, meno se ne parla meglio è: una tesi non sempre vincente, alla prova dei fatti, quando c’è di mezzo il terrorismo internazionale, che spesso cerca pubblicità, oltre che finanziamenti, ma molto adatta ai sequestri a scopo di estorsione.

Il video è breve: 60 secondi, perché i due rapiti chiedano, a turno, ai rispettivi governi, di accettare le rivendicazioni dei rapitori, presentati come appartenenti ad Al Qaida. Il rapimento è avvenuto in una zona della Nigeria al confine con il Niger, dove opera l'Aqmi, ritenuto il braccio maghrebino dell'organizzazione terrorista, che fa del sequestro di occidentali una fonte di sostentamento.
Lamolinara, 47 anni, lavorava in Nigeria da circa dieci anni per la società di costruzioni 'Stabilini Visinoni Limited': dal giorno del sequestro, mancava una prova certa che fosse ancora vivo.

giovedì 4 agosto 2011

Usa: debito, l'accordo e legge, ora crescita e lavoro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/08/2011

L’ultimo atto di questo tormentone è stata, inevitabilmente, la firma del presidente Barack Obama, che ha tramutato il compromesso sull’innalzamento del tetto del debito in legge. Prima, c’erano stati il voto della Camera (269 sì, 161 no) e quello del Senato (74 sì, 26 no, tutti presenti): maggioranze larghe e sostanzialmente bipartisan, che, però mascherano la mancanza di entusiasmo per l’intesa.

L’accordo che scongiura la bancarotta ‘per legge’ degli Stati Uniti, dove il tetto del debito è fissato con un provvedimento legislativo, non convince, in realtà, né i politici né gli economisti. Le agenzie di rating potrebbero lo stesso declassare i titoli americani innescando, se non incoraggiando, i giochi della speculazione.

I mercati, d’altronde, restano sul chi vive, di qui e di là dell’Atlantico. E le fibrillazioni pesano sull’euro e sugli anelli deboli della moneta unica, Italia inclusa. Le dichiarazioni di voto dei leader del Congresso non potevano certo galvanizzare gli operatori. Il capo dell’opposizione repubblicana al Senato, Mitch McConnell, ha detto: “Non è il piano di riduzione del deficit che io avrei scritto”, perché lui avrebbe tagliato di più la spesa pubblica. E il leader dei senatori democratici Harry Reid, uno degli artefici del compromesso, ha riconosciuto che si tratta di “un compromesso” e ha notato: “La maggioranza dei democratici, degli indipendenti e dei repubblicani pensano che il pacchetto è ingiusto perché i più ricchi non sono chiamati a contribuire” allo sforzo di riequilibrio del bilancio:

Se c’è, questa maggioranza di saggi e giusti non s’è manifestata, in questo frangente, nel Congresso di Washington. E l’inquilino della Casa Bianca, il primo presidente nero Usa, l’uomo dello “Yes, we can”, non ha saputo imporre la sua linea con il suo carisma; anzi, non ci ha neppure provato troppo, condizionato, come i suoi interlocutori, dai calcoli elettorali per le presidenziali 2012.

L’intesa non comporta aumenti delle tasse: un punto qualificante dell’Amministrazione democratica cui Obama ha totalmente rinunciato, forse calcolando che, fra un anno, i cittadini contribuenti ed elettori avrebbero potuto rimproverarglielo. Anche se è escluso che il presidente ottenga il rinnovo del mandato con i voti dei paperoni d’America, che, con qualche eccezione fra i ‘ricchi e famosi’ liberal hollywoodiani, scelgono repubblicano a scatola chiusa. E un sondaggio indica che il 60% degli americani vedeva di buon occhio una ‘stangata’ sui redditi più alti.

Il provvedimento ora varato, dopo settimane di scontro fra i due maggiori partiti Usa, autorizza l’aumento del debito americano, che aveva raggiunto il suo massimo il 16 maggio, a 14.294 miliardi di dollari -2.100 miliardi di dollari in più-, a fronte di tagli alle spese fino a 2.500 miliardi di dollari da attuare in due tappe. La misura non affronta nessuno dei nodi dell’economia statunitense, che ha una crescita debole (1,3%) e un tasso di disoccupazione elevato (9,2%). Gli ultimi indicatori confermano gli elementi d’inquietudine: i consumi delle famiglie sono in lieve calo, il che non fa bene presagire della crescita in un’economia trainata dai consumi interni.

Il segretario al tesoro Timothy Geithner, uno che potrebbe presto lasciare l’incarico, non si mostra ottimista: il braccio di ferro politico ha fatto “molti danni”, ha detto alla Abc, e ha eroso la fiducia degli investitori nell’economia americana. Fatta la frittata, Geithner, un po’ fantozzianamente, ha poi provato a metterci una pezza, esprimendo fiducia nella capacità di crescita “a lungo termine” degli Stati Uniti.

martedì 2 agosto 2011

Usa: debito, l'epilogo che t'aspetti, accordo con freddezza

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/08/2011

E' andata a finire com'era scritto che andasse a finire: un epilogo scontato e persino banale, al di là delle drammatizzazioni politiche e mediatiche. Con un compromesso che scontenta un po' tutti e che, dopo una fiammata iniziale, non soddisfa neppure i mercati, l'America di Obama evita la farsa d'una bancarotta 'per legge'.

L'intesa fra democratici e repubblicani consente di sfondare di 2.100 miliardi di dollari il tetto del debito fissato dal Congresso - una convenzione politica, dunque, non un imperativo economico - a fronte di tagli per 2.500 miliardi di dollari alle spese pubbliche.

Barack Obama ammette: "Non è l'accordo che volevo, ma almeno evitiamo il default, cioè il blocco di servizi nell'impossibilità di pagarli. Il presidente rinuncia, però, a imporre nuove tasse e soprattutto a esigere dai ricchi d'America l'onere della solidarietà.

Ma anche i repubblicani, all'opposizione, ma maggioritari alla Camera, non fanno bottino pieno: l'intesa prevede che i tagli siano concordati in modo bipartisan entro novembre, ma sgombera di ostacoli l'orizzonte delle presidenziali 2012. Obama non ne esce, cioè, ostaggio dei suoi avversari.

Il presidente, però, se strizza l'occhio agli elettori di centro, scontenta e un po' sconcerta la sua base più solida, la sinistra democratica. Dall'altra parte, a contestare l'accordo, sono quelli del Tea Party, l'ala populista dell'opposizione, che volevano tagli più profondi alla spesa pubblica.

Pari e patta, dunque? No, vantaggio a Obama: in questa partita, che era solo politica, per nulla economica, i repubblicani, che non hanno un candidato alla Casa Bianca, perdono la possibilità di azzoppare il presidente nell’imminenza delle elezioni. L’esito del confronto suona, quindi, quasi un via libera alla conferma del primo presidente nero degli Stati Uniti. Tra Obama e il secondo mandato, l’unico ostacolo è, oggi, una ricaduta nella recessione.

Come da copione, lo sblocco della trattativa, che andava avanti da settimane, dalla partita a golf tra Obama e il leader dei repubblicani John Boehner, è arrivato quando mancava pochissimo al termine ultimo del 2 agosto. Dopo un sabato drammatico, in cui erano saltati prima il piano Boehner, poi quello del capo dei democratici al Senato Harry Reid, affondati anche dal voto di franchi tiratori dei due schieramenti, l’intesa matura domenica e ottiene l’avallo del Congresso lunedì. L’annuncio dello sventato pericolo di default amministrativo viene dallo stesso presidente, che, a più riprese, nelle ultime settimane, si era rivolto ai cittadini americani perché sollecitassero i loro rappresentanti a raggiungere un compromesso e aveva ripetutamente invitato alla Casa Bianca i leader repubblicani e democratici per spingerli a un accordo bipartisan. Il discorso del presidente era chiaro: con il voto di protesta delle elezioni di midterm del novembre scorso, i cittadini hanno chiesto un governo migliore, ma non l’assenza di un governo, come sarebbe risultato, invece, da un blocco puro e semplice della spesa pubblica.

Il compromesso americano non mette del tutto gli Stati Uniti al riparo dagli strali delle agenzie di rating, che potrebbero, nei prossimi giorni, penalizzare lo stesso il debito americano. Ma la pace di Washington dovrebbe avere qualche riflesso positivo in un’Europa alle prese con la debolezza di alcuni paesi della zona euro, a partire dalla Grecia, per arrivare all’Italia della continua fibrillazione politica e alla Spagna delle prossime elezioni anticipate.

Lo psicodramma del debito, una pantomima americana che praticamente tutti i presidenti, da Ronald Reagan in poi, hanno vissuto, conferma l’andamento ad alti e bassi del mandato di Barack Obama, che passa da successi di politica interna – la riforma della sanità – o internazionale – l’eliminazione di Osama Bin Laden – a incidenti di percorso che ne compromettono la popolarità. Il nodo resta, però, l’uscita dalla crisi dell’economia americana, non solo in termini di crescita, ma anche in termini di occupazione. Su questo dato, o almeno sulla percezione economica che gli elettori avranno, si giocano le presidenziali 2012. Il compromesso sul debito dà alla Casa Bianca un anno di libertà di manovra, senza esporla al rischio di un nuovo e logorante negoziato con l’opposizione repubblicana. Solo per questo, Obama può andare in ferie più sereno.