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domenica 30 giugno 2013

Datagate: Usa spia Ue?, allora contiamo qualcosa

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Scritto per il blog de Il Fatto il 30/06/2013

La stampa italiana, e in genere quella europea, danno oggi molto rilievo, spesso in prima pagina, all’ennesimo capitolo delle rivelazioni della talpa del Datagate Edward Snowden, secondo cui – riferisce per primo Der Spiegel - gli Stati Uniti, tramite la National Security Agency, avrebbero spiato per anni, oltre a Russia, Cina e tutti i nemici possibili, i Paesi dell’Unione europea, che sono loro alleati –moltissimi fanno pure parte dell’Alleanza atlantica-.

Anche Il Fatto riferisce la notizia, insieme al particolare che – sempre fonte Snowden, ma stavolta via The Guardian- sette Paesi fra cui l’Italia avrebbero favorito l’operazione di spionaggio, fornendo segretamente dati delle comunicazioni telefoniche e su internet ogni volta che Washington li chiedeva. L’Italia - scriveva ieri il giornale britannico, ma le informazioni sono state oggi smentite - era al terzo livello di affidabilità, come Germania e Francia: non male, viene da sorridere, non ci capita spesso di tenere lo standard dei Grandi dell’Unione.

Un documento dell’Nsa del 2010 definisce l’Ue “un obiettivo”: le sedi delle istituzioni comunitarie, a Bruxelles e altrove, e i diplomatici europei a Washington e presso l’Onu di New York sarebbero stati intercettati.

Le notizie sono spesso corredate da commenti volta a volta sorpresi, irritati o scandalizzati. Facendo le veci di Lady Ashton, il ‘ministro degli esteri’ dell’Ue, che non ha la vocazione alla tempestività, né il dono dell’incisività, Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, socialdemocratico, tedesco, dice: “Se è vero, è un enorme scandalo, su cui gli Usa devono dare immediate spiegazioni”. E Schulz, in campagna per ottenere la presidenza, l’anno prossimo, della Commissione europea, aggiunge: “Se è vero, incrinerebbe gravemente le relazioni con l’Ue e avrebbe serie conseguenze sulle future relazioni” transatlantiche.

Sinceramente, non riesco a condividere la sorpresa e neppure lo scandalo. Anzi, se gli Stati Uniti spiano tutti, a cominciare da se stessi, in un Mondo dove tutti spiano tutti, come racconta Snowden, mi dà quasi un senso di sollievo e persino una punta d’orgoglio, sapere che spiavano pure l’Ue: allora, vuol dire che l’Europa conta qualcosa; o, almeno, che l’America lo pensa; oppure, non si fidano di noi, siamo meno ‘bulgari’ di quanto non ci sentiamo.

Un bel ricostituente, per il nostro perenne senso di crisi, d’irrilevanza, d’impotenza: Washington tiene a carpire a Bruxelles i segreti dei nostri estenuanti negoziati spesso inconcludenti. Certo, potrebbe pure essere l’ennesima cantonata dell’intelligence statunitense: ci credono quel che non siamo più –una potenza- o non siamo ancora –un’Unione-. A forza d’intercettare a destra e a manca, gli Usa perdono la bussola e confondono l’Ue con l’Asse del Male.

venerdì 28 giugno 2013

Italia/Ue: Vertice; lavoro e giovani, pochi soldi, tanti salmi

Scritto per EurActiv il 28/06/2013

E’ finito in gloria. Come tutti i salmi europei, quando la parola d’ordine è ‘quieta non movere’, oppure –più volgarmente- “non disturbare il manovratore”. Che, come spesso avviene, è ancora Angela Merkel: la cancelliera tedesca ha il pensiero fisso alle elezioni politiche del 22 settembre ed è quindi disposta a barattare una tregua europea con qualche –modesta- concessione su crescita e lavoro dei giovani, che pure al paese suo sono priorità condivisibili. Se invece i partner cercassero di metterla alle corde, dovrebbe chiudersi in clinch e nessuno porterebbe a casa nulla, ma tutti dovrebbero fare la voce grossa e litigarsi addosso.

Così, il Consiglio europeo ri-supera lo scoglio dell’intesa sul bilancio Ue pluriennale 2014-2020, che pareva cosa fatta lo scorso febbraio, e accetta di concentrare nel primo biennio sei miliardi di euro per l’occupazione giovanile, ipotizzando un aumento del fondo a nove miliardi. L’Italia è soddisfatta: ne attende un beneficio inizialmente calcolato in 700 milioni di euro massimo, che, però, il premier Letta raddoppia nelle successive stime a un milione e mezzo.

E pazienza se, nelle pieghe delle conclusioni, l’aumento della capacità di investimento della Bei, cui sono affidate le speranze di un volano di investimenti per le Pmi, venga ridotta: dopo l’aumento di capitale di 10 miliardi di euro già deciso, doveva aumentare “del 50% sin dal 2013”, ma aumenterà, invece, “di almeno il 40% nel periodo 2013-2015”.

La seconda e ultima giornata del Vertice europeo è quasi una formalità: inizia meglio della prima, constata, al suo arrivo al Justus-Lipsius, il premier Letta, perché le gatte sono già state tutte pelate. Così, i leader danno il benvenuto alla Croazia, che dal 1.o giugno sarà il 28.o Stato dell’Unione, e mettono il timbro sull’ingresso della Lettonia nell’euro il 1.o gennaio 2014 –e fanno 18-; danno l’ok all’avvio di negoziati per l’adesione della Serbia l’anno prossimo ; prendono atto dei progressi fatti la vigilia dall’Ecofin verso l’Unione bancaria; e, da ultimo, benedicono la chiusura della procedura di deficit contro l’Italia per deficit eccessivo  e formalizzano tutte le raccomandazioni del cosiddetto Semestre europeo.

A fine Vertice, il più positivo è proprio Letta. Il premier britannico David Cameron è soddisfatto d’avere salvaguardato il suo sconto sul contributo britannico al bilancio Ue. Il presidente francese François Hollande chiede alla Bei di prestare alle Pmi –non solo a quelle in salute, ma pure a quelle in difficoltà- e al contempo di mantenere il suo rating di eccellenza a tripla A (se avvertite lo stridio d’una contraddizione, non vi sbagliate). La cancelliera Merkel invita a non alimentare nei giovani false attese per il loro lavoro, perché a tutti non lo si può garantire, e invoca creatività per affrontare il problema; e, intanto sollecita “più coerenza in zona euro”, una frase che suona richiamo al rigore.

Quanto ai progressi nell’integrazione, e al rafforzamento della governance economica di cui tanto si parla, Hollande precisa che avanzare va bene, purché nell’ambito dei Trattati esistenti. Anche qui, prudenza e cautela. Se non accade nulla di imprevisto e di malaugurato, ci si rivede in autunno. Dopo le elezioni tedesche. E scommettiamo che più d’uno, in privato, ché in pubblico non si fa, avrà fatto con le dovute formule gli auguri alla cancelliera: torna, Angela, e ricordati che siamo stati gentili con te.

giovedì 27 giugno 2013

Italia/Ue: Vertice europeo; crescita e lavoro, tanto rumore per poco

Scritto per il blog de Il Fatto e, in altra versione, per EurActiv il 27/06/2013

Da questa mattina, sento alla radio, vedo in tv, leggo sui giornali e sui siti titoli che esaltano “l’importanza” del Vertice europeo di Bruxelles oggi e domani. Sinceramente, non capisco. E, avendo sotto gli occhi la bozza delle conclusioni, capisco ancor meno.

Per carità, è “importante” che i capi di Stato e di governo dei 28 – c’è pure la Croazia, che entrerà nell’Ue il 1.o luglio - riconoscano l’ “importanza” della crescita e dell’occupazione, specie giovanile, senza per altro disconoscere i peana al rigore finora innalzati.

Ed è pure significativo che l’Italia arrivi al Vertice avendo già fatto, su questi temi, qualche compituccio a casa, con le decisioni di ieri del Consiglio dei Ministri.

Ma, prima dell’ennesimo “importante”, leggiamo le cifre e facciamoci qualche pensierino. Intanto, il Vertice deve ancora tornare sulla dotazione del bilancio Ue 2014-2020, perché l’accordo fra i capi di Stato e di governo dello scorso febbraio non è stato ancora perfezionato. Anzi, l’Assemblea di Strasburgo ha appena rimesso in discussione l’intesa finale.

Nelle ore immediatamente precedenti il Consiglio europeo, governi e deputati hanno trovato quello che viene definito “un accordo politico”. E l’Ecofin ha trovato l’intesa su un aspetto significativo dell’Unione bancaria, che cosa fare in caso di fallimenti di istituti di credito. Due passi avanti che, in un tweet, il premier Letta considera “buoni auspici” per il Consiglio europeo.

Diamo, dunque, per scontato che l’Ue avrà un bilancio per il 2014 e gli anni a venire. I leader, oggi e domani, per la crescita e per l’occupazione, non stanzieranno nulla più di quanto già previsto: fronte crescita, c’è da fare fruttare i 10 miliardi di una recente ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti; fonte occupazione giovanile, ci sono 6 miliardi di euro dei fondi di coesione in 7 anni e per 28 Paesi e c’è l’idea è di accelerarne l’utilizzo nel biennio 2014-2015 e di finanziare, poi, ulteriori interventi con i fondi di bottiglia dei fondi non utilizzati anno per anno. Quel che ha fatto, del resto, l’Italia per i suoi interventi per l’occupazione giovanile, puntando ad utilizzare fondi Ue che, altrimenti, a fine anno, avrebbe perduto.

Ora, 6 miliardi in 7 anni per 28 Paesi: si vede ad occhio che, in cifre assolute, non sono granché (all’Italia potrebbero toccarne 500 milioni di euro). Ed anche in percentuale sono poca cosa: poiché il bilancio Ue pluriennale 2014-2020 sarà un po’ al di sotto di mille miliardi di euro, 6 miliardi ne rappresentano lo 0,6%; e siccome il bilancio Ue rappresenta l’1% circa del Pil Ue, siamo allo 0,6% dell’1%.

Insomma, una priorità a basso prezzo per i leader Ue. Se poi volessimo intristirci facendo confronti, ad esempio, con gli sprechi operati in alcuni settori, la nostra sensazione di una priorità ‘in saldo’ sarebbe ulteriormente rafforzata. Oggi, in un serissimo convegno al Centro Alti Studi per la Difesa, due Istituti certo non sovversivi, lo IAI e il CSF, hanno presentato loro stime secondo cui l’assenza di una politica della difesa europea comune costa tra i 100 e i 120 miliardi di euro l’anno in sprechi e duplicazioni e produce inefficienza: quasi il bilancio dell’Unione di un anno, venti volte più di quanto l’Ue spenderà in sette anni per l’occupazione giovanile.

Ecco! Allora riserviamo l’aggettivo “importante” e i suoi succedanei a Vertici i cui risultati saranno davvero significativi per l’integrazione e per l’occupazione. E contentiamoci, senza però menarne vanto, che a Bruxelles, oggi e domani, i leader non litighino –persino la Merkel ha appena promesso che farà di più per il lavoro dei giovani e ha riconosciuto che crescita e rigore non sono antitetici-, in attesa che maturino decisioni davvero sostanziali. Magari in autunno, dopo le elezioni tedesche del 22 settembre. O a dicembre, quando il Vertice di fine anno dovrebbe discutere le prospettive della difesa europea.

mercoledì 26 giugno 2013

Se Linus non esce, sono davvero l’unico che resta senza coperta?

Scritto per gli Appunti di Media Duemila online il 26/06/2013

Ma se Linus non esce, sono proprio l’unico –o uno dei pochissimi- a sentirmi senza coperta? Erano settimane che mi sentivo inquieto: Linus, ‘la’ rivista dei fumetti italiana fondata nel 1965 - 48 anni or sono - da Giovanni Gandini, non mi arrivava più. Ultimo numero pervenuto, Aprile 2013, il 577. Abbonato da 40 anni o più di lì, all’inizio ho pensato a un ritardo postale, poi mi sono chiesto se non avessi lasciato scadere l’abbonamento senza rinnovarlo (e senza per altro ricevere solleciti).
M’intrigo, chiamo. E l’interlocutrice cortesemente mi spiega che Linus ha sospeso le pubblicazioni. Ma come?, Linus se ne va così dopo mezzo secolo e la notizia passa (quasi) inosservata?, non ne so nulla neppure io che mi picco d’esserne uno dei lettori più affezionati oltre che d’essere uno sempre informato?
Di questi tempi, se muore un giornale, o una rivista, per di più ‘di nicchia’, non fa certo notizia: pare di stare nella Milano della peste del Manzoni, tante testate se ne vanno. Su internet, scopro che il 28 maggio la Baldini Castoldi Dalai Editore ha comunicato la sospensione delle pubblicazioni, dovuta a una serie di problemi; e che il 10 giugno ha annunciato il ritorno in edicola il 5 luglio. Solo pochi giorni ormai.
Qualche testata online ha seguito la piccola odissea editoriale. Ma mi pare incredibile che Linus si taccia, sia pure solo temporaneamente, senza fare (molto più) rumore: non è stata questa rivista palestra d’idee di una generazione di Sessantottini spesso divenuti giornalisti?, non eravamo in tanti ad averne bisogno proprio come Linus della sua coperta per sentirci, o illuderci ci essere, ancora giovani e capaci di rinnovamento, almeno nelle idee, leggendola tutta di striscia in striscia e saltando – confesso - a piè pari pezzi pur validissimi di firme spesso eccellenti, ma fuori dal contesto del fumetto.
Ché Linus sono i fumetti, a partire dai Peanuts e dalla loro icona ‘intellettuale’, Linus Van Pelt. Oreste Del Buono, direttore fino al 1981, poi Fulvia Serra, da ultimo Stefania Rumor hanno costantemente saputo scegliere strisce statunitensi ed europee, e italiane, capaci di interpretare ed aggiornare, quasi sempre in un’ottica ‘liberal’, o ‘di sinistra’, lo spirito del tempo: così dal Vietnam alla guerra al terrorismo, da Beetle Bailey a Doonesbury; oppure, dall’impiegato non modello Bristow al programmatore non troppo informatico Dilbert: o ancora dall’infanzia adulta dei Peanuts a quella di Calvin & Hobbes a quella di Cul de Sac. E non sto qui a farvi un taglia e incolla classico da Wikipedia.

Evidentemente, non eravamo in tanti, ché, se no, tanti problemi la rivista non li avrebbe avuti. Ma, adesso che so che Linus sta per tornare, mi sento già un po’ meglio: la mia ‘coperta’ sarà presto dov’è sempre stata, sul mio comodino.

Usa: Snowden, intrappolato al Terminal come Tom Hanks

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/06/2013

Chissà se Edward Snowden l’ha mai visto The Terminal , un film del 2004 di Steven Spielberg. Tom Hanks vi interpreta un viaggiatore intrappolato in transito in un aeroporto di New York: non ha i documenti in ordine per entrare negli Usa e non può tornare a casa a causa di una rivoluzione. Ci sarebbe da farne un dramma, se tutto non finisse bene. Ispirato alla storia vera di Mehran Karimi Nasseri, che passò 17 anni, dal 1988 al 2006, nel Terminal I del Charles de Gaulle di Parigi,  il film di Spielberg precorre la vicenda della talpa del Datagate.

Perché, da ieri, non c’è più dubbio: Snowden, ex analista dell’intelligence americana, è da domenica nell’area transiti dell’aeroporto Sheremetyevo, a Mosca, dove dispone del comfort di un hotel. E’ stato il presidente russo Vladimir Putin in persona a dissipare l’incertezza: la talpa è lì e la Russia non intende estradarla perché, per quanto la riguarda, non ha compiuto nessun reato; e, fin quando resta lì, non ha bisogno di visto né deve mostrare documenti. La Casa Bianca replica: la richiesta d’estradizione è fondata, i russi lo espellano subito.

Mosca insiste di non avere brigato perché Snowden arrivasse: “Era totalmente inatteso”, sostiene Putin, per quanto sia strano che l’Aeroflot abbia accettato a bordo un cittadino americano privato del passaporto. E  la meta finale attribuita alla talpa, l’Ecuador, appare, ora, molto lontana. Wikileaks ipotizza che Snowden resti dov’è per sempre, proprio come Hanks o Nasseri.

In visita a Turku in Finlandia, Putin pare quasi infastidito dalla vicenda Snowden: l’ex analista “è un uomo libero” dice, ma –aggiunge- “più in fretta sceglierà la sua destinazione finale, meglio sarà per noi e per lui”. Il presidente esclude, però, misure coercitive: la Russia non ha, del resto, accordi d’estradizione con gli Usa, che vorrebbero processare l’ex analista per spionaggio.

L’americano è la fonte d’una cascata di rivelazioni sulle intercettazioni da parte dell’intelligence Usa di telefonate e mail negli Stati Uniti e all’estero. E la tempistica delle fughe di notizie ha inciso sulle relazioni di Washington con la Cina e con la Russia. Lasciate le Hawaii, Snowden compare  il 20 maggio a Hong-Kong: nasconde i cell in frigo e teme che gli portino via il computer. Parte per Mosca domenica 23, in modo quasi precipitoso, dopo una cena di compleanno per i suoi 30 anni a base di pizza, salsicce, pollo e pepsi e dopo che il suo avvocato era stato incoraggiato a farlo andare via dalle autorità locali.

Per la diplomazia americana, è “molto deludente” che l’ex analista abbia viaggiato senza intoppi. Cina e Russia respingono ogni addebito: quelle americane sono “accuse senza fondamento”, afferma il ministero degli esteri cinese. E Putin giudica “i rimproveri contro la Russia deliri e sciocchezze”. I servizi segreti russi non lavorano con Snowden né lo starebbero ora interrogando.

La vicenda alza la tensione tra Usa Russia mentre i due Paesi non trovano l’intesa su una soluzione al conflitto in Siria. Per ora, l’incontro la prossima settimana nel Brunei tra i ministri degli esteri Lavrov e Kerry è confermato. Ma ieri i colloqui preliminari della conferenza di pace internazionale sulla Siria si sono chiusi senza intesa a Ginevra e un prossimo round non è stato fissato.

martedì 25 giugno 2013

Usa: Snowden, la talpa che rischia di fare la fine del topo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/06/2013

Dove vai?, se il passaporto non ce l’hai e servizi segreti di mezzo Mondo ti braccano o a modo loro  ti proteggono. Deve chiederselo Edward Snowden, a Mosca, dove il suo slalom fra i nemici degli Usa verso l’Ecuador pare esserci bruscamente arrestato: niente volo per L’Avana e di lì a Caracas e a Quito. Qualcosa si sarebbe inceppato nella corsa verso l’asilo dell’ex analista della Cia, accusato di spionaggio da Washington e giunto domenica da Hong-Kong nella capitale russa. A meno che…

Le relazioni tra Usa e Russia si riscaldano al calor bianco, come nel pieno della Guerra Fredda: gli americani rimproverano ai russi d’ignorare la domanda d’estradizione della ‘gola profonda’ dietro tutti i recenti vorticosi sviluppi del Datagate e chiedono l’espulsione di Snowden, facendo appello alla “cooperazione” fra i due Paesi e minacciano rappresaglie. E per il presidente Obama la vicenda avrà conseguenze sui rapporti con la Cina.

Fin da domenica, gli Stati Uniti hanno privato Snowden del suo passaporto. Ma l’ex analista ha potuto lo stesso imbarcarsi su un volo dell’Aeroflot munito - pare - di documenti di viaggio speciali rilasciati dall’Ecuador. E’ quanto afferma Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che ha fatto una conferenza stampa via telefono dall’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dov’è rifugiato da circa un anno per sottrarsi all’estradizione in Svezia, dove vogliono processarlo per violenza sessuale.

Secondo Assange, Snowden è “in buona salute” ed è “al sicuro”. Dove il suo protetto sia, però, il biondino di Wikileaks non l’ha detto: E che l’ex analista si senta sicuro, c’è da dubitarne: gli Usa lo percepiscono come una minaccia per la propria sicurezza nazionale e faranno tutto il possibile per mettergli le mani addosso e tradurlo in giustizia –in un processo, rischia una condanna a trent’anni di reclusione-; e i Paesi che sono stati oggettivamente favoriti dalle sue rivelazioni, Cina e Russia, avvertono il peso della sua presenza.

La Cina s’è già liberata della patata bollente; la Russia non sa bene come farlo. L’avvocato Albert Ho, che ha assistito Snowden a Hong-Kong, è certo che Pechino ne abbia orchestrato la partenza, mentre le autorità dell’ex colonia britannica sostengono di non averla potuta impedire perché Washington non aveva loro fornito gli atti giudiziari necessari. “La caccia è lanciata”, dice alla Cbs Dianne Feinstein, presidente della Commissione intelligence del Senato Usa.

Le informazioni su dove l’ex analista si trovi sono estremamente contraddittorie. Quel che è certo è che il giovane non è partito con il volo per L’Avana su cui era prenotato, regolarmente decollato nel primo pomeriggio. C’è chi dice che Snowden sia tuttora a Mosca, in città; chi che non abbia mai lasciato l’area transiti dell’aeroporto Sheremetyevo, dove c’è un hotel; chi che lo spionaggio russo lo stia interrogando; chi che sia effettivamente partito, alla chetichella e lontano dagli occhi dei giornalisti. L’ambasciata dell’Ecuador a Mosca nega di averne notizie.

In fuga dagli Usa da cinque settimane, Snowden, arrivato il 20 maggio a Hong-Kong dalle Hawaii, ultimo suo luogo di lavoro per un’azienda al servizio dell’intelligence statunitense, ha, da allora, snocciolato rivelazioni sulle intercettazioni di milioni di comunicazioni telefoniche e via sms e mail e ha creato a più riprese imbarazzo agli Stati Uniti.

In visita in India, il segretario di Stato Usa John Kerry avverte Cina e Russia che questa storia avrà conseguenze serie, giudicando “molto deludente” che il fuggitivo abbia viaggiato da Hong-Kong a Mosca su un aereo di linea Aeroflot. Kerry dice: “Snowden ha tradito il suo Paese”. A Mosca, però, c’è chi spiega che la domanda d’estradizione di Washington non può essere presa in considerazione perché Snowden non ha mai varcato la frontiera russa –vero, tecnicamente, se si trova in transito-.

Assange, che assapora una rivincita, s’è intromesso nella disputa tra Washington e Mosca, giudicando “intimidatorio” e controproducente” l’atteggiamento americano.

Pechino e Mosca fanno mostra d’una discreta ipocrisia. Chi, invece, s’assume responsabilità senza paraventi è l’Ecuador, la repubblica ‘bolivariana’ che, con Venezuela e Bolivia, forma il triangolo di sinistra ed alternativo dell’America Latina. Il presidente Rafael Correa avalla l’ipotesi dell’asilo; e il ministro degli esteri Ricardo Patino vede in gioco “la libertà d’espressione e la sicurezza dei cittadini di tutto il Mondo”. Tranquilli!, l’Ecuador le difende.

lunedì 24 giugno 2013

Usa: Snowden, la fuga uno slalom fra i nemici degli Usa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/06/2013

Con gli Eroi dei Due Mondi, che vengono alla ribalta dal nulla d’improvviso, le cronache sono sempre generose d’attenzione, senza lesinare la diffidenza. E, in effetti, Edward Snowden, l’ex consulente Cia che si sottrae alla giustizia degli Usa, dopo avere fatto filtrare notizie devastanti sulle intercettazioni operate dagli Stati Uniti sulle comunicazioni elettroniche di mezzo pianeta, sceglie per la sua fuga un percorso da Guerra Fredda: dalle Hawaii a Hong-Kong e ieri a Mosca, dove sarebbe in transito per Caracas via La Avana.

Destinazione finale, pare certo, Quito, Ecuador, dove la domanda d’asilo sarebbe già stata ricevuta. Dopo avere accolto sotto la propria protezione Julian Assange, il biondino di Wikileaks, rifugiatosi il 9 giugno 2012 nell’ambasciata di Londra, l’Ecuador starebbe per dare accoglienza a Snowden, divenendo porto franco degli auto-proclamati Robin Hood della cyber-intelligence del XXI Secolo. Ma la vicenda è ancora aperta e la sorte di Snowden è lungi dall’essere sicura.

Il volo Aeroflot SU213 proveniente da Hong-Kong è atterrato a Mosca poco dopo le 17.00 locali, le 15.00 italiane. A bordo, erano registrati come passeggeri in economica Snowden e una specialista di Wikileaks, Sarah Harrison. All’arrivo, Snowden –riferiscono cronisti dall’aeroporto- “è evaporato”: non era fra i passeggeri che hanno passato il controllo dei passaporti al terminal F dello scalo russo.

Alcuni viaggiatori hanno riferito che una vettura era ferma accanto all’aereo e che dei bagagli vi sono stati caricati direttamente dalla stiva: se Snowden si fosse allontanato in tal modo, parrebbe certo che l’uomo non gode solo dell’appoggio di Wikileaks, ma conta su complicità internazionali, dopo che le sue rivelazioni hanno indubbiamente indebolito la posizione americana alla vigilia, rispettivamente, di incontri chiave del presidente Obama con leader cinesi e russi.

Altri testimoni riferiscono d’avere visto una vettura diplomatica con bandiera ecuadoriana davanti al terminal, accompagnata da una vettura del tipo in uso ai servizi segreti. La tv pubblica russa Rossia 24 sostiene che Snowden doveva passare la notte in un’ambasciata sud-americana, mentre fonti aeroportuali citate dall’agenzia Interfax dicono che l’ex analista sarebbe nella zona di transito, in attesa del volo a destinazione di Cuba.

Wikileaks ha spiegato, in un comunicato, che il giovane americano, incriminato per spionaggio dalla giustizia Usa, viaggiava “verso uno Stato democratico, seguendo una rotta sicura, per trovarvi asilo”. E ha aggiunto che Snowden è accompagnato da diplomatici, senza dire di quale Paese, e consulenti giuridici. Se fosse necessario, ha già trovato un difensore d’eccezione: l’ex giudice spagnolo anti-corruzione Baltasar Garzon, che già assiste Assange.

Gli Stati Uniti avevano sollecitato, nei giorni scorsi, a Hong-Kong l’estradizione di Snowden, rifugiatosi lì il 20 maggio dopo avere abbandonato il suo domicilio alle Hawaii. Per tutta risposta, ieri mattina le autorità dell’ex colonia britannica, ora territorio autonomo cinese, confermavano l’avvenuta partenza di Snowden “di sua volontà”. Secondo Honk-Kong, le informazioni ricevute dagli Stati Uniti non giustificavano l’arresto del giovane, che negli Usa rischia trent’anni di carcere. Gli inquirenti americani non mollano la presa: intendono braccarlo ovunque trovi rifugio.

E prima di lasciare Hong-Kong Snowden ha fatto sapere alla stampa locale che la Nsa Usa intercetta “milioni di sms” sui cellulari cinesi, dando modo a Pechino di reagire con virulenza, bollando gli Stati Uniti come “i peggiori farabutti del nostro tempo”. Al Guardian, poi, ha offerto l’ennesima chicca anti-britannica.

L’annuncio che il volo dell’ex analista era diretto a Mosca faceva scalpore e suscitava interrogativi: pare che il percorso di Snowden possa toccare tutti Paesi che hanno al momento rapporti conflittuali, o almeno di diffidenza, con gli Stati Uniti. La Russia, le cui relazioni con gli Stati Uniti hanno recentemente ritrovato toni da Guerra Fredda, aveva già detto che avrebbe esaminato una domanda di asilo politico dell’americano, che, dopo avere pensato all’Islanda, ha finalmente scelto come paese d’accoglienza l’Ecuador che ha già dato rifugio ad Assange.

Il Cremlino si dice all’oscuro della destinazione di Snowden, ma il suo nome figura fra i passeggeri del volo Aeroflot SU150 che dovrebbe decollare oggi poco dopo le 14.00 locali, le 12.00 italiane per l’Avana. Lì, l’ex analista dovrebbe prendere una corrispondenza locale per Caracas. Tutte informazioni non confermate ufficialmente.

domenica 23 giugno 2013

Siria: amici dei nemici di Assad, armi ai ribelli di soppiatto

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/06/2013

Gli amici della Siria, che sono poi gli amici dei nemici del regime del presidente Assad, decidono d’intensificare l’aiuto, anche militare, ai ribelli. Ma lo faranno in ordine sparso con accordi segreti. L’obiettivo condiviso è di rovesciare di nuovo a favore degli insorti i rapporti di forza sul terreno, che sono ora favorevoli ai ‘lealisti’. L’elemento di discordia è se fornire pure armi: Italia e Francia non ci stanno, la Gran Bretagna nicchia.

Gli amici dei nemici di Assad vogliono che i ribelli giungano in posizione di forza alla conferenza di pace di Ginevra, cui si continua a lavorare, ma che “non si terrà nelle prossime settimane”, afferma il ministro britannico Hague. Invece, ora, i lealisti, sostenuti dall’Iran e pure dall’Iraq e affiancati dagli Hezbollah, vanno riprendendo quartieri di Damasco e Aleppo sfuggiti loro di mano. Ieri, tiri di mortai nella capitale hanno ucciso tre bambini

Le decisioni della riunione di  Doha nel Qatar irriteranno di sicuro la Russia, contraria a dare armi agli insorti, ma attiva nel migliorare le capacità d’attacco del regime. Gli Usa giocano a carte un po’ coperte, ma il Los Angeles Times rivela che da mesi Cia e commando americani addestrano i ribelli

Il gruppo degli 11 amici della Siria concorda “aiuti urgenti in materiale ed equipaggiamenti” perché l’opposizione possa fronteggiare “gli attacchi brutali” del regime di Damasco. Ma poiché non c’è intesa sulle armi, e l’aiuto militare diretto lascia molti perplessi, ogni Paese fornirà aiuti agli insorti “a modo suo”. Finora, il grosso delle armi arriva ai ribelli dall’Arabia saudita e dal Qatar, una sorta di ‘internazionale sunnita’.

Nel comunicato pubblicato a lavori conclusi, si afferma che “ogni aiuto militare sarà convogliato “ attraverso l’Alto consiglio militare siriano cui fa capo l’Esercito siriano libero, principale forza dell’opposizione armata. La formula nasce dall’intento di evitare che il materiale occidentale cada nelle mani dei gruppi estremisti, integralisti e terroristi presenti sul territorio siriano. E il ministro degli esteri del Qatar, lo sceicco Hamad ben Jassem Al Thani, cita esplicitamente “accordi segreti” e ammette le riserve di alcuni sulla fornitura di armi. Emma Bonino dice che Italia darà “ogni aiuto tranne armi”, che “Ginevra 2 è l’unica via” e che bisogna “incoraggiare l’opposizione ad assumere una leadership politica con una composizione più stabile”.

C’è il rischio che si stiano creando le premesse perché, fra qualche anni, magari proprio qui a Doha, gli Stati Uniti debbano intavolare trattative di pace con siriani rivelatisi loro nemici, ma da loro ora foraggiati e armati. Come avvenuto in Afghanistan, dove Washington negli Anni 80 armò i talebani in funzione antisovietica, salvo poi trovarseli a capo d’uno Stato santuario del terrorismo di al Qaida e nemici in una guerra di 12 anni che potrebbe ora sfociare in una trattativa nel Qatar.

Kerry ammette che ogni Paese farà “a modo suo” e non impegna gli Usa a fornire armi. Washington punta a una soluzione politica al conflitto, che, secondo dati avallati dalle Nazioni Unite, ha fatto più di 93mila vittime in oltre due anni. La formula preferita resta quella d’un governo di transizione, indicato dal regime e dall’opposizione, senza Assad –ma Mosca su questo punto non ci sente-.

giovedì 20 giugno 2013

G8: MO, yen, Africa, le promesse al vento dei Vertici

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/06/2013

Se è vero che la strada dell’inferno è lastricata di buoni propositi (non mantenuti), quella delle peggiori crisi internazionali è lastricata di risoluzioni dei Grandi (non rispettate). Talora, da coloro cui erano indirizzati moniti e raccomandazioni; più spesso dai Grandi stessi, che predicavano bene e razzolavano male.

Nelle sue varie successive formule, G5, G7, G8, il Vertice dei Grandi ha sempre voluto mantenere un carattere informale e non s’è mai dotato di strutture organizzative stabili, capaci di dare un seguito alle conclusioni, una volta l’anno, dei leader. Un problema che limita pure l’impatto del G20, che ha fin qui tradito le ambizioni d’una governance globale.

Anche lo schema del G8 s’è modificato nel tempo: da riunione leggera, le chiacchiere intorno al caminetto degli esordi, a circo mediatico che coagulava nello stesso evento riunioni parallele dei capi di Stato e di governo e dei ministri degli esteri e delle finanze e richiamava migliaia di giornalisti; quindi, dopo l’esito tragico di Genova 2001, un recupero del formato più snello, senza però ridurre la mobilitazione mediatica.

Nato come forum essenzialmente economico, il Vertice dei Grandi ha progressivamente allargato alle crisi politiche internazionali la propria ‘competenza’. E ha parallelamente ampliato i comunicati finali, fino a farne voluminosi breviari su cui, però, poi nessuno diceva messa. Divenuto stabilmente G7 a Tokyo nel 1985 per impuntatura di Craxi e condiscendenza di Reagan, poi G8 con l’ingresso della Russia nel Club - una volta dissoltasi l’Urss -, il Gruppo dei Grandi ha preso coscienza che lunghi comunicati, a fronte di scarsi risultati, erano un’ammissione d’impotenza e s’è sforzato di asciugare i testi, anche derubricandoli al rango di ‘conclusioni della presidenza’ (che ruota ogni anno).

Qualche esempio di frasi al vento? Sulle crisi del Medio Oriente, ricorrenti, il G8 ha versato fiumi di parole senza (quasi) mai ottenere uno straccio d’attenzione. Nel 1982, Israele lanciò l’operazione Pace in Galilea, vera e propria invasione del Sud del Libano, poco prima del Vertice dei Grandi, le cui parole non scalfirono la determinazione israeliana. E, negli Anni Novanta, accadde lo stesso per qualche tempo sui conflitti nella ex Jugoslavia, dove, però, la comunità internazionale assunse poi un atteggiamento più attivo.

Una delle leggende del G7 è la storia della parità dello yen, la moneta giapponese: tra gli Anni Ottanta e Novanta, il Giappone arrivava sempre al Vertice sul banco degli accusati, perché teneva la parità della sua moneta artificialmente bassa rispetto al dollaro, favorendo così le sue esportazioni e rendendo più difficili quelle dei concorrenti.

Bene. Regolarmente, il Giappone riusciva quasi ad eclissarsi durante la riunione –questo gli riesce pure ora-; incassava con un inchino, ma senza colpo ferire, gli inviti dei partner ad apprezzare lo yen; e tirava avanti come se nulla fosse. Il problema s’è risolto da solo, quando il Giappone, avvitatosi in una crisi di più lustri, ha smesso di essere una minaccia economica e commerciale. Però, quando ora vedete la Cina fare orecchie da mercante sullo yuan ad analoghe pressioni, avete capito a quale scuola orientale si stia ispirando.

Nel XXI Secolo, una costante del Vertice è stata la lotta al terrorismo, ma un terreno su cui s’è misurata l’impotenza, e pure la cialtroneria, dei Grandi è stata l’Africa. La storia comincia a Genova, prosegue in Canada l’anno dopo e va avanti a più riprese: al G8 vengono invitati capi di Stato africani, vengono presi impegni di aiuto cifrati e, poi, anno dopo ianno, si scopre che ben pochi li hanno rispettati. La polvere finisce sotto il tappeto del G20: lì, l’Africa c’è e non c’è più motivo di invitarla.

mercoledì 19 giugno 2013

G8: ma chi l’ha detto che ‘casual’ è ‘smart'?

Scritto per il blog de Il Fatto il 19/06/2013

Nelle ultime 48 ore, i tg di tutte le reti ci hanno propinato immagini campestri di combriccole d’amici intenti a passeggiare conversando per campagne verdi o a discutere sorridendo seduti intorno a un tavolo rotondo, a dire il vero piuttosto piccolo: sempre in maniche di camicia, o al più, quando la temperatura calava, con la giacca addosso, ma senza cravatta… La compagnia era un po’ bizzarra: tanti uomini e una sola signora, che pareva quella che si divertiva di meno, la più sussiegosa e la meno sportiva; tutta gente matura, ma non vecchia –anzi, il meno giovane, 60 anni ben portati, era un fusto dallo sguardo magnetico e dai muscoli evidenziati come solo Balotelli, qui da noi, sa fare-…

Solo se si prestava orecchio al commento e si scrutavano i volti, si capiva che quelli erano i Grandi del Mondo, i leader del G8, andatisi a riunire in un posto che per trovarlo sulle cartine vi ci vuole l’ultima versione di Google Maps, stile Echelon o –visto che è di moda- Datagate: Lough Erne, verde, laghetti e tranquillità (prima che ci arrivassero loro), non lontano da Enniskillen –e dov’è?-, due ore d’auto a ovest di Belfast. Arrivati lì, i Grandi sono parsi soprattutto preoccupati di fare pervenire ai loro cittadini cartoline da vacanza: siamo qui, stiamo bene, ci rilassiamo un sacco.

Il tutto all’insegna del binomio “casual”, informale, e “smart”, intelligente. Ma chi mai l’ha detto che quel binomio vale un assioma? E, poi, mica m’è chiaro perché sette miliardi d’individui sulla Terra dovrebbero sentirsi rassicurati dal vedere i leader del G8 trascorrere insieme gradevolmente qualche ora in un posto remoto. Io, personalmente, mi sentirei più rassicurato se li vedessi lavorare sodo, magari con la fronte un po’ aggrottata da preoccupazioni che sono pure le nostre.

Ché, poi, di certe cose, la crescita, il lavoro, l’evasione fiscale, il riciclaggio, il commercio mondiale e via dicendo, o la tragedia della Siria e il futuro della Libia, a parlarne come se stessi in vacanza perdi un po’ di peso, magari pure di credibilità.

E neppure sempre ci riesci, a far vedere che sei tra amici. Quando Obama e Putin –a proposito: è lui, il 60enne palestrato- si sono presentati ai giornalisti dopo il loro bilaterale, avevano l’aria d’essere reduci da una zuffa verbale: guardarsi negli occhi, il meno possibile…  Almeno, Obama non ha avuto la faccia tosta di dire, come fece Bush al primo incontro con il leader russo, di avergli letto in fondo all’anima (se pure fosse, è scritto in cirillico e Bush, che aveva già difficoltà a leggere l’inglese, se le parole erano lunghe, non ci avrebbe capito nulla).

Ma tant’è, i Vertici dei Grandi del XXI Secolo sono così: dopo la tragedia di Genova 2001, paura e prudenza hanno indotto il G8 a cambiare formula e luoghi: non più ‘riunioni jumbo’ fra leader e ministri degli esteri e delle finanze, ma solo i leader; e luoghi difficili da raggiungere, magari isolotti. Lì,  si è al riparo dalle contestazioni; la privacy, invece, resta comunque esposta, perché - s’è appena scoperto - i padroni di casa si prendono la briga di spiare gli ospiti e gli altri lo fanno fra di loro.

Il nuovo corso, lo cominciarono, nel 2002, i canadesi, scegliendo come luogo del Vertice Kananaskis, fra le Montagne Rocciose –due ore e 2000 alci dal centro stampa di Calgary-. E man mano la tendenza è divenuta dominante. Di pari passo, s’è affermato il carattere informale e ‘disteso’ del meeting nuova versione: giacca senza cravatta, o addirittura maglietta… Come s’è così si decidesse meglio, come se ‘casual’ fosse sinonimo di ‘smart’…

Insomma, un ritorno alle origini, alle ‘chiacchiere intorno al caminetto’ del primo appuntamento, nel castello di Rambouillet in Francia, nel 1975, dove i leader degli allora 5 Grandi più uno, l’Italia, si riunirono per migliorare la loro intesa. Ma c’è da scommetterci, che, allora, il presidente francese Valery Giscard d’Estaing e i suoi ospiti erano in giacca e cravatta. Meno ‘casual’, certo. Ma non per questo necessariamente meno ‘smart’.

G8: i Grandi 'smart' e 'casual' contro 'paradisi', evasione e riciclaggio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/06/2013

Un bell'accordo – sulla carta, poi si vedrà – contro l’evasione fiscale e il riciclaggio, con l’impegno allo scambio automatico dei dati fiscali. L’accento messo sulla promozione di crescita e lavoro, riconoscendo che il rigore deve essere accompagnato da politiche di sviluppo e che ci possono essere, nel breve periodo, elementi di flessibilità delle politiche di bilancio dei Paesi in difficoltà.

Scorrendo le conclusioni del G8 di Lough Erne, remota località del Nord Irlanda, pare di ritornare ai fasti dei Vertici dei Grandi, quando le loro indicazioni servivano da breviario per un anno alle organizzazioni finanziarie ed alla comunità internazionale. La globalizzazione e i ‘no global’ prima, con gli incidenti di Genova nel 2001, e la crisi poi, dal 2008, avevano di fatto ridotto il G8 a tappa d’avvicinamento al G20, che pareva dovesse assumere la governance mondiale.

In realtà, così non è stato. Il G20 non ha mostrato grande efficacia; e i leader del G8, abituati ormai ad andare quasi a nascondersi dove la contestazione non li possa disturbare, hanno ritrovato, quest’anno, la capacità d’indicare il cammino che parevano avere perso. E hanno pure ridato vigore al confronto, con quel gelido faccia a faccia tra i presidenti Usa Obama e russo Putin che pareva uno spezzone di Guerra Fredda più che un clip di XXI Secolo. Era forse dai tempi dell’invasione dell’Iraq, con la siderale distanza, sul lago di Evian, tra l’americano Bush e il duo ‘Vecchia Europa’, il francese Chirac e il tedesco Schroeder, che il G8 non vedeva un confronto del genere.

Sulle crisi internazionali, Siria, Libia, Iran, i Grandi del Mondo, come risultati, hanno a malapena meritato una sufficienza risicata. Sul fronte economico, invece, se ne sono ripartiti ieri pomeriggio da Lough Erne con una sufficienza piena: non che abbiamo concretamente fatto granché, ma almeno le parole e gli accenti erano quelli giusti, specie su lavoro e lotta contro l’evasione fiscale (nei cosiddetti 'paradisi', ci sono 21 mila miliardi, secondo l'Fmi) Lì, “abbiamo fatto più questa volta che in tutti i Vertici precedenti”, ha detto una fonte di parte, cioè britannica, visto che la presidenza di turno era appunto britannica. E l’ammissione, più che a vanto di questo G8, va piuttosto a disdoro di tutti altri.

Questo è stato definito un Vertice ‘smart casual’. Lo ‘smart’ resta da verificare, perché le direttive del G8 vanno ora tradotte in pratica da Ocse, Ue, Fmi, Wto e dallo stesso G20. Il ‘casual’, invece, è incontrovertibile: leader in camicia senza giacca; o con la giacca, ma senza cravatta. La meno sensibile al clima informale è stata l’unica donna, la cancelliera Angela Merkel. Ma, nell’insieme, s’è ritrovato lo spirito delle ‘chiacchiere intorno al caminetto’ del primissimo G8, che era un G5, a Rambouillet. I 60 milioni spesi per la sicurezza sono apparsi in gran parte sprecati: poche e sparute le proteste.

L’esordio al G8 è servito al premier Letta per due bilaterali inediti: con Obama e con Putin, con cui ha preparato il G20 di settembre a San Pietroburgo e il prossimo bilaterale d’autunno. Letta colleziona inviti: uno a Mosca, dopo quello a Washington.

Sulla Siria, nonostante le divergenze tra Usa e alleati europei, con distinguo fra di loro, da una parte, e Russia, dall'altra, l’impegno per una Ginevra 2, cioè di una nuova conferenza di pace internazionale, resta, con l’obiettivo di un governo transitorio con pieni poteri. E Obama non pare avere già optato per una ‘no fly zone’, dopo avere denunciato il ricorso alle armi chimiche da parte del regime. All'Iran, i Grandi chiedono di “cogliere l’occasione” rappresentata dal nuovo presidente Rohani.

Generico l’impegno a evitare in futuro “fraintendimenti” sul cyber-spionaggio, dopo che le notizie degli ascolti delle delegazioni straniere compiuti dall'intelligence britannica al G20 di Londra 2009 avevano steso un velo di pubblica diffidenza sull'appuntamento nord-irlandese.

Ieri, i leader hanno discusso delle 3T - trade, trasparency e tax - volute, come priorità del Vertice, dalla presidenza britannica e, in particolare, da David Cameron. La lotta all'evasione è stata il clou della discussione, mentre crescita e lavoro restano al centro dell'agenda dei Grandi che riconoscono prospettive di ripresa ancora “deboli", anche se con meno rischi che in passato.

Prima di parlare di tasse, i leader discutono di lotta al terrorismo. E incontrano il premier libico Zeidan: la sicurezza è precaria nel Paese, quasi due anni dopo l’uccisione di Gheddafi, specie dove agiscono gruppi  jihadisti armati. Letta presenta al collega libico un piano italiano, che aveva già anticipato ad Obama: fra i punti forti, la sicurezza delle frontiere.

martedì 18 giugno 2013

G8: Siria, Usa e Russia divisi; sul resto, più parole che fatti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/06/2013

La Siria, la Libia, il nuovo Iran, il lavoro e la crisi: in una remota località dell’Ulster, i leader degli Otto Grandi affrontano le emergenze del Mondo. Ma i dissensi, specie sulla Siria, prevalgono sulle intese, anche se il clima informale e la consapevolezza delle differenze riducono le attese e stemperano il clima del Vertice.

Per il premier italiano Enrico Letta, è l’esordio al G8 e la prima volta con il presidente Usa Barack Obama, che, in mezz’ora di colloquio, gli esprime forti preoccupazioni sul ricorso alle armi chimiche da parte del regime siriano, gli chiede aiuto sulla Libia –“Ho un piano”, gli assicura Letta- e condivide l’accento italiano sulla disoccupazione giovanile. E Obama invita il premier a Washington.

Un debutto (quasi) perfetto, non fosse che gli organizzatori mettono la foto di zio Gianni, invece di quella del nipote Enrico, sul sito ufficiale. Ma non è l’unica gaffe: il presidente russo Vladimir Putin deve passare la notte della vigilia a Londra perché il complesso del Vertice non era pronto ad accoglierlo.

Un irritato Putin deve così rivedere i suoi programmi: prima di confrontarsi con Obama sulla Siria, aveva previsto un tuffo nelle acque calme, ma fredde, di uno dei laghi che punteggiano il ‘resort’ di Lough Erne, dove i leader sono riuniti. L’americano, invece, va, come da copione, in palestra.

Protetto da un dispositivo di sorveglianza senza precedenti -8000 i poliziotti mobilitati-, anche nell’Ulster teatro di drammatiche tensioni in passato tra protestanti e cattolici, il G8 s’è ufficialmente aperto a metà pomeriggio, dopo una prima raffica d’incontri bilaterali.

Prima dell’inizio dei lavori in plenaria, Usa e Ue avevano dato un calcio d’avvio metaforico ai negoziati per un accordo commerciale “di portata storica”, per creare la più vasta zona di libero scambio al Mondo. Avviata la trattativa, resta da trovare l’intesa: i più ottimisti prevedono che l’esercizio possa concludersi fra un anno. Ed è pure esplosa una polemica tutta europea sulla cosiddetta “eccezione culturale”: La Francia è stata capace di imporre l’esclusione degli audiovisivi dal negoziato, ma s’è sentita dare della “reazionaria” dal presidente della Commissione europea Manuel Barroso.

Di Siria, s’è parlato nei bilaterali e nella cena di lavoro, andata avanti a lungo. Centrale l’incontro tra Obama e Putin: l’americano è orientato a fornire aiuto militare ai ribelli; il russo, che arma le forze leali al presidente Assad, mette in guardia i suoi interlocutori, “niente armi alla rivolta”. Per molti versi, Gran Bretagna, Francia, anche Italia condividono l’approccio americano. E Hollande dice apertamente di non nutrire “illusioni” su progressi.

Il G8 si chiuderà oggi con un giro di tavola su crisi e lavoro e sulle 3T che stanno a cuore alla presidenza britannica: tasse, trasparenza e commercio (‘trade’, in inglese). L’obiettivo è di rafforzare la lotta contro l’evasione, anche se nessuna conclusione del G8 avrà valore operativo.

Per quanto si siano andati a nascondere vicino a Enniskillen, due ore di strada da Belfast, i leader dei Grandi non hanno evitato del tutto le contestazioni: una piccola manifestazione della galassia ‘no global’, iper-sorvegliata dalla polizia, ha sfiorato in serata il G8.

lunedì 17 giugno 2013

Iran: Rohani, il mullah dal volto umano in cui l'Occidente spera

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/06/2013

L’Occidente lo conosce, perché, per oltre due anni, quando il presidente era Mohammad Khatami, fu un negoziatore dai toni concilianti sul dossier nucleare. E conta di trovare in lui un interlocutore più morbido del suo predecessore, Mahmud Ahmadinejad, che, dopo otto anni, lascia un Paese preda della crisi economica e isolato internazionalmente.

Se Israele mostra prudenza e diffidenza, gli Stati Uniti, l’Ue, l’Onu concedono una linea di credito ad Hassan Rohani, il nuovo presidente dell’Iran, un religioso moderato di 64 anni, già considerato “il mullah dal volto umano”: tutti pronti a testarne l’apertura e la volontà di dialogo. Emma Bonino, ministro degli esteri italiano, propone d’invitarlo alla conferenza di pace internazionale sulla Siria, se mai si farà.

I banchi di prova della capacità di manovra di Rohani, all’esterno, ma anche all’interno del Paese, saranno proprio il dossier nucleare e la questione siriana. Molto dipenderà dal rapporto che saprà instaurare con la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, cui spettano le decisioni finali sui programmi atomici, che l’Occidente sospetta abbiano finalità militari:Khamenei, che da tempo non andava più d’accordo con Ahmadinejad, non ha mai dato segnali di malleabilità nella trattativa con i cosiddetti ‘5 + 1’ –i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania-.

Nelle elezioni di venerdì, Rohani era l’unico religioso e l’unico moderato in lizza: su di lui, si concentravano le speranze dei riformisti, marginalizzati in Iran dopo le proteste dell’Onda Verde seguite nel 2009 alla rielezione di Ahmadinejad, mentre i conservatori erano divisi fra più candidati. Ma che vincesse al primo turno, pochi lo immaginavano; e, se fosse andato al ballottaggio, si sarebbe trovato di fronte lo schieramento conservatore compattato e rinsaldato.

Invece, il mullah ha saputo in qualche modo galvanizzare l'elettorato riformista e liberale, storicamente maggioritario rispetto al bacino conservatore –può potenzialmente contare 20 milioni di voti, contro 15/16 milioni-, ma venato di sfiducia e d’astensionismo dopo le confitte nel 2005 e 2009, senza nel contempo creare allarmi e quindi particolari mobilitazioni nel campo avversario.

Rohani gode dell’avallo del leader del movimento, l'ex presidente Mohammad Khatami, cui è vicino e che l’aveva voluto negoziatore sul nucleare tra il 2003 e il 2005. Con Gran Bretagna, Francia e Germania, concordò una moratoria dell'arricchimento dell'uranio, l'aspetto più controverso del programma nucleare iraniano, e l’applicazione del protocollo addizionale al Trattato di non proliferazione, che aprì la strada alle ispezioni internazionali dei siti iraniani; in cambio, ottenne un certo allentamento della pressione internazionale sull’Iran. Una svolta provvisoria, perché l'arricchimento fu poi ripreso nel 2005 da Ahmadinejad.

Fino all’elezione, e per 16 anni, Rohani è stato capo del centro di ricerca del Consiglio per i pareri di conformità, una specie di corte costituzionale presieduta da Akbar Hashemi Rafsanjani, altro ex presidente moderato, che pure l’appoggia: pur anziano, Rafsanjani avrebbe potuto essere di nuovo eletto, se non fosse stato escluso dai Guardiani della Rivoluzione formalmente per questioni d'età.


In linea con Rafsanjani e Khatami, Rohani potrebbe formare un esecutivo trasversale e pluralista, raccogliendo consensi anche in aree tradizionalmente conservatrici. Il desiderio che gli viene attribuito è di migliorare le relazioni internazionali e arrivare a un allentamento delle sanzioni, appoggiandosi su quanti in Iran vogliono maggiori libertà sociali: una sfida ai conservatori, giocata sul nucleare, ma anche sulla ‘carta dei diritti civili’, che dovrebbe garantire pluralismo politico e libertà sociali, e su mosse per le donne e le minoranze etniche.

sabato 15 giugno 2013

Siria: un film già visto, Usa, guerra, armi di distruzione di massa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/06/2013

Sembra un film dell’orrore già visto: uno di quelli che ti hanno così sconvolto che non vorresti rivederlo mai più. La svolta arriva dopo oltre due anni di guerra civile in Siria; dopo che era parso che gli insorti avessero partita vinta, mentre ora il regime è all’offensiva e riprende le città perdute; dopo tiramolla diplomatici tra tentazioni d’intervento e timori di cadere dalla padella nella brace, con tutti quei gruppi terroristici infiltrati fra i ribelli.

Per la Casa Bianca, Bachar al Assad ha superato la ‘linea rossa’ spesso evocata da Barack Obama: ha usato armi chimiche. Le prove sono “numerose e riguardano diversi episodi”, dice Ben Rhodes, numero due a Washington per la sicurezza nazionale.  Il gas sarin avrebbe fatto tra 100 e 150 morti, in un conflitto che conta almeno 93 mila vittime. Le agenzie d’intelligence americana ed europee concorderebbero in merito, secondo il NYT.

Vuol dire guerra al regime per cacciare al Assad, come in Libia per cacciare Gheddafi? In realtà, l’ambiguità continua, appesa al filo della riluttanza russa su un intervento militare in Siria. Obama annuncia un non meglio precisato “sostegno militare” agli insorti, ma non ha ancora deciso se istituire o meno, su aree di confine della Siria, una ‘no fly zone’, a tutela dei rifugiati. Per attuarla senza rischi, ci vorrebbe prima una serie di azioni ostili contro le difese anti-aeree siriane.

E viene in mente Colin Powell all’Onu il 7 marzo 2003: doveva fornire al Consiglio di Sicurezza e al mondo intero, in diretta tv, le prove che l’Iraq possedeva armi di distruzione di massa e costituiva una minaccia. Quel giorno, Powell seppellì per sempre ogni sua credibilità politica: convinse solo quelli che volevano farsi convincere, mentre un applauso corale accolse l’interrogativo del ministro degli esteri francese Dominique de Villepin, “Perché una guerra ora?”. Nemmeno tre settimane dopo, la notte tra il 19 e il 20, l’infermo di fuoco si scatenava su Baghdad.

Non avverrà lo stesso su Damasco. Pur se, negli ultimi giorni , i comportamenti di Barack Obama gli hanno meritato sull’Huffington Post la definizione velenosa “George W. Obama”: la rinuncia alla chiusura del carcere di Guantanamo, accettando di combattere il terrorismo violando in diritti dell’uomo; l’avallo alle operazioni di ascolto e intercettazione delle comunicazioni d’ogni tipo, affermando che la garanzia della sicurezza presuppone la rinuncia a una fetta di privacy; e, adesso, il passo sulla Siria.

Già, perché adesso?, perché davvero al Assad ha usato le armi chimiche?, o perché Obama deve scrollarsi di dosso la patina dell’inazione? Bill Clinton, l’ex presidente, considera la linea dell’immobilismo fin qui tenuta “una follia”. E il Congresso è inquieto.

La diplomazia internazionale si schiera lungo crinali che sono quelli del 2003: la Germania vuole una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; la Francia dice “non senza l’Onu”;  l’Onu è scettica; la Gran Bretagna sta con gli Usa; la Russia è contro. Obama consulta gli alleati, anche Letta; e la Bonino domani andrà a Mosca. Il momento della verità? Forse lunedì al G8 nell’Ulster, quando Putin e Obama ne parleranno insieme.

venerdì 14 giugno 2013

Germania: 100 giorni al voto: Merkel III, l'Europa in sala d'attesa

Scritto per EurActiv il 14/06/2013

Cento giorni alle elezioni politiche tedesche, il 22 settembre. Ma solo i primi 20 saranno davvero duri, per i leader dell’Ue, che dovranno fare mandare giù all'opinione pubblica la loro inazione contro la crisi, tante parole e pochi fatti –e meno soldi-  per la crescita e l’occupazione. Dopo, la strada spiana, perché a luglio, e a maggior ragione ad agosto, nessuno s’aspetta che l’Unione, che già di solito batte in testa, giri a mille. Poi, quando l’estate finirà, a settembre, saremo ormai nella fase finale della campagna elettorale e nessuno avrà nulla da ridire: ovvio stare fermi, “Mica vuoi creare allarme in Germania adesso?”.

Così, in questi giorni, è tutto un ‘fare ammuina’: la stagione dei Vertici che sta per aprirsi consente ai leader di dare l’impressione di agire senza fare (quasi) nulla. E la cancelliera Angela Merkel, candidata a succedere a se stessa per un terzo mandato, ricambia la comprensione dei partner lasciando in qualche modo sperare che ‘dopo’ qualcosa cambierà.

Per intanto, scende in campo a difesa della Bce e in polemica con la Bundesbank, in concomitanza con il procedimento della Corte costituzionale di Karlsruhe sulla legittimità dello scudo antispread. La sentenza, sia chiaro, non ci sarà prima dell’autunno, cioè non prima del voto. ”Noi crediamo – dice la Merkel - che la Bce assicuri la stabilità dei prezzi nell'eurozona” e difende la legittimità degli strumenti di salvataggio dell’euro, ricordando, soprattutto, che ”anche la Germania avverte gli effetti della crisi: se in Europa le cose non vanno bene, neanche in Germania possono andare bene”.

Ma dopo le elezioni tedesche, cambierà davvero qualcosa? Certo, molto dipende dall'esito del voto. Gli interlocutori della Merkel sembrano, al momento, scommettere, o credere, in una sua conferma. E puntano, o sperano, in un cambio di coalizione a Berlino: infatti, se i socialdemocratici dovessero sostituire i liberali nell'alleanza con Cdu/Csu, il vino del rigore dei conservatori verrebbe allungato dall'acqua della crescita dei progressisti. E Francia, Italia, Spagna troverebbero, nella loro questua per una maggiore flessibilità europea, sponde interne alla coalizione tedesca.

Magari, è ancora presto per fare calcoli. Ma tutti i leader dell’Ue paiono preoccupati di non irritare, oggi, la Merkel, a rischio di inimicarsela per i prossimi quattro anni. Tutti, tranne Silvio Berlusconi, che invita il premier italiano Enrico Letta a fare a braccio di ferro con la cancelliera. Ma Silvio, con Angela, non ha nulla da perdere: peggio di così, le cose, fra loro due, non potrebbero andare.

Comunque sarà, fatto sta che, ogni volta che si parla ora di piani per l’occupazione, e si aggiunge “specie quella dei giovani”, salta fuori ben strombazzato un vertice, proprio o improprio che sia: c’era in origine il Consiglio europeo di fine giugno, il 27 e 28 a Bruxelles, che è davvero un Vertice, almeno ai sensi dell’eurocratese;  poi, s’è aggiunto il vertice di Berlino del 3 luglio, che non lo è, ma è solo un confronto fra i ministri del lavoro dei 27 sulle migliori pratiche per il lavoro giovanile; e, ultimo in ordine d’iniziativa, ma primo sul calendario, ecco il vertice dei 4 Grandi Ue, il 14 giugno a Roma, che non è manco questo un vero vertice, bensì un incontro dei ministri delle finanze e del lavoro di Italia, Germania, Francia, Spagna (che, poi, a volere essere pignoli, non sono neppure i 4 Grandi Ue, perché c’è pur sempre la Gran Bretagna, fin quando non leva il disturbo).

Ad infittire l’agenda dei Vertici c’è poi il G8 nell’Ulster, sotto presidenza di turno britannica, il 17 e 18 giugno, il cui ordine del giorno è all’insegna di “crescita e prosperità” con la trovata mediatica delle “3 T”, “taxes, transparency, trade”. Il G8 conferirà poi gran parte delle sue conclusioni al G20, che è in programma il 5 e 6 settembre a San Pietroburgo, sotto presidenza di turno russa.

Ora, nessuno vuole meritarsi la medaglia del pedante, solo perché i Vertici, nell’Ue, sono le riunioni dei capi di Stato e/o di governo. Ma nessuno vuole neppure farsi prendere in giro: indire le riunioni, e chiamarle pure tutte vertici, va benissimo, se si producono risultati; ma se ci si limita a chiacchiere, allora potremmo pure risparmiarci gli incontri e l’inchiostro. ...

... L’attivismo diplomatico non va però scambiato, né gabellato, per concretezza di risultati, che ancora non c’è. Il New York Times titolava giorni fa sulla “guerra debole” dell’Ue alla disoccupazione e scriveva: “Gli schemi presentati in Italia e Spagna per combattere il problema somigliano tristemente al ‘programma di crescita’ di Hollande, che non è mai stato davvero di crescita”.  E il Financial Times denunciava, in un editoriale, “la letargia” del governo Letta. ...

... Il ministro del lavoro Enrico Giovannini vede “un cambiamento culturale” nell'approccio alla lotta contro la disoccupazione: “Se pensiamo che il mercato del lavoro segua sempre e soltanto il ciclo economico, dovremmo aspettarci prima una ripresa economica e poi un effetto sull'occupazione. Il fatto che si riconosca che la disoccupazione condiziona le scelte di famiglie, e quindi la ripresa economica, significa che bisogna far sì che anche nella fase iniziale della ripresa, nella seconda metà dell’anno, ci sia un’alta intensità di occupazione, cioè che la stessa riduzione della disoccupazione giovanile stimoli la crescita”.
Intellettualmente, è stimolante. Praticamente, significa aspettare, se va bene, perché accada qualcosa di concreto, “la seconda metà dell’anno”, che vuol dire da settembre in poi. Il che ci riconduce –sarà un caso- ad attendere per iniziative europee significative ed incisive le elezioni politiche tedesche del 22 settembre. E allora diciamolo: non c’è mica da vergognarsene, se non si può fare altrimenti.

Gheddafi: tutti lo preferivano morto, piuttosto che vivo alla sbarra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/06/2013

Meglio nella tomba che alla sbarra: lo scrivemmo su Il Fatto, sintetizzando il pensiero di molti, e il sollievo di alcuni, quel 20 ottobre 2011, quando arrivò, improvvisa, ma non inattesa, la notizia dell’uccisione di Muammar Gheddafi. Un’esecuzione barbara, nelle immagini e nell’improvvisato rituale, intorno a cui – c’era da scommetterci già allora - sarebbero cresciute e ancora cresceranno verità e leggende tutte accomunate da un filo rosso: non potere essere provate o smentite in modo incontrovertibile.

Accanto ad espressioni di pietas convenzionali, l’eliminazione di Gheddafi, fu accolta con commenti che esprimevano la convinzione che la fine della guerra era più vicina – un conflitto che doveva durare settimane e che si trascinava da mesi- e la sensazione d’una sorta di ‘missione compiuta’, anche se nessuno, nemmeno l’Onu, aveva affidato all’Alleanza atlantica il compito di scovare e uccidere il leader libico.

Il colonnello dittatore era stato prima nemico bandito e poi amico accettato e persino blandito di un Occidente distratto, in Libia come altrove, nella difesa dei diritti dell’uomo e dei valori della democrazia, perché petrolio e gas, lì, contavano di più. E il sollievo di alcuni nasceva dalla convinzione che un Gheddafi vivo sarebbe stato ingombrante per i nuovi leader libici, ma anche e forse soprattutto per i suoi nemici degli ultimi sei mesi.

Tutti, prima, erano stati suoi amici, almeno dopo lo sdoganamento, deciso nel 2003 dal duo Bush/Blair, dall’inferno dei protettori del terrorismo internazionale e l’ingresso nel limbo di quelli con cui fai affari cercando, però, di averci poco a che fare. Con una gradualità d’atteggiamenti: dal distacco americano alle strette di mano francesi; dal baratto britannico del ‘boia di Lockerbie’ con un po’ di commesse fino – la pagina peggiore - al bacio dell’anello d’un Berlusconi genuflesso.

Un Gheddafi preso vivo, da custodire prigioniero prima e da chiamare alla sbarra poi, per rendere conto dei crimini suoi e del suo regime, sarebbe stato un bell’imbarazzo. Ci sarebbe stato da litigare fra nuovi libici e loro alleati: i primi volevano processarlo in patria; i secondi fare valere il mandato di cattura della Corte dell’Aja, per crimini contro l’umanità.

E quali che fossero i giudici, il Colonnello avrebbe potuto denunciare la combutta con il suo regime di molti capi ribelli, oppure chiamare a rendere conto della loro amicizia nei suoi confronti i leader che lo avevano sdoganato, o quelli che gli avevano lasciato piantare la sua tenda nei loro giardini, come Berlusconi e Sarkozy, senza contare signorotti africani e del Terzo Mondo. Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss, tweettò quel giorno: “Un’esecuzione di Gheddafi sembra probabile e pure logica: un processo internazionale sarebbe stato troppo imbarazzante”.

Ma che l’esecuzione abbia avuto complicità e/o orchestrazioni extra-libiche non è mai stato provato e, probabilmente, mai lo sarà. Il 20 ottobre, Berlusconi, allora premier, se la cavò con uno sbrigativo e, soprattutto, fuori luogo, “Sic transit gloria mundi”, lui che di Gheddafi era stato un grande amico, scambi di visite, abbracci, genuflessioni e processioni di vergini ai corsi d’Islam del rais a Roma. Una battuta destinata a restare nell’antologia delle frasi celebri e infelici di Mr B, accanto a quella “non gli ho ancora telefonato per non disturbarlo” detta all’inizio dell’insurrezione.

Impaniata in un Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione con la Libia molto impegnativo, la cui responsabilità politica ricadeva su tutti i partiti che lo ratificarono nel 2009 –maggioranza e Pd a favore, IdV, Udc e radicali contro-, l’Italia non riuscì, nel febbraio 2011, a esercitare un ruolo attivo nella prima confusa e drammatica fase di proteste e fermenti, violenze e repressione. E l’amicizia tra Cavaliere e Colonnello quasi la paralizzò, invece di renderla protagonista.

La Francia e la Gran Bretagna, invece, si mostrarono subito amici dell’insurrezione, mentre gli Stati Uniti, come avrebbero fatto per tutto il conflitto, si tenevano un po’ fuori, sporcandosi davvero le mani, militarmente, solo nelle fasi iniziali, con raffiche di incursioni aeree e gragnole di cruise dalle loro navi. A marzo, l’Italia mollò Gheddafi e riuscì a sottrarre alla Francia la leadership diplomatico-militare, consegnandola alla Nato. Ma, durante la guerra, l’Italia nicchiò sulla partecipazione ad azioni offensive, anche se, a conti fatti, delle 15.952 missioni da combattimento aeree condotte dalla Nato l’aeronautica italiana ne compì 1947, il 12%.

mercoledì 12 giugno 2013

Visti dagli Altri: la letargia di Letta e l’arte di (non) scegliere

Scritto per il blog de Il Fatto il 13/06/2013

Se ne sono accorti pure loro, gli osservatori stranieri più attenti e più critici della politica italiana. Aspettando The Economist, si fa avanti il Financial Times. Non che fosse difficile rendersene conto:  il premier Letta e il suo governo sono effetti da “letargia” ed hanno fatto ben poco, finora, per rimettere in moto l'economia. Per agire, il premier –sostiene l’FT- dovrebbe rinnegare la sua “trilogia impossibile”: tagliare le tasse, aumentare le spese, rispettare i limiti di deficit fissati dall’Ue.

Per governare, ammonisce il quotidiano della City, bisogna talvolta fare scelte difficili: accontentare tutti, facendo tutto e il contrario di tutto, non è possibile, è la morale dell’editoriale dell’FT, conscio che l'esperienza Monti mostra come "le riforme non sempre paghino in termini di consenso".

Invece, la scuola di Letta appare piuttosto quella dorotea di accontentare tutti non facendo (quasi) nulla. Eppure, i risultati delle Amministrative dello scorso weekend potrebbero indurlo a passare all'azione, perché –osserva l’FT- "l'ondata di delirante populismo giunta in Italia con le elezioni politiche sembra essere diminuita".

Nell'analisi del voto, la stampa estera, tra ieri e oggi, è piuttosto monocorde, allineata sui commenti politici italiani: Mr B e Grillo i grandi sconfitti –“gli incantatori vittime delle elezioni locali”, scrive la Reuters-; il Pd vince, ma “resta convalescente” (Le Monde); e il cappotto di sindaci subito dal Pdl nei capoluoghi di provincia rende meno probabile che il Cavaliere decida ora di staccare la spina alla coalizione.

La stampa americana, che talora non coglie le alchimie italiane, calca i toni rispetto a quella europea: la vittoria del centrosinistra alle comunali è, per il Wall Street Journal, "una dimostrazione di forza che promette bene per la stabilità del governo nazionale"; e Letta, scrive il Washington Post, si gode la spinta di cui aveva bisogno per portare avanti la sua "fragile coalizione".

Con maggiore distacco, l’FT sostiene che gli italiani s’aspettano risposte alla crisi economica e paiono per ora disposti a "dare a Letta e al governo il beneficio del dubbio". Eppure, l'economia non solo non si riprende, ma ha addirittura subito una flessione nel primo trimestre 2013 e le previsioni di miglioramento nella seconda metà di quest'anno "sembrano sempre più improbabili". Bisognerebbe fare qualcosa, uscire dalla “letargia”. Qualcuno svegli il premier e il governo.

martedì 11 giugno 2013

Ue-Usa: eccezione culturale, l'Italia si barcamena tra Parigi e Londra

Scritto per EurActiv l'11/06/2013

Ma chi stiamo menando per il naso?, i francesi, sicuri di averci dalla loro parte?, o i britannici, che, invece, non ci sentono ostili? L’impressione è che, come spesso ci capita, ci stiamo barcamenando, cercando di non dispiacere a nessuno invece d’avere la priorità dell’interesse nazionale. Il problema è il mandato negoziale per la trattativa sulla zona di libero scambio fra Unione europea e Stati Uniti.

Il Parlamento europeo ha approvato un proprio testo in plenaria a maggio, ponendo, fra le altre, la condizione che dal negoziato siano esclusi i servizi culturali e audiovisivi: un punto cui tengono molto i francesi e cui, invece, non tengono affatto i britannici, con i campioni del mercantilismo, che, nella circostanza, sono quelli che per ragioni linguistiche o per tradizione culturale meno temono l’invasione dei prodotti americani.

Ora, il Consiglio dei Ministri dell’Ue dovrà mettere a punto il mandato nelle prossime settimane, prima di avviare la trattativa vera e propria. In linea con il Parlamento, 15 dei 27, fra cui l’Italia, sembrano favorevoli all'esclusione dei servizi culturali e audiovisivi dal negoziato, che potrebbe aprirsi a luglio e che si spera possa concludersi l’anno prossimo.

La trattativa Usa-Ue potrebbe essere evocato, la prossima settimana, in margine al vertice del G8 nell’Ulster, sotto presidenza di turno britannica. E i britannici leggono la posizione italiana in modo più dialettico: non diremmo no alla trattativa sui servizi culturali e audiovisivi, ma vorremmo che la Commissione europea, cui spetterà negoziare, gestisca il negoziato su questo punto senza cedimenti in modo durissimo. I britannici spiegano –non senza fondamento- che escludere del tutto il settore dalla trattativa avrebbe come conseguenza che gli Stati Uniti escluderebbero, a loro volta, un settore per loro delicato. E, perdendo i pezzi, l’accordo perderebbe di significato.

Resta il fatto che il governo italiano, attento a non dispiacere né a Parigi né a Londra, dovrà pure tenere conto della lettera appello al premier Enrico Letta firmata da quattro registi premi Oscar, Roberto Benigni, Bernando Bertolucci, Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores, che gli chiedono di "escludere la cultura e l'audiovisivo dai trattati commerciali tra Unione europea e Stati Uniti".

La lettera al premier, che ha visto l'adesione di associazioni, sindacati, attori, ma anche di Rai, Mediaset e Confindustria, e una petizione ad essa collegata saranno presentate nei prossimi giorni  alla commissione competente del Parlamento europeo.

Il settore rientra nella cosiddetta ''eccezione culturale'', che - si legge ancora nella lettera a Letta - ''vent'anni fa ha consentito la nascita dell’industria di produzione culturale europea di oggi. Adesso è il momento di adeguare quella definizione alle tecnologie e ai tempi nuovi''.

A preoccupare artisti e operatori del settore europei sono i ‘colleghi’ americani: il rischio è culturale, ma è pure economico: ''La previsione di un rapidissimo processo di concentrazione delle funzioni di produzione e distribuzione fuori dall’Europa è coerente con quanto già accaduto fino ai primi anni del Duemila nell’industria statunitense dell’intrattenimento, che diventerebbe naturale interlocutore privilegiato dei nuovi giganti della distribuzione, con trasferimento oltre Atlantico anche della funzione editoriale''.