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martedì 11 giugno 2013

Voto: metà alle urne; sindrome Usa, dove il 26% è maggioranza assoluta

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/06/2013

Andatelo a dire al presidente degli Stati Uniti, che è un presidente dimezzato perché lo scelgono solo la metà o poco più dei potenziali elettori. Le democrazie mature, quelle almeno dove il voto non è obbligatorio pena sanzione, come il Belgio, sono ormai evolute verso tassi di partecipazione bassi: assuefazione al rito della scheda, intolleranza alla politica –o ai politici-, fatto sta che una metà decide per tutti, che il 26% fa maggioranza assoluta. E gli altri mica contestano: accettano.

Con qualche eccezione. A Los Angeles, a fine maggio, il sindaco è stato eletto dal 15% degli aventi diritto. E qualche mugugno c'è stato, sulla sua rappresentatività.

Ormai, le code ai seggi, le affluenze alle urne alte paiono patrimonio di Paesi che s’affacciano alla democrazia  uscendo dal tunnel di una dittatura o dall'inferno di una guerra. Eppure, dentro dentro ci resta la convinzione che le nostre elezioni siano più democratiche, più consapevoli, più ‘vere’, e che i nostri risultati siano più credibili, meno manipolati, più equi di quelli di dove bisogna protrarre l’apertura dei seggi perché tutti possano votare e mostrare il dito intinto nell'inchiostro anti-frode.

Da noi, la politica non pratica più (molto) la frode nell'urna. E’ fuori che fa disastri. E toglie a molti la voglia di partecipare a decidere, tanto “non cambia nulla”, perché “sono tutti uguali”. Non è vero. Ma se poi anche Obama comincia ad assomigliare a Bush un dubbio ti viene.

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