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sabato 29 ottobre 2011

UE-Italia: Mr B. non scioglie nodo Bini Smaghi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/10/2011

Siede su una di quelle poltrone da cui nessuno lo può cacciare, prima del termine del suo mandato. Ma ci sta ormai scomodo: tutti si aspettano che lui se ne vada, anche perché s’è impegnato a farlo “entro la fine dell’anno” –e non ci siamo ancora, a dire il vero- con il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy e con il presidente francese Nicolas Sarkozy. Era il 24 giugno.

Quattro mesi dopo, il premier Silvio Berlusconi, che, all’inizio, ha gestito questa faccenda come se l’epilogo fosse scontato, si affida alle perorazioni. Invece, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha un’autorità morale da spendere, ha visto Lorenzo Bini Smaghi ieri sera al Quirinale: sui contenuti del colloquio, c’è riserbo, ma fonti del Colle negano che sia in atto un pressing sul banchiere. Il posto di Mario Draghi al vertice della Banca centrale non corre rischi, ma quel che resta della credibilità dell’Italia sì.

Certo, i posti che avrebbero indotto Bini Smaghi a lasciare senza rimpianti il suo ufficio nella EuroTower di Francoforte o sono sfumati o non sono disponibili. Colpa anche sua, perché, per come s’è mosso per brigare l’incarico di governatore di BankItalia, s’è alienato le simpatie di tutta la struttura della banca centrale italiana, i cui vertici minacciavano dimissioni in blocco al suo arrivo.

Un altro desiderio che viene attribuito a Bini Smaghi in queste ore, quello di andare alla Commissione europea, al posto di Antonio Tajani, vice-presidente e responsabile per l’industria e l’imprenditoria, è un disegno fuori dalla portata dei poteri dei governi: anche volendolo, l’Italia non può revocare il mandato di un commissario, che, una volta insediato, non è il rappresentante del governo che l’ha designato, ma esercita un ruolo sovranazionale. Certo, se Berlusconi glielo chiedesse, Tajani potrebbe considerare di dimettersi, soprattutto se il gesto fosse parallelo a una nomina a ministro, ma il Cavaliere non gliel’ha chiesto e non intende farlo. A Bini Smaghi, invece, avrebbe offerto, senza successo, la guida dell’antitrust.

Nato da nobile famiglia, sposato, due figli, Bini Smaghi è un predestinato dell’Italia europea e internazionale: maturità nel 1974 al liceo francese di Bruxelles, laurea in economia nel 1974 all’Università cattolica di Lovanio, master sempre in economia negli Stati Uniti nel 1980; e, a fare buon peso, una laurea in scienze politiche a Bologna e un PhD a Chicago. Nel 1983, entra in BankItalia, dove resta fino al 1994. Poi è capo della divisione analisi e pianificazione dell’Istituto monetario europeo, predecessore della Bce, e quindi, fino al 2005, dirigente generale della direzione rapporti finanziari internazionali del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Chi lo conosce bene sa che ha la consapevolezza del suo valore, il che non sempre lo rende simpatico.

Dal giugno 2005 è membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, posto in cui, per l’Italia, l’aveva preceduto Tommaso Padoa-Schioppa. E lì per ora resta, nonostante l’arrivo alla presidenza della Banca, che sarà effettivo il 1.o novembre, dell’ex governatore di BankItalia Mario Draghi. In realtà, non c’è scritto da nessuna parte che un Paese non possa avere due rappresentanti nel board della Bce, tant’è vero che un’anomalia del genere già si verificò quando il francese Jean-Claude Trichet divenne presidente (e per qualche mese la Francia ebbe una doppia presenza).

Proprio quella Francia che, adesso, rimanendo lei a secco, giudica inaccettabile la situazione: fonti dell’Eliseo e del Quay d’Orsay negano che vi sia una crisi tra Parigi e Roma e continuano a dirsi “fiduciose” che gli accordi presi saranno rispettati, ma auspicano che Berlusconi rispetti l’impegno “entro la fine della settimana” –non che resti molto tempo-. O, comunque, “al più presto”. Quanto alle alternative da offrire a Bini Smaghi, Parigi, giustamente, se ne lava le mani: "questa è una questione italo-italiana".

La stampa francese fa da spalla alla diplomazia transalpina: "Silvio spinge, Lorenzo resiste, Nicolas si irrita e Mario si sistema" titola Le Monde, che giudica la vicenda “uno psicodramma”, sostenendo che Bini Smaghi "si aggrappa" al suo incarico, con l' "appoggio" dei suoi pari. Il giornale riferisce anche dell'appello alle dimissioni fatto giovedì da Berlusconi. "Non serve a niente andare in tv a dirgli di dimettersi, bisogna trovargli un posto".

Sull’altro piatto della bilancia, c’è l’intervista del ministro degli esteri italiano Franco Frattini a un quotidiano tedesco, la Faz: "Sappiamo –dice Frattini- che non possiamo dare ordini a componenti del Board della Banca”, Bini Smaghi deve essere responsabile e Sarkozy sbaglia a volere stringere la Bce nell’angolo della dipendenza dalla politica.

UE-Italia: dopo lettera, siamo osservati speciali

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/10/2011

Dalle 0300 del mattino di giovedì' 27 ottobre, l'Italia e' ufficialmente un osservato speciale dell'Ue. Questo e' il senso delle conclusioni di un Vertice europeo cruciale per l’Unione e per l’euro, non solo decisivo per l’Italia e la Grecia. Nove ore di negoziati su più tavoli, fin verso l'alba, come in altri round storici dell'integrazione, Maastricht o la notte che nacque l'euro.

Questa volta, la posta in gioco non era fare un passo in avanti verso l'unione, ma evitare di cadere nell'abisso. I leader dell’eurozona dovevano sciogliere molti nodi della crisi del debito e ci sono sostanzialmente riusciti: hanno infatti varato il fondo ‘salva Stati’, già ratificato da tutti i 17 dell'euro, e lo hanno portato a 1000 miliardi; hanno tamponato le difficoltà delle banche, per la cui ricapitalizzazione ci sono 106 miliardi di euro; hanno avallato lo sblocco della seconda ‘tranche’ di aiuti alla Grecia, che fruisce della riduzione del 50% dei debiti verso gli istituti di credito , specie francesi e tedeschi.

E l'Italia? La lettera d’intenti che Silvio Berlusconi fa pervenire, quasi in extremis, ai presidenti delle istituzioni comunitari Van Rompuy (Consiglio) e Barroso (Commissione) ottiene a caldo riscontri positivi, poi ribaditi, ieri, nel rapporto post Vertice fatto al Parlamento europeo: gli impegni di risanamento e rilancio raccolgono generici consensi.

Puo' forse sorprendere, a fronte d'un testo che prevede la riduzione al 113% del Pil nel 2014, l’innalzamento dell’età della pensione a 67 anni dal 2026, licenziamenti più facili, dismissioni, incentivi all’occupazione di giovani e donne. Ma, in realta', i leader non avevano molte alternative: domenica avevano chiesto all'Italia d'assumersi impegni di risanamento e rilancio; e l'Italia, sulla carta d'una lettera, l'ha fatto.

Diplomaticamente impossibile dirle, a quel punto, "non ti crediamo". La via era obbligata: "Grazie, bene, brava, adesso vediamo che cosa fai davvero". Ed e' qui che l'Italia si scopre osservata speciale: il suo operato, l'attuazione degli impegni, sara' seguito da Van Rompuy, nella sua nuova veste aggiuntiva di 'ministro delle finanze europeo', e dall Commissione europea, il presidente Barroso e il responsabile delle finanze Olli Rehn. Una trojka belgo-portoghese-finlandese di persone molto concrete e poco inclini alla fantasia, magari un po' grige e, per quanto riguarda Rehn, più funzionario che politico.

Da loro, c'e' da aspettarsi più rigore che tolleranza, più pignoleria da ragionieri che colpi di genio da poeti o battute di spirito (anche se van Rompuy e' capace degli uni e delle altre). Meglio farli dialogare con Giulio Tremonti, che parla il linguaggio di Rehn, che con il premier, che puo' al massimo provare a 'imbobinare' Barroso.

Del resto, Tremonti deve tornare. In gioco, in Europa: mercoledì, i leader non dovevano mettersi d’accordo sui dettagli, ma dare gli input politici. Adesso, ci penseranno poi i ministri delle finanze. Dal Vertice escono indicazioni per evitare di lasciare spazio alla speculazione e sventare il contagio della crisi, che ha già investito Grecia, Irlanda e Portogallo e che rischia d'investire Italia e Spagna.

Se L'Italia e' l'osservata speciale dell'Unione, l'Europa lo e' del mondo dei Grandi della Finanza: Bruxelles è una tappa verso il G20 di Cannes il 3 novembre. Là, saranno l'Ue e i nostri giudici bruxellesi, Sarkozy e la Merkel, ad esporsi all'esame dell'americano Obama e del cinese Hu. L'Unione difenderà l’idea di una tassazione sulle transazioni finanziarie, ma i suoi progetti e i suoi conti potrebbero non trovare accoglienza positiva.

giovedì 27 ottobre 2011

UE-Italia: i leader a Mr.B, fai quel che dici

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/10/2011

Bruxelles - Della Grecia, s’è smesso di parlare. Si parla solo dell’Italia. E non è un buon segno, mentre i leader dei 17 affrontano nella notte i nodi della crisi dell’euro e dell’Ue, dopo una riunione a 27 durata poco più d’un’ora: un Vertice corale ‘pro forma’. La lettera d’intenti dell’Italia, molto attesa, raccoglie primi riscontri positivi: “L’impressione è stata davvero buona”, dice, senza neppure averla letta, il presidente di turno del Consiglio europeo, il premier polacco Donald Tusk. Giudizi ovvii e ancora generici: a caldo, non poteva essere diversamente. Il documento è illustrato dal presidente del Vertice Van Rompuy: Berlusconi c’è, ma tace.

L’aperitivo, i 27 lo prendono insieme. Per la cena restano solo i ‘signori dell’euro’: qualche burlone dice che hanno ordinato un menù cinese, per cominciare ad adeguarsi a chi comanda nella finanza del nuovo ordine globale. Tusk, prima di andarsene, avverte che non tutte le decisioni saranno prese nella notte; Van Rompuy parla di un clima di fiducia ritrovata, di un consenso sul salvataggio delle banche.
Berlusconi arriva con l’aria di chi è sicuro di farcela, anzi di averla già scampata bella riuscendo a presentarsi al Vertice senza spaccare la maggioranza. Che il premier sia su di giri lo si capisce subito: appare rilassato; non dice nulla, ma fa ai giornalisti un cenno che significa “ci vediamo dopo”; e, appena dentro, ingaggia un colloquio concitato, parole e gesti, con il collega spagnolo Zapatero, cui, malgrado l’interprete, sembra sfuggire qualcosa.

Poi, per la serie ‘il lupo perde il pelo –e forse neppure quello- ma non il vizio’, Mr B dedica uno sguardo d’ammirazione alla premier danese Helle Thorning-Schmidt, una socialdemocratica all’esordio: le si avvicina, le stringe la mano e, quando lei s’allontana, resta per un po’ a scrutarla.

Nell’agenda del Cavaliere, non sono previsti bilaterali. Il duo Merkozy, la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy, entrano nella sala insieme. Angela va dritto verso Berlusconi e lo saluta con un pizzico di calore in più del necessario (voleva farsi perdonare la risatina di domenica); Nicolas prende un’altra direzione: tra Italia e Francia, il freddo, se non proprio il gelo, resta.
Nelle conclusioni del Vertice, che a tarda sera dovevano ancora prendere forma, ci sarà sicuramente un passaggio all’Italia: una prima valutazione dei contenuti della lettera consegnata nel pomeriggio ai presidenti del Consiglio Van Rompuy e della Commissione Barroso. Il documento prospetta, fra l’altro, l’innalzamento dell’età della pensione a 67 anni dal 2026, licenziamenti più facili, dismissioni, incentivi all’occupazione di giovani e donne.

Il Vertice è difficile non solo per l’Italia e la Grecia. I leader dell’eurozona devono sciogliere i nodi della crisi del debito, come i partner internazionali, soprattutto gli Stati Uniti, sollecitano: varare, cioè, il fondo ‘salva Stati’, già ratificato da tutti i 17 e dotato di 440 miliardi di euro, che potrebbero non bastare però a bloccare il contagio, se dovesse estendersi a Italia e Spagna; ‘mettere una pezza’ alle difficoltà delle banche; prendere atto dello sblocco della seconda ‘tranche’ di aiuti alla Grecia.

Non c’è bisogno di mettersi d’accordo sui dettagli: a quelli, penseranno poi i ministri delle finanze. Ma dal Vertice devono uscire indicazioni politiche sufficientemente precise per evitare di lasciare spazio alla speculazione e sventare la diffusione della crisi, che ha già investito Grecia, Irlanda e Portogallo. Le borse europee tengono dall’inizio della settimana il fiato sospeso: non vanno né su né giù, aspettano le decisioni dei leader.

I contrasti tra Germania e Francia, specie sulle modalità di salvataggio delle banche, restano forti: Sarkozy si sente politicamente “morto”, se la Francia perdesse la sua tripla A; la Merkel è pronta a cambiare i Trattati e insiste per sanzionare chi viola i patti –all’Italia, che contende alla Grecia il record delle infrazioni alle norme dell’Ue, fischiano le orecchie-. Su scala mondiale, Bruxelles è una tappa verso il G20 di Cannes il 3 novembre: là, la cancelliera difenderà l’idea di una tassazione sulle transazioni finanziarie.

La posizione dell’Italia matura a fatica, mentre, al di sopra delle beghe nella maggioranza, fanno sentire la loro voce il presidente Napolitano, dal collegio d’Europa di Bruges, e il presidente della Bce Draghi. Napolitano dice che è fondamentale un recupero di crescita, produzione e occupazione. Su riforme e debito, bisogna assumersi senza tergiversare la responsabilità di misure impopolari. Draghi nota che le riforme strutturali restano da fare e suggerisce di spostare il peso fiscale su proprietà e consumi e di accrescere le opportunità per i giovani. Senza nuova ricchezza, avverte, presto saranno intaccati i risparmi.

mercoledì 26 ottobre 2011

Ue: Mr B al Vertice, le mani vuote e il dente avvelenato

Scritto per il Fatto Quotidiano del 26/10/2011

A mani nude. Ma, soprattutto, a mani vuote. Silvio Berlusconi si presenta, questa sera, a un Vertice europeo decisivo per l’Ue, per l’euro e, anche per l’Italia con una letterina d’intenti forzatamente generica: poca roba, da dare in pasto agli orchi dell’Ue. Del resto, o spacca il governo o scontenta i partner: c’è qualche ora utile ancora, perché l’incontro di Bruxelles comincerà a mercati chiusi. Quasi contemporaneamente, un centinaio di chilometri a nord, il presidente Napolitano offrirà il volto migliore dell’Italia europea al Collegio di Bruges.

Il Cavaliere non potrà neppure contare sull’azione di frangiflutti del ministro dell’economia Giulio Tremonti, perché la riunione dei ministri dei 27, il Consiglio Ecofin, che in mattinata doveva sciogliere i nodi più tecnici delle decisioni dei capi di Stato e di governo, è stata cancellata. Il consulto fra ministri avrebbe consentito d’individuare i punti deboli della posizione italiana e, magari, di correggerli in extremis.

La presidenza di turno polacca dell’Ue spiega che i problemi sul tappeto sono tali e tanti da richiedere l’intervento dei leader senza intermediari. Il Consiglio Ecofin potrebbe, invece, riunirsi dopo il Vertice e definirne nei dettagli le decisioni.

Il cambio di scenario non lascia presagire nulla di buono. Il premier francese Francois Fillon non contribuisce all’ottimismo: un fallimento del Vertice “potrebbe fare scivolare l’Europa verso terre incognite”, dove “hic sunt leones”. La cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha le chiavi dell’intesa, è più incoraggiante: “Il rischio è sostenibile”, scrive in una lettera ai partner. E gli Stati Uniti rinnovano il loro appello: “Europei, fate in fretta”. Il presidente dell’eurogruppo, il lussemburghese Jean Claude Juncker, risponde che il fondo salva Stati è una risposta al rischio di contagio all’Italia.

A un certo punto, rimbalza a Bruxelles persino la voce che Berlusconi non andrà a Bruxelles, per evitare, si dice, di farsi sbertucciare dal duo Merkozy, pentito dei sorrisini di scherno di domenica, ma a rischio recidiva. Poi, Palazzo Chigi conferma che il premier sarà al Vertice per illustrare le iniziative che il governo intende prendere per rilanciare la crescita riducendo il debito. Per tutta la giornata, la lettera da recapitare ai partner viene limata a palazzo Grazioli, presente pure Tremonti, con Pdl e Lega a discutere sul nodo delle pensioni.

L’Ue s’aspetta “impegni specifici sulle misure per la crescita che l’Italia vuole adottare”, fa dire il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. E l’Esecutivo di Bruxelles dichiara fiducia: l’Italia farà quanto ha promesso a più riprese, quando il Cavaliere si presentò a Bruxelles e a Strasburgo, per illustrare la manovra ai vertici delle istituzioni europee (una inutile sceneggiata, messa su per evitare di doversi presentare in tribunale a Milano), e ancora domenica, durante l’incontro con i leader francese e tedesco.

Bruxelles giudica il governo italiano “determinato” e pure pronto ad “accelerare”, se necessario. Sapessero quanto accade a Palazzo Grazioli, quelli del Berlaymont, il palazzo a stella di cristallo della Commissione, sarebbero meno tranquilli. Barroso nota che “l’Italia ha un’economia molto forte ed è capace di innovazione”: chissà come ha fatto a ridursi così. Il responsabile dell’economia Olli Rehn ritiene il percorso di risanamento dei conti pubblici delineato dall’Italia “appropriato”, ma da inserire in un “orizzonte temporale chiaro”.

Al duo Merkozy, come a Barroso e al presidente del Vertice Herman Van Rompuy, Berlusconi ha promesso una comunicazione dettagliata, ricorda la portavoce della Commissione Pia Ahrenkilde: Bruxelles si aspetta “impegni su riforme strutturali e crescita”, perché –dice Rehn- “il consolidamento dei conti deve essere parallelo alla crescita”. Se il Cavaliere porterà pecette e condoni, si beccherà, lui che si vanta di non essere mai stato bocciato, un bel 4 sul compito a casa mal fatto.

La via giusta gliela indica, ancora una volta, Napolitano: gli annunci delle misure per lo sviluppo devono essere “definiti”: “Dobbiamo compiere tutte le scelte necessarie per rendere più credibile l’impegno ad abbattere il debito e rilanciare la crescita”. Così, il no dell’Italia ai commissariamenti e alla ‘diplomazia del sogghigno’ sarà fondato.

L’Italia non è l’unico Paese a presentarsi a Bruxelles in difficoltà. Persino il premier britannico Cameron, che è fuori dall’euro, ci arriva ‘zoppo’: i Comuni bocciano, come chiedeva il governo, un referendum sull’Ue, ma la coalizione di centro-destra andrebbe sotto senza il voto dei laburisti. La fronda fra i tories è altissima: 80 e più votano contro Cameron e il governo.

martedì 25 ottobre 2011

Italia-Germania: Frau Angela ci serve il conto con un sorrisino

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/10/2011

Quei due non si sono proprio mai presi. Eppure, la storia di Italia e Germania è fitta di leader che se la sono intesa bene (pensiamo solo al dopoguerra, sia ben chiaro): De Gasperi e Adenauer, anche fisicamente simili, determinati a ricostruire i loro Paesi e a costruire insieme un’Europa di pace; Andreotti e Kohl, loro fisicamente diversissimi, ma protagonisti insieme di una stagione che portò l’Europa fuori dal comunismo e ne accelerò l’integrazione –tedesca e continentale, con il Trattato di Maastricht- (e neppure una battuta di Andreotti contro l’unificazione della Germania rovinò il rapporto); Prodi e Schroeder, insieme alla nascita dell’euro e nella stagione dell’allargamento dell’Ue -sarebbero stati insieme anche nel no all’invasione dell’Iraq, ma lì, in Italia, comandava già Berlusconi, che scelse di stare con Bush-.

Invece, quei due, Berlusconi e la Merkel, non si sono mai presi. Eppure, l’Italia 2011, anno terzo della crisi dei mutui fondiari, non è così forte e solida da fare spallucce all’appoggio della Germania. Ma vaglielo a fare capire a Mr B, che le intese si creano sui fatti e la sostanza e non sulle battute e le gags. Non c’era lui, al Vertice del G8 di Heiligendamm, nel 2007, quando Angela, presidente di turno, si sentì fare sulle spalle il ‘popi-popi’ dal presidente Bush: lei sussultò, visibilmente sorpresa e non divertita.

Ma a quel gesto sembrò ispirarsi il siparietto con cui Mr B accolse a Trieste, il 19 novembre 2008, quella che, a quanto si sa, non era ancora diventata, nelle chiacchiere con gli amichetti suoi, la ‘culona inchiavabile”: niente corna, esercizio goliardico d’una foto di gruppo fra leader, ma il gioco del nascondino. Al vertice italo-tedesco, il Cavaliere si cela, a piazza Unità d’Italia, dietro un pennone portabandiera e, all’arrivo della cancelliera, ne sbuca fuori esclamando “Cucù. Sono qui”. La Merkel, allarga le braccia e risponde con un laconico e desolato: “Silvio”.

Poi c’è la gaffe in trasferta, il Germania: una telefonata, ufficialmente al premier turco Erdogan, induce Berlusconi a ritardare l’arrivo a una cerimonia sul Reno che apre la seconda giornata del vertice Nato, il 4 aprile 2009. Sulla spianata del Ponte dell'Europa a Kehl, la Merkel accoglie l'uno dopo l'altro i capi di Stato e di governo. Ma il Cavaliere, sceso dall’auto, si ferma a parlare al cellulare, chiedendo a gesti ad Angela di attendere un attimo. La cancelliera un po’ lo osserva imbarazzata, poi se ne va e avvia i lavori senza di lui.

Certo, nel rapporto che non funziona, anche lei ha le sue responsabilità: non solo non apprezza le battute e non sta troppo volentieri agli scherzi, ma è proprio tedesca. Cioè, se uno le dice che farà una cosa, poi va a vedere se è stata davvero fatta. Se no, gliene chiede ragione. Sotto la rigidità della Merkel, c’è un po’ di diffidenza teutonica nei nostri confronti: senza risalire all’8 Settembre, una copertina di der Spiegel 1977 sintetizzava l’Italia con una pistola su un piatto di spaghetti, condensato di stereotipi da Anni di Piombo. Storia passata, uno direbbe. Ma il giochino venne aggiornato e reiterato nel 2007. E il 18 luglio, Der Spiegel s’è ripetuto: in uno speciale dal titolo ‘Basta’, il settimanale analizzava "il declino del Paese più bello al mondo"; sulla copertina, Berlusconi in versione gondoliere con ai piedi due sirenette e al centro dell'Italia un piatto di spaghetti con una pistola.

E non era ancora saltata fuori la storia della ‘culona inchiavabile’, valsa al Cavaliere, una bella sequela di pesanti commenti crucchi, poca ironia, molte mazzate. Certo, il sorrisino d’intesa, domenica, tra Angela e il suo partner di direttorio Nicolas Sarkozy non era proprio il massimo della raffinatezza diplomatica. E pure la pezza messaci fa un po’ (sor)ridere: la risatina nasceva dall’incertezza su chi dovesse rispondere sull’Italia, stile ‘Vai avanti tu, che a me vien da ridire’. O da piangere, se sei italiano: perché ci toccano le battute di lui e il sarcasmo di lei.

Italia/Europa: sovranità a rischio?, l'Ue è nostra, riprendiamocela

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/10/2011

Sul pennone di Palazzo Chigi sventola la bandiera dell’orgoglio nazionale: guai a chi (sor)ride di noi, Sarkozy o Merkel che siano. Ma, domani, a Bruxelles, che cosa andrà a raccontare il Cavaliere, dopo avere promesso mari –riduzione del debito- e monti –innalzamento dell’età delle pensioni-? Un pastrocchio di condoni e di mezze misure: né quel che vuole né quel che deve fare, ma quel che può fare perché il ‘governo dei comprati’ non si squagli.

Se vuole affermare la propria sovranità, le cose che servono per restare nell’euro e nell’Ue l’Italia deve farle per scelta propria, non perché glielo dicono con scherno, che è peggio che con imperio, Francia e Germania o anche il Consiglio europeo, l’aeropago dei leader dei 27. Perché l’Unione europea è un progetto nostro, italiano come francese e tedesco e dei Paesi del Benelux: ne fummo ispiratori e fondatori.

Fra le due vie più battute in queste ore, quella dello spirito patriottardo (giù le mani dalla nostra sovranità) e quella da ‘muoia Sansone con tutti i filistei’ (giù Berlusconi, anche se con lui va giù il Paese), la strada maestra è tutta un’altra: un’Italia europea per scelta e per volontà, dove la riduzione del debito e le politiche di sviluppo, l’innalzamento dell’età pensionabile e l’utilizzo efficace e pronto dei fondi europei sono scelte partecipi e volute.

Certo, i comportamenti grotteschi e paradossali del premier Berlusconi, che chiede pubblicamente a Bruxelles che la riforma delle pensioni gli venga imposta dall’Ue, perché lui non riesce a farla, o che annuncia a raffica programmi che poi neppure presenta, comportano un rischio di perdita di sovranità implicito: come è avvenuto per la Grecia, se conti frottole e poi non riesci e mettere in ordine casa tua, Bruxelles ti aiuta, ma devi fare a modo suo: “lavoreremo con l’Italia mano nella mano”, dice Van Rompuy, come si fa coi bambini.

L’Italia non è ancora la Grecia e mai lo sarà: è un Paese dove le famiglie hanno risparmi superiori al debito pubblico; e con un’industria manifatturiera solida. Eppure, il mix letale di un premier senza credibilità e di un governo senza nerbo consegna fette di sovranità all’Ue, e quindi oggi al duo franco-tedesco, e alla Bce (dove, ora, c’è un italiano che tutti rispettano, Mario Draghi).

La risposta è più Italia in Europa: decidere, e fare, insieme, come facemmo nel ’57, nel ’91, nel 2001. Quando l’Unione si fa, noi ci siamo. Almeno, finora è stato così.

domenica 23 ottobre 2011

Libia: Gheddafi ucciso, la fine dei satrapi, dubbi e incognite

Scritto per L'Indro, quotidiano online

Se le foto non ci sono, c’è chi le reclama: dopo l’eliminazione di Osama bin Laden, il primo maggio, media e opinione pubblica internazionale contestarono agli Stati Uniti la carenza di documentazione fotografica. Se ci sono, c’è chi ne deplora la pubblicazione: le immagini di Muammar Gheddafi prima colpito a morte e poi ormai cadavere, vilipeso e trascinato senza alcuna ‘pietas’, appaiono a molti un’ostentata esibizione della miseria umana, ma sono anche, indubitabilmente, un documento storico. La fine tragica e cruenta del tiranno è forse inevitabile, come fu per Mussolini e Hitler, per Ceausescu e Saddam Hussein: un modo per liberare il popolo dalla fascinazione che ne subisce (e, magari, dalle sudditanze che gli restano).

Il dittatore è morto, viva la Libia. L’uccisione di Gheddafi chiude una fase della partecipazione internazionale al conflitto libico e lascia gli insorti di ieri che sono i vincitori di oggi alle prese con i problemi della riconciliazione, della ricostruzione e della definizione dei nuovi assetti istituzionali e politici. La fine del conflitto, che il Consiglio atlantico si appresta a sancire, è già stata annunciata nelle prime reazioni dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ky-moon, che chiede di “fermare i combattimenti” innescati da una risoluzione delle Nazioni Unite il cui mandato –proteggere i civili- è stato molto dilatato dai raid Nato, e pure dal presidente statunitense Barack Obama.

Le circostanze dell’eliminazione del colonnello che, per 42 anni, ha esercitato in Libia un potere assoluto sono tuttora incerte e confuse: probabilmente, la loro ricostruzione resterà, per anni, oggetto di indagini e rivelazioni, come sta già accadendo per l’eliminazione di bin Laden. Alcuni punti apparentemente fermi appaiono, però, simbolici: il rais è stato ucciso a Sirte, la città dov’era nato e la sua roccaforte; ed è stato scovato in una sorta di fogna, una condotta dell’acqua, dove aveva cercato un ultimo rifugio, lui che definiva “ratti” i ribelli. E’ morto in Libia, come aveva più volte detto di volere fare, ma non combattendo, bensì scappando e, all’ultimo, implorando una clemenza (“Non sparate”) che non gli è stata concessa.

La sua fine non è stata gloriosa: nulla di eroico, in quella morte. Ma nulla di eroico, neppure, nella festa rozza e barbara sul suo cadavere vilipeso da una folla in festa. Se ci indignarono negli Anni Novanta le immagini del soldato americano trascinato per le strade di Mogadiscio, dopo essere stato ucciso, così ci devono indignare pure queste.

Il regime del colonnello finisce nel sangue: che Gheddafi, almeno, possa esserne l’ultima vittima. Dopo 42 anni di dittatura, dal suo colpo di Stato e dopo otto mesi d’insurrezione e di conflitto, la Libia, ora, ha in qualche modo chiuso con il suo passato e può guardare al suo futuro: Il Paese deve restare unito, ma deve muoversi verso la riconciliazione e il rinnovamento democratico, dicono quasi all’unisono i commenti dal Mondo, nella consapevolezza che le incognite sul futuro sono molte e pesanti: la coalizione degli insorti è traversata da divisioni tribali, religiose, sociali, politiche.

Con Gheddafi dopo Mubarak e Ben Ali, la primavera araba spazza via le illusioni di immortalità dei vecchi dittatori. Ma non ha ancora sostituito ad essi certezze democratiche.

sabato 22 ottobre 2011

Libia: Gheddafi ucciso, più facile ammazzarlo che seppellirlo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/10/2011

Trovarlo, è stato difficile: ci sono voluti otto mesi d’insurrezione e combattimenti. Ammazzarlo è stato facile: roba di minuti, pochi. Seppellirlo è un bel problema. All’atto di ucciderlo, non c’era nessuno a intromettersi: fotografi e cameramen, sì, ma senza di loro la storia non si fa più. Adesso, invece, sotto gli occhi del Mondo, le cose bisogna farle come dio comanda (e che sia Allah non semplifica per nulla le cose).

Le circostanze della morte di Muammar Gheddafi sono già divenute un caso internazionale. Secondo il medico legale che ha esaminato il cadavere del colonnello dittatore, il decesso è sopravvenuto per un colpo d’arma da fuoco alla testa: un colpo da esecuzione, vien da pensare. Amnesty International, chiede un’indagine: se Gheddafi è stato ucciso a freddo, dopo la cattura, questo è “un crimine di guerra”, i cui responsabili andranno giudicati.

Il rais alla macchia sarebbe stato catturato vivo dai ribelli e sarebbe poi morto, non è chiaro se per le ferite già subite o perché colpito di nuovo. Il dottor Ibrahim Tika dice ad Al Arabiya: “Un proiettile è penetrato nell’intestino. Un altro è penetrato nella testa e ne è fuoriuscito”. Il dottor Tika ha pure esaminato la salma di Mutassim, il figlio di Gheddafi ucciso dopo il padre. Di un altro figlio, Saif al Islam, il Cnt annuncia la cattura: era l’ultimo di cui s’ignorava la sorte.

Il cadavere, custodito e fotografato a Misurata, costituisce, adesso, un impiccio: meno grosso, certo, di quanto sarebbe stato un Gheddafi prigioniero e ben vivo, perché di questa salma prima o poi ci si libererà. Ma si tratta, appunto, di decidere come e dove seppellirlo. Nell’attesa, il corpo è in una cella frigorifera di un vecchio mercato: lì l’ha visto un giornalista della Reuters, insieme al capo del Cnt Jibril, famiglie con bambini, una scolaresca delle medie.

Gli americani con Osama bin Laden l’avevano pensata bene: sepoltura in mare, dove nessuno mai potrà andare a ripescarne il corpo per farne oggetto di venerazione. Forzando la tradizione islamica, che vuole che la sepoltura avvenga nel giro di 24 ore, le autorità libiche tergiversano. Ali Tarhouni, ministro del petrolio, uno che non c’entra nulla, annuncia: “Lo terremo nel congelatore fin quando tutti sappiano che è morto”. Come se ci fosse ancora qualcuno, in Libia e altrove, che lo ignori.

Poi, l’indicazione viene corretta: la sepoltura avverrà entro oggi, forse è già avvenuta, ma se ignora se a Sirte, a Misurata o altrove. Abdul-Salam Eleiwa, comandante degli insorti a Misurata, assicura che i riti e i precetti dell’Islam saranno rispettati: il corpo sarà lavato e trattato con dignità. Contatti sarebbero in corso con la tribù di Gheddafi, l’unico soggetto legato al defunto che possa farsi carico delle esequie, in assenza di familiari, tutti o fuggiti o uccisi, di altri parenti o di vicini. Se gli anziani di Qaddafia non riconoscessero il rais morto come loro membro, saranno gli insorti a provvedere alla sepoltura: con il dittatore, saranno inumati gli armati che erano con lui e che sono stati uccisi nello scontro.

Nel tempo di un funerale, l’Alleanza atlantica liquida una guerra: il comandante supremo Nato, l’ammiraglio James Stavridis, chiede “la fine della missione” in Libia al Consiglio atlantico riunitosi al quartier generale di Bruxelles. L’ammiraglio lo anticipa sulla sua pagina di Facebook: ''24 ore straordinarie in Libia –scriveStavridis nel suo post - … raccomando al Consiglio Atlantico la fine di questa missione. E’ un buon giorno per la Nato. E un grande giorno per il popolo libico”.

Un giorno che Obama sceglie per dichiarare finita la guerra in Iraq: otto anni e mezzo là, otto mesi e basta qui in Libia. Solo i russi, sempre contrari all’intervento contro Gheddafi, fanno i guastafeste: il ministro degli esteri Serguei Lavrov nota che il convoglio del colonnello non minacciava nessuno, quando la Nato l’ha attaccato. Un’azione illegittima, dunque. E un crimine di guerra l’uccisione.

venerdì 21 ottobre 2011

Libia: Gheddafi ucciso, meglio nella tomba che alla sbarra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/10/2011

Meglio nella tomba che alla sbarra: il filo rosso di un pensiero inconfessabile cuce fra di loro le dichiarazioni un po’ rituali che accompagnano la notizia dell’uccisione di Muammar Gheddafi, colonnello dittatore, prima nemico bandito, poi amico accettato di un Occidente distratto nella difesa, in Libia, dei diritti dell’uomo e dei valori della democrazia, perché petrolio e gas, lì, contavano di più. Fatta salva la pietas sempre concessa a una persona morta, c’è, in molti commenti, la convinzione che la fine della guerra è più vicina e il senso d’una sorta di ‘missione compiuta’, anche se nessuno, nemmeno l’Onu, aveva affidato all’Alleanza atlantica il compito di scovare e uccidere il leader libico.

Il sollievo nasce anche dalla considerazione che un Gheddafi vivo sarebbe stato ingombrante per i nuovi leader libici e per i suoi nemici delle ultime settimane, che furono suoi amici almeno negli ultimi dieci anni, dopo il suo sdoganamento dal’inferno dei protettori del terrorismo internazionale e la sua collocazione nel limbo di quelli con cui fai affari cercando, però, di averci poco a che fare. Naturalmente, con una gradualità d’atteggiamenti: dal distacco americano alle strette di mano francesi; dal baratto britannico del ‘boia di Lockerbie’ con un po’ di commesse fino al bacio dell’anello italico.

Ve lo immaginate un Gheddafi da custodire prigioniero prima e da chiamare alla sbarra poi, per rendere conto dei crimini suoi e del suo regime? Ci sarebbe stato da litigare fra i nuovi libici e i loro alleati: i primi volevano processarlo ‘in casa’; i secondi fare valere il mandato di cattura della Corte dell’Aja, spiccato per crimini contro l’umanità. Quali che fossero i giudici, libici o, a maggior ragione, internazionali, il Colonnello poteva denunciare la combutta con il suo regime di molti degli attuali capi ribelli, oppure chiamare a rendere conto della loro amicizia nei suoi confronti i leader che lo avevano sdoganato, Bush jr e Blair, o quelli che gli avevano lasciato piantare la sua tenda nei loro giardini, Berlusconi e Sarkozy, senza parlare di una miriade di signorotti africani e del Terzo Mondo. Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss, dice in un tweet: “Un’esecuzione di Gheddafi sembra probabile e pure logica: un processo internazionale sarebbe stato troppo imbarazzante”.

Un’Italia di complici – E, invece, Berlusconi può ora cavarsela con un classico, ma sbrigativo e, soprattutto, fuori luogo, “Sic transit gloria mundi”, lui che di Gheddafi aveva fatto un grande amico, abbracci, genuflessioni e processioni di vergini ai corsi d’Islam del rais. Il latino vale al Cavaliere uno sberleffo di Famiglia Cristiana, “more solito”: “da uno che gli ha baciato l’anello non potevamo aspettarci che una glorificazione in morte”. Una battuta destinata a restare nell’antologia delle frasi celebri e infelici di Mr B, accanto a quella “non gli ho ancora telefonato per non disturbarlo” detta all’inizio dell’insurrezione. Fortuna che, come al solito, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci mette dignità e misura, “s’è chiusa una pagina drammatica”.

Il ministro degli esteri Franco Frattini si tiene più sull’usato sicuro, “L’uscita di scena di Gheddafi –da apprezzare l’under statement tutto britannico, ndr- è una grande vittoria del popolo libico”; e sotto a ricordare il ruolo dell’Italia nel conflitto, così come fa il ministro della difesa Ignazio La Russa, che attribuisce al fu dittatore la colpa, anzi l’invenzione, “del risentimento libico per il colonialismo italiano”, con tutto il bene che gli abbiamo fatto a quella brava gente. Il leader leghista Bossi va al sodo: “adesso subito a casa i libici clandestini”. E l’eurodeputato Mario Borghezio incastona nella tiara delle banalità la perla di un “onore al templare di Allah”.

Se Gheddafi non c’è più, l’intreccio di affari tra Italia e Libia resta: il petrolio e il gas dell’Eni, che ha già provveduto da sé a metterseli al sicuro, le partecipazioni in Unicredit, Finmeccanica, Fiat, Juventus e molte altre società, i soldi depositati nelle nostre banche, le oltre cento aziende italiane che operano laggiù. Nessuno può dire che piega prenderà la nuova Libia; ma noi sappiamo per cento che ne saremo amici, anzi che ne vorremo essere i migliori amici.

Un Mondo di spettatori - Mentre la ricostruzione delle circostanze dell’uccisione di Gheddafi s’intreccia già con intuizioni e invenzioni – ne avremo per decenni, come per l’uccisione di Osama bin Laden-, sul web parte il dibattito sulla pubblicazione delle immagini della fine del dittatore: foto da voyeurs dell’orrore o documenti storici? E, intanto, le reazioni s’inanellano. Prima del presidente Obama, parla il segretario di Stato Clinton, che solo martedì era a Tripoli: “La fine di Gheddafi non significa, di per sé, la fine delle violenze”.

Il premier britannico Cameron dedica un pensiero alle vittime del dittatore; il presidente francese Sarkozy saluta “l’inizio di un nuovo periodo di democrazia e di libertà”; entrambi sono “orgogliosi” del ruolo giocato dal loro Paese nella vicenda libica. I leader dell’Ue e della Nato sono su lunghezze d’onda analoghe –e l’Alleanza valuta se e quando dichiarare conclusa la missione-. Il presidente russo Medvedev auspica, ora, “la pace”. E il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon chiede di “fermare i combattimenti” e dice che “non è tempo di vendetta, ma di riconciliazione”. Che gli alleati, e i libici, lo ascoltino.

giovedì 20 ottobre 2011

SPIGOLI: Lavitola sull'uscio, tra guaiti, latrati e ringhii

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/10/2011

Per fortuna che ci sono i cani, che, a dichiararci sopra, si rischia poco, o nulla. Cosi' il ministro degli esteri Franco Frattini, su carta intestata della Farnesina, esprime ‘expressis verbis’ “apprezzamento per l’approvazione della dichiarazione scritta del Parlanmento europeo sulla protezione e gestione dei cani nell’Ue”: ecco come fare sentire la propria voce in Europa, questo mica e' un guaito, è un latrato, che il ministro lancia “certo di farsi interprete del sentimento degli italiani”. Certo, uno puo' pensare che meglio sarebbe se il ministro, di tale sentimento, si facesse interprete su altri fronti, ad esempio quello dei faccendieri. E, invece, li' Frattini ‘the messenger’ colleziona, nelle ultime 48 ore, una serie di scivolini: una frana, vien da dire. Su Canale 5, nella Telefonata con Maurizio Belpietro, che li' si gioca in casa, afferma che l'inquisito e pure ricercato Lavitola “mai ha partecipato a incontri istituzionali”. Il ministro si riferisce a intercettazioni e immagini che collocano l'ormai Valterino nazionale alla Farnesina durante una visita del collega albanese Ilir Meta. Frattini rivendica a merito di non averlo fatto partecipare all'incontro nel suo studio , come pure Lavitola avrebbe voluto, ma di averlo tenuto in anticamera, grazie anche alla fermezza di una segretaria, per presentarlo a Meta a colloquio ufficiale concluso. Poi, ai giornalisti che l’incalzano su una vicenda appesa al sottile confine tra lo studio e l’anticamera, il ministro aggiunge: “All’epoca, nessuno si immaginava o sapeva minimamente chi fosse Lavitola per quanto riguarda affari illeciti e indagini”. Ed è pur vero che il buon Franco aveva modelli fuorvianti davanti a sé: il Cavaliere Premier, ad esempio, gli telefona, lo frequenta e se lo porta appresso fino a Panama. Infine, salta di nuovo fuori la carta intestata della Farnesina: poche tighe icastiche, più di quelle sui cani, "mai a incontri istituzionali sono stati presenti estranei alle delegazioni ufficiali". E la foto dove Valterino fa capolino non è stata scattata nello studio del ministro, me nella Sala Riunioni, dove ci sono le bandiere. Diamo per buono che tutto quello che Frattini e la Farnesina dicono sia vero, anche se Bocchino accusa il ministro di mentire e Briguglio, Donadi, Nencini e altri gli chiedono di dimettersi (come Liam Fox, il responsabile della difesa britannico fattosi da parte per un’amicizia impropria). Ma le parole stesse del ministro e del Ministero sono ingombranti e inquietanti: fosse pure l'anticamera, ma che ci faceva li' uno come Lavitola, di cui, per tua stessa ammissione, non sai nulla? Da tutta questa storia, ne esce bene solo la segretaria: un cerbero che ringhia, altro che latrare.

mercoledì 19 ottobre 2011

SPIGOLI: Libia, Hillary a Tripoli da Malta, Frattini respira

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/10/2011

Hillary Clinton porta a Tripoli il sostegno dell’Amministrazione Obama al governo dei ribelli che sono riusciti a rovesciare il regime di Muammar Gheddafi: le agenzie internazionali parlano di una visita a sorpresa, anche se il progetto era stato già svelato la settimana scorsa. Ma, invece di arrivarci da Napoli, la Clinton, alla fine, sbarca a Tripoli da Malta: due piccioni con una fava, evita all’Italia l’umiliazione d’un transito senza salamelecchi del premier e dell’omologo; e riporta l’isola del Mediterraneo ai fasti del Vertice delle Navi, nel 1989, quando George Bush, quello vero, il padre, e Mikhail Gorbaciov s’incontrarono su unità alla fonda di fronte all’isola. Ai nuovi leader libici, ancora alla caccia del colonnello dittatore, che si cela nel deserto come uno scorpione, il segretario di Stato assicura protezione militare americana e alleata fino alla cattura di Gheddafi e fin quando lui e i suoi accoliti “costituiranno una minaccia” -è giorno di battaglia alla Sirte-. E, per fare buon peso, Hillary porta in dono un po’ di aiuti e di programmi d’assistenza e di cooperazione. Ma senza fretta: in Libia, Washington lascia che a fare le corse siano Parigi, Londra e Roma. Per non restare indietro, Frattini incontra le Pmi italiane attive in Libia e assicura che le autorità di Tripoli hanno confermato tutti i contratti preesistenti.

martedì 18 ottobre 2011

SPIGOLI: il Cavaliere e i blackbloc singolarità italiane

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/10/2011

Anche i blackbloc, non solo il Cavaliere. La singolarità italiana in Europa non si riduce più a un leader incapace di vedere che la realtà internazionale “rischia di travolgerci e di trasformare l’Italia da Stato fondatore a Stato affondatore dell’Unione europea” –parole sul Corriere della Sera di Mario Monti-; o a uno scontro di personalità, come suggerisce Les Echos, contrapponendo Napolitano a Berlusconi. Le violenze di sabato a Roma, in occasione della protesta degli indignati in tutto il Mondo, suscitano interrogativi e inquietudini nella stampa estera, unanime nel sottolineare come solo in Italia, di fatto, la contestazione pacifica e legittima sia stata sopraffatta da esagitati blackblocs. Gli incidenti inducono la Francia a sospendere, fino al Vertice del G20 di Cannes ai primi di novembre, gli accordi sulla libera circolazione e a reintrodurre i controlli alle frontiere con l’Italia. Cronache e conseguenze delle devastazioni stanno, con grande rilievo, su tutti i media internazionali: FT evidenzia fin dal titolo il caso Italia, “Violenze a Roma, mentre la protesta diventa globale”, mentre Bbc ed El Pais, secondo cui “Pasolini oggi sarebbe un indignato” –certamente, ma come molti altri lo sarebbero e lo sono-, il Guardian e Nouvel Obs fanno i conti degli arresti e dei danni. Invece, il NYT s’interroga sull’efficacia dell’atteggiamento delle forze dell’ordine (che, in America, almeno quanto a fermi preventivi, ci vanno giù più pesanti); e Time e Newsweek raccontano entrambi sul sito come la manifestazione sia stata “dirottata”. Il WSJ, infine, torna sulla questione della leadership: “Molti italiani dicono che i tagli fatti da Berlusconi pesano ingiustamente sui giovani” (e magari pure sugli anziani).

domenica 16 ottobre 2011

G20: i Grandi aspettano che l'Europa se la cavi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/10/2011

Nel giorno della prima protesta planetaria dei giovani indignati, senza lavoro e senza futuro, che a Roma squadre di facinorosi trasformano in guerriglia urbana, i ministri delle finanze del G20, riuniti a Parigi, lasciano le castagne della crisi sul fuoco dell’Europa: i Grandi sono pronti a contribuire ad arginare la deriva del debito, perché vogliono riprendere il cammino della crescita, ma aspettano che, prima, l’Ue e soprattutto i Paesi dell’euro prendano in fretta le decisioni per trarsi d’impiccio da soli.

A Parigi, Il governatore di BankItalia Mario Draghi, in bilico tra l’attuale incarico e il prossimo di presidente della Banca centrale europea, dà ragione agli indignati che contestano la finanza, ma poi commenta “che peccato!” le notizie degli incidenti; il segretario al tesoro americano Timothy Geithner dice di comprendere i giovani, ma le violenze di Roma rischiano di alienare la simpatia dei signori della finanza e di criminalizzare un intero movimento.

Gli appuntamenti che contano sono il Vertice europeo di domenica 23 –doveva svolgersi domani, è slittato di una settimana- e il Vertice del G20 a Cannes il 3 novembre. A Bruxelles, l’ordine del giorno prevede il varo della versione rinforzata del fondo ‘salva Stati’, una spinta alla Grecia per evitarne il fallimento e la creazione d’uno strumento per la ricapitalizzazione delle banche.

A Cannes, si discuterà se aumentare i mezzi finanziari del Fondo monetario internazionale (Fmi), per consentirgli di sostenere l’Europa se la crisi dovesse estendersi a grosse economie della zona euro come l’Italia e la Spagna, colpite a raffica, negli ultimi giorni, dalle ‘sanzioni’ delle agenzie di rating. Ma prima di metterci del loro gli Usa, molto riluttanti, e la Cina, Brasile e Giappone e gli altri vogliono vedere se e come l’Europa fa la sua parte: di assegni in bianco all’Ue, non se ne parla.

Per il ministro tedesco Wolfgang Schauble, gli europei sono “consci delle loro responsabilità”. E giudizi analoghi vengono dai suoi colleghi, fra cui l’italiano Giulio Tremonti. Gli americani annacquano le loro critiche, dopo una telefonata del presidente Obama alla cancelliera Merkel. Ma altri ministri sono severi: “Gli europei la tirano in lungo da un anno”, dice il sudafricano Pravin Gordhan (e lo pensano in molti).

La crisi dell’euro tiene la Cina al riparo delle critiche allo yuan, che resta sottovalutato. Ma chi gliela canta a Pechino, adesso che può strozzare Washington e asfissiare Bruxelles? Françoise Lagarde prova a mettere una pulce nell’orecchio ai cinesi: “La crisi –dice- minaccia ormai pure gli emergenti”.

sabato 15 ottobre 2011

Italia-Usa: amb. Salleo, senza hard e pure senza soft power

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/10/2011

“Chi ha le idee migliori vince: la lezione di Steve Jobs vale anche nella politica internazionale”. E chi non ne ha resta al palo. Ferdinando Salleo, uno dei diplomatici italiani dalla carriera più densa di posti eccellenti, ambasciatore al momento del passaggio dall’Urss alla Russia e negli Stati Uniti e segretario generale della Farnesina, affronta così il tema del calo di influenza dell’Italia nel Mondo.

“In politica internazionale il peso di ciascun Paese dipende da due fattori: l’hard power, che è dato dalla potenza militare, la forza economica, la capacità di intervenire in situazioni d’emergenza; e il soft power, che è la capacità di proiettare verso gli altri l’immagine di una società giusta, ordinata, prospera, desiderabile. In un Mondo dominato dai media elettronici, oggi si percepiscono ovunque le immagini che una società genera”. E se proietta immagini negative, come accade oggi, in questo crepuscolo berlusconiano, tutti le colgono subito.

L’Italia era fra le medie potenze per hard power, ma aveva molto soft power. Non è più così?

“Oggi, la proiezione internazionale dell’Italia, la percezione, giusta o sbagliata che sia, non risponde ai criteri del soft power e finisce con l’incidere pure sull’hard power: l’economia è in crisi, ma restiamo la terza potenza della zona euro, la quarta dell’Ue e abbiamo ancora una capacità d’export; eppure, è considerata a livello internazionale fiacca, debole, stagnante. Il nostro sistema bancario è più sano di tanti altri, ma la capacità di farlo valere è modesta. Ci salvano l’arte, i beni culturali, fin quando non crollano la Casa dei Gladiatori o la Domus Aurea”.

Si può ridurre tutto a un problema d’immagine?

“Emaniamo pure una percezione di disordine e un’attendibilità da verificare caso per caso. Perché un elemento importante del soft power è la coerenza dei comportamenti: e lì paghiamo oscillazioni ed esitazioni, o ambiguità. Nel caso della Libia, dall’osanna al crucifige,; e poi aerei sì, ma solo per operazioni di sorveglianza: tutto questo si sconta. Dedichiamo enormi sforzi alle missioni di pace, ma la loro dispersione non ci vale un plus politico per contare sul piano internazionale. E abbiamo praticamente soppresso uno dei punti di forza della presenza all’estero, l’aiuto allo sviluppo, selvaggiamente tagliato, nonostante sua strumento di politica internazionale di primissima portata, sia come hard power che come soft power”.

Media potenza in declino di peso politico, quindi?

“Il peso politico si esercita facendo politica, proponendo idee e perseguendone l’attuazione, cercando soluzioni condivisibili ai problemi internazionali. In passato, l’Italia nei Balcani ha proposto soluzioni, è andata tra i primi nei nuovi Paesi dell’Europa centro-orientale. Furono operazioni di successo”.

Ma, oggi, in Europa come in America ci ascoltano di meno?

“In Europa, siamo fra i padri fondatori: la conferenza di Messina portò ai Trattati di Roma. Senza vanterie, possiamo dire di avere avuto un’idea vincente. Oggi, dovremmo avere un’idea intorno a cui coagulare gli altri Paesi: lamentarsi del direttorio franco-tedesco economico-monetario o di quello franco-britannico nell’Alleanza atlantica non basta; bisogna avere idee migliori. L’Europa è il nostro maggiore patrimonio: aggrappiamoci alle Alpi per non cadere nel Mediterraneo, diceva Ugo La Malfa. E l’Europa è pure la nostra garanzia, perché se contiamo a Bruxelles contiamo di più a Washington. E, se si è ascoltati a Washington, si è pure più ascoltati a Bruxelles”.

Italia-Usa: Hillary passa, ma non vede nè Mr B nè Frattini

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/10/2011

Un segretario di Stato americano in Italia (quasi) in incognito: missioni segrete a parte, eventuali e improbabili, forse non era mai successo nella storia della Repubblica; e, magari, non succederà, perché il clamore e il malessere suscitato dalle notizie filtrate da Washington nelle ultime ore lasciano ancora spazio a correzioni di rotta. A quanto risulta, Hillary Rodham Clinton, ex first lady ai tempi di Bill alla Casa Bianca, 1993/2000, ed ex candidata 2008 alla nomination democratica, attualmente segretario di Stato dell’Amministrazione Obama, verrà in Italia la prossima settimana, ma non farà tappa a Roma e non avrà incontri con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e neppure con il ministro degli esteri Franco Frattini.

La Clinton scenderà a Napoli e passerà lì la notte di lunedì: magari, è curiosa di vedere la statuetta sua accanto a quella dell’hacker per antonomasia Julian Assange nel presepe di San Gregorio Armeno. Il mattino dopo, incontrerà i militari in servizio alla base navale di Capodichino, un’installazione Usa e Nato. Nel pomeriggio volerà a Tripoli, per la prima visita nella capitale libica ‘liberata’ dal regime di Muammar Gheddafi: Hillary ci arriva con comodo, dopo che lì sono già passati Nicolas Sarkozy e David Cameron, il ministro Frattini e vari altri leader europei ed arabi, confermando la relativa distanza della diplomazia statunitense dalla crisi libica.

A termine di protocollo, la Clinton non ha l’obbligo di incontri in Italia: la sua non è una visita al nostro Paese, ma a una base militare americana e alleata, sulla via di un Paese terzo. Ma la prassi è ben diversa: quando un segretario di Stato americano è in Italia, un incontro, se non altro di cortesia, con il suo collega italiano c’è praticamente sempre; e spesso c’è pure un incontro, per quanto breve e informale, con il presidente del Consiglio. Quello attualeo, poi, ha sempre tenuto particolarmente a celebrare i riti dell’amicizia tra Italia e Stati Uniti.

Secondo Vanity Fair, la Farnesina s’è data per un po’ da fare perché il ministro Frattini potesse almeno partecipare al saluto ai militari alla base Nato. Ma, dopo un po’ di pestare nel mortaio a vuoto, gli sforzi cominciavano ad apparire fuori luogo. Anche se il fatto che la notizia sia uscita può ora innescare una dinamica diversa.

Nell’interpretazione diffusa fra i siti che riprendono la notizia, la condotta della Clinton è indice di quanto l’America di Obama cerchi di tenere a distanza l’Italia di Berlusconi. I segnali non mancano: da quando Barack l’ ‘abbronzato’ è presidente, Mr B è stato invitato alla Casa Bianca solo nel 2009, quando il premier italiano era presidente di turno del G8 ed era impossibile ‘snobbarlo’. Così come era inevitabile la visita in Italia di Obama nel giugno sempre 2009, al vertice dei Grandi all’Aquila. E quando il presidente americano ha voluto sapere che cosa stava succedendo in Europa e in Italia, ha invitato a prendere un te a Washington il presidente Napolitano, non certo il premier Berlusconi.

Qualche insofferenza pubblica per i comportamenti del Cavaliere, magari contenuta a livello di linguaggio del corpo, c’è pure stata. Ad esempio quando, a un vertice del G20 a Pittsburgh in Pennsylvania, nel 2009, Mr B dimostrò un eccessivo entusiasmo per il ‘davanzale’ di Michelle, la first lady, che gli si parò davanti in tutta la sua opulenza. O quando, più di recente, all’ultimo G8 in terra francese, Mr B quasi s’inginocchiò accanto a Obama, per raccontargli, in una sorta di imbarazzante confessionale, come la giustizia lo perseguiti. Per non parlare dei cablo dei diplomatici americani di stanza a Roma resi pubblici da Wikileaks: documenti che trasmettono a Washington un’immagine da vaudeville, quando non da film hard, del premier e del Paese. E il ministro degli esteri? E’ un “messenger”, un fattorino.

Certo, a livello di politiche e di governi, Stati Uniti e Italia non hanno aperti, in questo momento, particolari contenziosi: non ci sono frizioni sul fronte della sicurezza, con gli italiani impegnati in Afghanistan e in numerose missioni di pace in tutto il Mondo e attivi nel conflitto in Libia, più di quanto non lo siano stati gli americani; e, sul fronte dell’economia, le preoccupazioni sono comuni.

Eppure i segnali di mancanza d’attenzione, e persino di garbo, verso le autorità italiane sono talora palesi, quasi ostentati. Il 20 settembre, dalla tribuna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Obama ha ringraziato, citandoli uno a uno, molti dei Paesi che hanno partecipato alle operazioni in Libia, persino la Danimarca che, a ben vedere, non ha fatto molto, ma nopn incluse nella lista l’Italia che ha fornito aerei, navi e basi agli alleati.

E, ora, la Clinton ‘fantasma’. Forse Hillary pensava di non farsi notare, di passare in punta di piedi. Ma, così, la sua visita rischia di fare più rumore che mai.

venerdì 14 ottobre 2011

SPIGOLI: Ue/G20, Sarkò con Angela da Barack e Hu

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/10/2011

Forse è quello che i diplomatici chiamano un ‘ballon d’essai’, cioè una notizia tirata fuori per misurare, tramite le reazioni che suscita, la fattibilità di un progetto appena abbozzato: se l’eco è positiva, o almeno incoraggiante, si va avanti; se è negativa, l’idea finisce nel cassetto e ci resta. La fonte è buona: Le Monde riferisce che il presidente francese Nicolas Sarkozy avrebbe chiesto alla cancelliera tedesca Angela Merkel di accompagnarlo in un ‘giro delle capitali’ prima del Vertice del G20, a Cannes a inizio novembre (la Francia ne esercita la presidenza di turno). Un giro essenziale: solo Washington e Pechino, le due che contano, con buona pace di Tokyo, Seul e delle altri più o meno grandi dimenticate. Quanto a Londra, Roma, Madrid, Bruxelles, Sarkozy il giro di consultazioni lo farà al Vertice dell’Ue il 24 ottobre, che deve varare il fondo ‘salva Stati’ e discutere quello ‘salva banche’. L’iniziativa, se vera, è collocabile sotto varie caselle della diplomazia internazionale: la paternità dà alla testa, per via del parto imminente di Mamma Carlà; il remake della Guadalupa, 32 anni dopo il tentativo francese del gennaio 1979 di creare un direttorio mondiale a 4 Giscard, Schmidt, Callaghan e Carter, al tempo delle crisi energetica e degli euromissili; l’ennesimo G, dopo il tramonto del G8 –punto d’approdo del percorso G5/G7-, l’insuccesso del G20, la meteora del G2. Ma forse la casella giusta è quella del direttorio europeo franco-tedesco per sempre, con la sotto serie ‘Italia se ci sei batti un colpo’. Nella crisi dell’euro Francia e Germania stanno stringendo i bulloni della loro intesa: oggi, Sarkozy, impegni da papà permettendo, riceverà il presidente della Commissione europea Barroso e cenerà con il ministro delle finanze tedesco Schauble, a Parigi per un G20 dei ministri finanziari, per parlare di Ue e di euro, di salvataggio della Grecia, di futuro dell’Unione.

Iran: terrorismo, Usa tolgono da naftalina nemico globale

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/10/2011

Mi stavo giusto chiedendo che fine avesse fatto l’Iran. Per mesi, il regime di Teheran era stato il cattivo del Mondo, con il suo programma nucleare a potenziale fini militari e poi le violazioni dei diritti umani, il caso Sakineh, impiccagioni, lapidazioni e frustate. Poi, la Primavera araba, il conflitto in Libia, la recrudescenza della crisi economica avevano cancellato quelle piste: l’Iran attivava le centrali –a fini civili-, ma nessuno se ne curava più. Fino a mercoledì, quando gli Stati Uniti sventano e svelano un complotto terroristico iraniano sul territorio americano, obiettivo l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti.

La notizia ideale per ricompattare rapporti un po’ traballanti nel Medio Oriente; fare contenti gli estremi che si toccano di quello scacchiere, Israele e Arabia saudita; ridare forza al coro l’ ‘Iran è cattivo’ cui in questo caso non s’oppongono neppure Russia e Cina –mica vogliono stare dalla parte dei terroristi-; e, infine, cominciare a inserire una nota di allarme e di minaccia alla sicurezza nazionale nella campagna presidenziale. Avviarsi al voto senza avere un nemico da cui guardarsi non è buona cosa per il presidente uscente, specie se, durante il suo mandato, s’è infilato due volte la coda fra le gambe, ritirando, pur con il consenso popolare, le truppe dall’Iraq e cominciando a ritirarle dall’Afghanistan, senza che questo significhi che quei due Paesi siano di molto migliori di come gli attacchi del 2001 e del 2003 li avevano trovati.

E tutto ciò senza rischiare alcun contraccolpo negativo: il rialzo di tensione con Teheran si riduce a scambi d’invettive a tutto svantaggio del regime iraniano, che non misura le parole sul metro occidentale, mentre non comporta di sicuro azioni militari, anche se il vice-presidente Biden, che afferma di volere “unire il Mondo contro l’Iran”, ripete la formula di rito in queste occasioni: “nessuna opzione è esclusa, neppure la militare”.

Una china su cui, ieri, s’è pure mosso il presidente Obama, denunciando “l’atteggiamento pericoloso” del Paese islamico: “Applicheremo contro l’Iran sanzioni più dure, perché venga sempre più isolato”. La Casa Bianca dice che il complotto che doveva portare all’uccisione dell’ambasciatore Adel al-Jubeir “è stato diretto da persone nel governo iraniano”; e il Dipartimento di Stato lo avrebbe contestato agli iraniani in contatti diretti. Accuse precise e una strategia della mobilitazione che coinvolge amici e alleati dell’universo mondo e che prevede anche un’allerta ai viaggiatori all’estero. Le repliche iraniane non fanno peso, anche quando parlano di uno “show” per fare dimenticare le difficoltà americane in questo momento.

La risposta è corale. L’Ue e l’Italia prospettano a Teheran “gravi conseguenze”. La Lega Araba e il Consiglio di cooperazione del Golfo condannano il presunto complotto, dando fede alla versione americana: “Sono atti che violano i valori religiosi e i principi umani e minano gli sforzi per la pace, la sicurezza e la stabilità in Medio oriente”, recita un comunicato dell’organizzazione pan-araba. Ovvia l’intenzione di Riad di chiedere all’Iran conto d’ogni azione ostile commessa ai suoi danni: il ministro degli Esteri saudita al-Faisal avverte, da Vienna: “Daremo a queste azioni la risposta che meritano” e "I tentativi dell’Iran di ricorrere agli omicidi e al caos non porteranno nulla di buono", perché Riad "non chinerà il capo".

In Israele, la vicenda si collega all’approvazione dello scambio di prigionieri con Hamas per ottenere, dopo cinque anni, la liberazione del caporale Shalit. La stampa ipotizza un intreccio da brividi con la ipotetica “minaccia nucleare iraniana” incombente. Molti si chiedono perché Netanyahu abbia avallato quello che appare un successo del braccio armato di Hamas. E lui, parlando alla nazione, spiega: “Credo che abbiamo ottenuto il miglior accordo possibile … Non so se in futuro avremmo potuto raggiungere un accordo migliore, o un accordo qualsiasi”.

Il premier evoca una “finestra di opportunità”, che potrebbe riferirsi a futuri scossoni della 'primavera araba’, dalle travagliate relazioni fra Hamas e il regime siriano al timore di avvicendamenti al potere in Egitto negativi per Israele. Ma Yediot Ahronot colloca le parole di Netanyahu nel contesto dei timori per i progressi dei progetti nucleari iraniani e della volontà di avere le mani libere per farvi fronte con ogni opzione possibile, dopo che il 'fattore Iran' era stato, all’inizio del mese, al centro dei colloqui in Israele del nuovo segretario alla Difesa Usa Leon Panetta, sfavorevole a un’azione militare unilaterale e preventiva.

giovedì 13 ottobre 2011

SPIGOLI: Grand Hotel Ue, Slovacchia che va, Serbia che viene

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/10/2011

Per l’Unione europea, è quasi una costante: chi ne sta fuori, vuole entrarci; e chi è dentro, pur se da poco, mostra insofferenza per regole e vincoli. Così, la Slovacchia, che non faceva parlare di sé dal giorno in cui buttò fuori l’Italia dai Mondiali in Sud Africa, 16 mesi or sono o giù di lì, batte un colpo bocciando la ratifica del Fondo ‘salva Stati’, proprio lei che pare già un miracolo sia nell’Ue e addirittura nell’euro. Il no al Fondo del Parlamento di Bratislava pare però destinato a durare 48: dopo un sussurro della Merkel (“Il Fondo sarà approvato da tutti gli Stati dell’euro”) e un appello di Barroso, maggioranza e opposizione trovano un’intesa che sarà ratificata oggi da un nuovo voto. Così, la nave dell’euro si disincaglia dalle secche slovacche, dopo essere uscita dai gorghi tedeschi e finlandesi, e va verso il Vertice europeo del 24 ottobre, che sancirà l’entrata in vigore del ‘salva Stati’. Intanto, la Serbia si vede riconoscere da Bruxelles lo statuto di candidato all’adesione: quasi una staffetta tra Paesi nemici degli Anni Novanta, la Croazia chiude le trattative con l’Ue –ne diventerà il 28.o Stato- e la Serbia le apre. La raccomandazione della Commissione ai 27 è però condita da un monito: Belgrado, che ha consegnato i criminali di guerra latitanti alla giustizia internazionale, deve mostrare la volontà di trovare un accordo col Kosovo, che i serbi continuano a ritenere una loro provincia, ma che è ormai uno Stato indipendente. Il ministro Frattini è a Belgrado nel giorno dell’annuncio e ne perora la causa: “Senza Serbia –dice-, Europa e Italia sono meno sicure”.

mercoledì 12 ottobre 2011

Ucraina: treccine incatenate, Iulia condannata, polemiche

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/10/2011

Iulia Timoshenko, l’icona bionda della rivoluzione arancione, è stata condannata a sette anni di prigione per abuso di potere da un tribunale di Kiev. Il verdetto allontana ulteriormente l’Ucraina dall’Europa: Bruxelles minaccia “conseguenze”; a Mosca, il premier Putin “non capisce”; e il presidente Ianukovitch fa intendere che la sentenza in appello potrebbe essere più clemente: una conferma della politicizzazione del giudizio.

Iulia annuncia appello, anche alla giustizia europea: l’Ucraina fa parte del Consiglio d’Europa e risponde alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Nella sua sentenza, il giudice Rodion Kireev dichiara la Timoshenko “colpevole” di avere abusato dei propri poteri “a fini criminali”. Agli anni di carcere comminati, si sommano tre anni d’interdizione dai pubblici uffici. Iulia dovrà inoltre versare circa 140 milioni di euro d’indennizzo all’impresa pubblica di idrocarburi Naftogaz, che sarebbe stata danneggiata dalla firma di contratti con la Russia nel 2009.

L’allora premier, il cui arresto in agosto aveva già suscitato molte proteste, avrebbe firmato quei contratti senza l’autorizzazione del suo governo. Colpisce che la Timoshenko, più filo-europea che filo-russa, si veda contestare un atto pro-Russia, mentre l’attuale presidente filo-russo è apertamente criticato dal Cremlino. Mosca e Kiev, dopo ripetute crisi, stanno negoziando nuove condizioni per le forniture energetiche.

L’Ue è “profondamente delusa” dal processo, che non ha rispettato le norme internazionali. Lady Ashton, ‘ministro degli esteri’ europeo, chiede un appello equo. La Polonia, presidente di turno del Consiglio dell’Ue e co-organizzatrice degli Europei di Calcio 2012, dice che il verdetto “indebolisce l’immagine” dell’Ucraina che guarda all’Ue. Amnesty parla di giudizio “politicamente motivato”. La Russia depreca “il carattere anti-russo di tutta la vicenda”, che rimette in discussione la validità degli accordi energetici russo-ucraini, “conclusi nel pieno rispetto delle legalità russa, ucraina e internazionale”

Ianukovitch, che si dice estraneo ai guai giudiziari della sua antagonista, afferma di “capire” le inquietudini dell’Ue per questo caso “spiacevole” che impedisce “l’integrazione europea dell’Ucraina”, un’integrazione, in realtà, frenata da quando lui è al potere. L’attrito emerge proprio quando la vicina Serbia sta per vedersi riconosciuto lo statuto di Paese candidato all’adesione, dopo la consegna al Tribunale penale internazionale gli ultimi criminali di guerra latitanti. L’annuncio è atteso oggi, in coincidenza con la presenza a Belgrado del ministro degli esteri italiano Franco Frattini.

Iulia è stata energica e combattiva, alla lettura della sentenza, fedele alle sue immagini di ‘dama di ferro’ o ‘giovanna d’arco ucraina’: ha confrontato il suo processo alle purghe del 1937 nella Russia di Stalin. Davanti al tribunale, manifestazioni pro e contro l’ex premier, sotto gli occhi di centinaia di poliziotti.

La rivoluzione arancione del 2004, pacifica e pro-occidentale, aveva portato all’annullamento della vittoria nelle presidenziali di Ianukovitch. Divenuta premier dopo nuove elezioni, la Timoshenko aveva presto rotto con il nuovo presidente, Iuvshenko. Nel febbraio 2010, la Timoshenko perse la presidenziali con Ianukovich.

martedì 11 ottobre 2011

Polonia: anti-clericali con trans in Dieta, non c'è più religione

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/10/2011

Vincono il premier uscente Donald Tusk e la linea europeista del partito liberale. Perdono l’ex premier gemello (del presidente morto lo scorso anno in un incidente aereo a Smolensk, in Russia, Lech Kaczynski) e la linea euroscettica. Ed entra nella Dieta, come terza forza, destando sensazione, il Movimento di Palikot, un partito di sinistra anticlericale, creato un anno fa da un imprenditore ricco ed eccentrico, Janusz Palikot: prende il 10 % giusto giusto dei voti e 40 deputati, in un Paese in cui il 90% dei cittadini si dichiarano cattolici –i numeri lasciano credere che lo hanno votato tutti gli altri-. L’eccezionale risultato del Movimento di Palikot è anche frutto della debolezza della sinistra tradizionale post-comunista: il partito socialdemocratico ottiene, infatti, il peggior risultato della sua storia, con poco più dell’8% dei suffragi e 27 deputati.

Il premier Tusk, 54 anni, può dunque prepararsi a un secondo mandato alla guida della stessa coalizione: il suo partito, la Piattaforma civica, ha superato il 39% dei voti e i suoi alleati del Psl, il Partito dei Contadini, hanno avuto più dell’8%. Insieme, le due formazioni dispongono di 234 dei 460 seggi della Camera bassa. L’opposizione conservatrice Diritto e Giustizia di Jaroslaw Kaczynski sfiora il 30% dei voti e ha158 seggi. Solo cinque partiti superano la soglia del 5% ed entrano nella Dieta.

E’ la prima volta, dalla caduta del comunismo nel 1989, che un partito al potere rivince le legislative in Polonia, al termine di una consultazione che ha visto un tasso di partecipazione ‘americano’, bassissimo: meno d’un elettore su due è andato alle urne, in un Paese di 38 milioni di abitanti, il sesto per popolazione dell’Unione europea. In una dichiarazione alla Reuter, il presidente della Repubblica Bronislaw Komorowski giudica l’esito delle elezioni “positivo” per l’Ue: la Polonia esercita attualmente la presidenza di turno semestrale del Consiglio dei Ministri dei 27 e punta a entrare presto nell’euro.

Nel nuovo governo, Tusk vuole rimpiazzare la maggior parte degli attuali ministri. Ma i cardini delle politiche estera ed economica, marcatamente europeiste, dovrebbero restare al loro posto: Radoslaw Sikorski e Jacek Rostowski, dovrebbero restare al loro posto. Segnali di continuità rassicurante per i partner dell’Ue, in un momento in cui l’euroscetticismo avanza in molti Paesi.

Il Movimento di Palikot, non contento di sfatare il tabù anti-clericale nella cattolicissima Polonia, ha anche fatto entrare nella Dieta per la prima volta un transessuale: Anna Grodzka, capolista a Cracovia, 57 anni, psicologa e produttore cinematografico, ha cambiato sesso da non molto, dopo aver vissuto per anni come uomo con il nome di Ryszard –ma da quando aveva 12 anni si considerava una donna e s’era già scelta il nome Anna-. Attualmente presiede la Fondazione Trans-Fuzja impegnata a ottenere la parità dei diritti dei transessuali.

domenica 9 ottobre 2011

Vladi/Silvio: tanti dubbi intorno a un'amicizia eccessiva

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/10/2011

Giorni fa, l'ambasciatrice di Serbia a Roma Ana Hrustanovic, una fascinosa signora -si vede che pure a Belgrado sanno che qui non guasta-, diceva che il suo Paese può essere la porta dell'Italia verso un mercato di 800 milioni di consumatori che, al di là dei Balcani, s’estende dalla Bielorussia al Kazakhstan, lungo i confini dell’ex Unione Sovietica. La bell’ambasciatrice faceva un po' l'imbonitrice, nell'imminenza della visita a Belgrado del ministro degli esteri italiano Franco Frattini, mercoledì prossimo, il 12 ottobre. E, in cambio, chiedeva che l’Italia fosse la porta della Serbia verso l’Ue.

Ma, in realtà, l'Italia la chiave di quei mercati promessi dalla Hrustanovic l'ha già in tasca, perché Mr B. con gli autarchi della Regione, da Lukashenko a Nazarbayev, è tutto pappa e ciccia. Energia e feste, la diplomazia degli affari, fra amici, è uno spasso.

Però, a forza di farti amici sbagliati, va a finire che gli amici veri non ti prendono più sul serio o, almeno, diffidano di te. In questo senso, alcuni dei documenti pubblicati da Wikileaks sono significativi e allarmanti. Al Dipartimento di Stato Usa come all'Ue, alla Commissione europea, ci s'interroga sull'affidabilità come interlocutore del Cavaliere, che pare un portavoce di Putin o almeno un tutore in ambito internazionale degli interessi russi. Al punto che Hillary Clinton, segretario di Stato a Washington, s'aspetta dai suoi diplomatici di capire che cosa sta dietro, se ci sta dietro qualcosa, al legame tra Silvio e Vladi, uno che gli americani trattano con distacco e anche con diffidenza.

Meno ‘oro colato’ dei cablo diplomatici di Wikileaks, su cui pure bisogna ‘fare la tara’, anche alcune intercettazioni di ‘pussypoli’ getterebbero uno squarcio sull’inaffidabilità diplomatica dell’Italia ‘stile Mr B’: ad esempio, il premier turco Erdogan non ne vorrebbe più sapere del Cavaliere, immemore del fatto che, per fargli una telefonata, Berlusconi una volta fece attendere e inquietare il cancelliere tedesco Angela Merkel , padrona di casa a un Vertice internazionale.

Stando a un’intercettazione, Paolo Pozzessere, direttore commerciale di Finmeccanica, colosso pubblico dell’apparato industriale-militare, per cui ‘lavorava’ anche Walter Lavitola, parlando al telefono il 14 giugno di quest’anno con Debbie Castaneda, dice, con tono affranto –ma noi sospettiamo non gliene potesse fregare di meno-: “Proprio ieri ho saputo una cosa bruttissima. Questa storia delle escort sta rovinando il premier. Ero in Turchia e ho saputo che Erdogan non vuole più incontrarlo e avere rapporti con lui proprio per questo”.

Chiacchiere? Forse. Smargiassate? Probabilmente. Ma le testimonianze di slalom di leader per evitare, anche negli appuntamenti multilaterali, incontri ravvicinati con il Silvio nostro si moltiplicano. E di mezzo non ci vanno gli affari di Mr B, che' quelli glieli tutelano gli amici suoi, ma gli interessi e la reputazione dell'Italia, cioè nostri. Per fortuna che la Serbia è pronta ad aprirci una porta: ambasciatrice Hrustanovic, ci pensi lei, grazie.

Vladi/Silvio: feste parallele dei due amici, doveri e piaceri

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/10/2011

Queste ciambelle delle feste di compleanno di Vladimir Putin, cui Mr B si sente quasi in dovere di non mancare, da quando è tornato premier, non sempre riescono col buco: a volte, ci si mette il cattivo tempo, che ritarda le partenze degli ospiti; e a volte, cadono in un momento così, che ad andarci sembra proprio di volere fuggire dai problemi dell’Italia. Ma Berlusconi non ne manca una, ufficialmente perché, come dicevano nell’Ottocento le spose timorate, “non lo fo per piacer mio, ma lo fo per l’amor di Dio”. Dovere d’ufficio, insomma.

Un dovere che pochi leader di questo Mondo sentono in modo così compellente. I portavoce russi non ci aiutano proprio, a scoprire che cosa succede in queste feste, ma l’unico altro ospite eccellente che citano è l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, uno che, quando ha lasciato il potere, è diventato un lobbista di lusso dell’energia russa e s’è meritato, per questo, un sacco di critiche.

All'agenzia russa Interfax il portavoce di Putin Dmitri Peskov non dice altro, perché –spiega- ''si tratta di impegni assolutamente privati''. Neppure si sa quanto la festa duri, poteva finire ieri sera o andare ancora avanti una notte: Peskov insiste, “sono impegni assolutamente orivati”. E dove il premier russo celebra con i suoi invitati, in dacia, o altrove?, a Mosca o a San Pietroburgo? Avete già indovinato che cosa ribadisce Peskov, che pure si lascia scappare “in una residenza fuori città” :“sono impegni assolutamente privati, non posso dire di più”.

Il risultato è che i due leader di due Paesi degli Otto Grandi, mica il Bhutan e il Malawi, con tutto il rispetto, spariscono dai radar dell’opinione pubblica per 48 ore o giù di lì e nessuno sa dove siano e che cosa combinino: fatti loro, si potrebbe dire, se non ci fosse l’impressione che siano anche, e forse soprattutto, affari loro e fatti nostri. Più del portavoce di Putin, chiacchiera il ministro dell’agricoltura Saverio Romano, che, in visita in Russia al momento giusto, vuole apparire informato: Berlusconi “m’ha detto che sarebbe venuto a San Pietroburgo con un aereo privato”.

Dove che sia, il Cavaliere, al riparo dalle intercettazioni, deve sentircisi bene, al sicuro, protetto. E magari già pregusta la festa 2012, che sarà qualcosa di speciale, perché Vladi di anni ne farà 60: un fratello minore, cui Silvio, che ne ha appena compiuti 75, ha da insegnare ancora un sacco di cose, sul senso, e sui piaceri, pardon doveri, della vita e dello Stato. E poi c’è tutto un mondo di affari che lega i due amici: pubblici, certo, ma pure privati, molto privati. E questa volta non facciamocelo ripetere dal portavoce.

Il FT ipotizza che la ‘trilaterale’ Putin-Berlusconi-Schroeder sia l’occasione per parlare dei nuovi gasdotti che la Russia intende realizzare, il North Stream, del cui consorzio è a capo appunto Schroeder, e il South Stream. Il solito Peskov non abbocca: “Non sono previsti incontri ufficiali”. Una festa è una festa: mica vogliamo turbarla con scartoffie e discorsi noiosi.

E, poi, quelli si vedono di continuo: ancora un po’, Mr B passa più tempo con Vladi –siamo al quarto appuntamento bilaterale in un anno o giù di lì, se contiamo bene- che con Tremonti (e certo si diverte di più con il russo che con il valtellinese). Quell’inopportuno di PierFerdinando Casini vorrebbe “un presidente del Consiglio che avesse la dignità di porre al premier russo il problema delle minacce alla Georgia, come ha fatto il presidente francese Nicolas Sarkozy”. Ma questo è un compleanno: c’è un’amicizia da celebrare; e le signorine attendono.

Quest’anno, i due premier sono accomunati dalle polemiche politiche interne. Poco prima di partire per la Russia, Berlusconi ha ribadito che non intente mollare, nonostante l’imbarazzo, nelle fila del centrodestra, dopo la proposta di cambiare in "Forza Gnocca" il nome del Pdl, mentre l'opposizione insiste per “un passo indietro".

Anche Putin non intende mollare. Anzi, nel 2012 tornerà a fare il presidente, per altri sei e forse 12 anni. Silvio, un po’ d’invidia, deve avercela: Vladi non ha opposizione, né media, né magistratura e neppure un Tremonti a fargli ombra, perché quel Dmitri Medvedev che gli ha fatto da controfigura al Cremlino per quattro anni è tanto un bravo ragazzo.

Se Putin resta, però, ci sarà ancora da divertirsi un sacco: altre feste e altri affari. In fondo, i due di cose insieme ne hanno fatte: nuotate nel mare della Sardegna e bevute di vodka con caviale a Mosca e San Pietroburgo. E qualche volta hanno sorpreso tutti trasformando incontri privati in occasioni di lavoro: nell'ottobre del 2009 quello che doveva essere un viaggio informale di Berlusconi a San Pietroburgo divenne un vertice bilaterale, con colloqui con amministratori locali, dirigenti di azienda, dossier delicati e persino una teleconferenza con il premier turco Erdogan sul progetto del gasdotto 'South Stream'.

Chi l’ha detto che Vladi e Silvio non sanno farsigli affari loro (e i fatti nostri)?

sabato 8 ottobre 2011

Clima: Hedegaard, Europa non è problema, Italia non è ambiziosa

Scritto su Il Fatto Quotidiano dello 08/10/2011

Sul clima, l’Europa “non è il problema” del Pianeta; e l’Italia non è il Paese più ambizioso fra i 27 dell’Ue: Connie Hedegaard, commissaria europea, danese, ha le idee chiare, alla vigilia della riunione, lunedì, a Lussemburgo, dei ministri dell’ambiente europei; e la visita in Italia, giovedì, non sembra avergliele confuse.

I ministri dei 27 preparano la conferenza sul clima in programma a Durban, in Sud Africa, dal 28/11 all’8/12, terza tappa (ancora interlocutoria) di un trittico partito a Copanghen nel 2009 e proseguito a Cancun nel 2010. “Dobbiamo definire la posizione europea –dice la Hedeegard- , che è già molto chiara… Dobbiamo mantenere la spinta verso decisioni che a Durban non potranno ancora essere prese, sapendo che l’Europa rappresenta l’11% delle emissioni mondiali di CO2 e che ha già adottato degli impegni per ridurle, mentre il resto del Mondo, gli Stati Uniti, la Cina, gli altri Paesi, rappresentano l’89% delle emissioni “ e non hanno assunto impegni altrettanto precisi. “E’ chiaro che il problema non è l’Europa, anche se l’Europa deve mantenere la leadership” su come affrontare il cambiamento climatico. Gli obiettivi comunitari indicati dalla strategia Europa 2020 -riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al livello del 1990 - e dal percorso verso un’economia a basso tenore di carbone – taglio delle emissioni compreso tra l'80 e il 95% entro il 2050 - non sono in discussione.

Quali sono le sue aspettative, per la riunione di Durban, che è la conferenza mondiale sull’ambiente dell’Onu? “Durban si prospetta molto difficile, soprattutto per i ritardi nell’esame della questione da parte del Congresso statunitense e perché altri trincereranno dietro gli Stati Uniti la reticenza ad accettare ulteriori impegnii. Sappiamo che non ne uscirà un accordo vincolante, , ma dobbiamo concordare su un percorso preciso e dettagliato e mantenere lo slancio e l’intensità: non ci basta confermare le decisioni già prese”. La ‘road map’ deve guardare, in particolare, alla scadenza nel 2012 del protocollo di Kyoto.

Un rinvio a quando, per decisioni concrete? “Gli impegni vincolanti verranno quando Usa, Cina e altri Paesi saranno pronti ad accettare vincoli analoghi a quelli che l’Europa s’è già data”, sull’andamento delle emissioni di CO2. “Ma, intanto, facciamo progressi settoriali, come nell’aviazione civile, nella navigazione commerciale, nell’agricoltura”.

A Roma, la Hedegaard ha visto il ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo, la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, le commissioni ambiente di camera e Senato e le associazioni ambientaliste. Che voto dà, alla politica dell’Italia in materia di clima?

“Come commissaria europea, non do voti all’Italia né agli altri Paesi Ue”. Certo, “il governo italiano non è tradizionalmente fra quelli più ansiosi di definire obiettivi più ambiziosi per la lotta al cambiamento climatico”, ma, in particolare sull’efficienza energetica, “ho trovato orecchie molto attente”: “Quando vado in Cina, o altrove, vedo ricercatori italiani, imprese italiane in prima linea e vedo le regioni e le amministrazioni locali impegnate, anche perché l’Ue mette a disposizione fondi per incoraggiare gli investimenti e i progetti”, fondi che vanno meglio utilizzati. E il governo? La Hedegaard non lo cita.

Con l’efficienza energetica e la green economy, “la lotta contro il cambiamento climatico può anche essere un’opportunità di crescita e di creazione di posti di lavoro”. La commissaria fa l’esempio del settore delle auto: “Quando l’Ue anticipò al 2015 gli obiettivi di ‘vetture pulite’ pensati per il 2020 l’industria protestò che non ce l’avrebbe fatta e che le sarebbe costato troppo. Bene, nel 2012, l’anno prossimo l’80% della produzione automobilistica europea sarà già conforme agli obiettivi 2015 e anche la Fiat si sta adeguando”.

La rinuncia al nucleare da parte di alcuni Stati europei dopo quanto accaduto in Giappone a marzo segna un passo indietro sulla via della lotta al cambiamento climatico, con un ritorno al carbone? “Per l’Europa, non cambia nulla, perché Paesi che non hanno il nucleare hanno deciso che continueranno a non averlo e la Germania ha soltanto anticipato l’attuazione di una decisione che era già stata presa, la dismissione di tutte le centrali nucleari. Dunque, chi vede nella rinuncia al nucleare un colpo alla lotta contro le emissioni di CO2 sbaglia”.

venerdì 7 ottobre 2011

SPIGOLI: George, Silvio, l'Ape Regina, notte stupefacente

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/10/2011

La foto è impietosa: lui, George, sfoggia il suo fascino maturo, ma neppure l’esperienza d’attore gli evita un velo d’imbarazzo; l’altro, Silvio, ha gli occhi socchiusi e il voto sfatto –prima della notte di festa, una giornata da statista, non dimentichiamolo- e mostra tutto il peso degli (allora non ancora) 75 anni, malgrado la camicia blu aperta fin (quasi) sul petto stile play boy Anni Settanta; in mezzo, lei, Sabine Began, che sarà pure l’Ape Regina, ma che qui è una maschera di sudore e fondotinta, sorriso tirato e sguardo che inclina a George, ma appoggio su Silvio. La “stupefacente serata” di George Cloney a Palazzo Grazioli è nella video-intervista del divo a Time: 10 domande in esclusiva al direttore Rick Stengel. Una notte “senza bunga bunga”: una sola e “per discutere di Darfur”, assicura George. La cena è probabilmente quella del 5 ottobre 2008: il fatto che Clooney fosse stato ospite del premier era noto, ma l'attore narra dettagli inediti. Cominciò a parlare con Berlusconi di Darfur: George era in Italia per una raccolta di fondi. Ma poi venne fuori "un genere di serata molto diversa da quella che chiunque possa immaginare … una delle più sorprendenti della mia vita” (che noiosa certo non è stata). All’ospite, Mr B mostrò pure il "lettone di Putin", senza invitarlo ad usarlo: “Troppe barzellette e troppo poco tempo” per raccontarle. Andrà a testimoniare al processo al Cavaliere sul ‘caso Ruby’, dov’è citato tra i testi a difesa? “Ho detto che sarei andato a deporre se me l’avessero chiesto, perché non ero alla festa dove si dice sarei stato, non ero al suo 'bunga bunga'”.

giovedì 6 ottobre 2011

Le donne dei dittatori, l'altra metà del male del XX Secolo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/10/2011

Ritratti di donne a fianco dei peggiori dittatori del XX Secolo: alcune ‘anime nere’ del loro uomo, pervase come lui dal demone del potere e istigatrici di violenze e ingiustizie; altre assoggettate dal suo magnetismo, capaci di essergli accanto anche nei finali tragici; altre ancora semplicemente innamorate, spose, amanti, compagne, talora ammiratrici, talora ispiratrici. Il tema del rapporto tra gli uomini di potere e le loro donne (e, viceversa, tra le donne e il potere) non è originale: persino un campione dello stereotipo come Bruno Vespa l’ha recentemente affrontato, ovviamente da un punto di partenza attuale, italiano, berlusconiano, Silvio e Veronica, nel suo libro ‘Donne di Cuori’.

La giovane giornalista, storica, filosofa francese Diane Ducret, all’esordio come autrice di un volume, concentra il suo sguardo su alcuni satana del secolo scorso, che tanti ne ha conosciuti. L’ordine non è né alfabetico, né cronologico, né ideologico, né geografico; anzi, pare proprio un disordine: Benito Mussolini, Lenin, Stalin, Antonio Salazar, l’imperatore Bokassa, Mao Tse-dong, Nicolae Ceausescu, Adolf Hitler. I capitoli su Mussolini e Hitler sono i più lunghi, con titoli che sono giochi di parole un po’ azzardati (la duce vita, oppure un fuhrer chiamato desiderio).

Il libro, edito ora in Italia da Garzanti con il titolo ‘Le donne dei dittatori’ (405 pagg, 22,60 euro), va al di là dell’ammiccante fascetta “il rapporto segreto tra sesso e potere”, perché non di solo sesso si tratta, anche se spesso, e anzi quasi sempre, il sesso c’entra e parecchio. La Ducret ha conquistato, e tenuto per mesi, la vetta della classifica dei saggi più venduti in Francia un po’ perché il suo lavoro “si legge come un romanzo” –il complimento è di Daringtodo, un quotidiano online di arte, informazione culturale e spettacolo- e soprattutto perché quei personaggi continuano ad esercitare un fascino malsano sul grande pubblico del XXI Secolo.

Prima che una scrittrice, la Ducret, che ha studiato storia e filosofia all’Ecole Normale Supérieure , è una ricercatrice e un’autrice di programmi televisivi per History Channel e per altre reti televisive francesi. L’introduzione del libro presenta e commenta una sequela di lettere d’amore ai due dittatori feticcio delle tenebre europee fra le due guerre, il Fuehrer e il Duce: un fenomeno di adorazione e di soggezione che le cronache perpetuano nelle lettere d’amore che ricevono in carcere serial killer e criminali autori delle peggiori violenze, anche e specie sulle donne.

La stampa francese è stata prodiga di elogi per la Ducret, il cui libro l’edizione transalpina di Grazia ha giudicato «abbastanza scandaloso da farci molto divertire e abbastanza serio per non farci sentire in colpa» divertendoci, o almeno non rivoltandoci, di fronte ad alcuni episodi raccontati. E se L’Express esalta “i brillanti ritratti delle compagne di strada dei megalomani del XX secolo”, Le Point osserva che “il potere seduce ma fa impazzire” (chi lo esercita e chi gli sta accanto). Una morale non c’è: il detto ‘dimmi che donna hai e ti dirò che dittatore sei’ non vale. C’è la moglie che fa politica come Jang Qing e quella che se ne disinteressa come Claretta, c’è chi induce alla moderazione e chi alla crudeltà.

Certo, il libro non approfondisce tutte le donne dei dittatori raccontati, che più di una ne hanno avute, ma ne sceglie una per ciascuno: Claretta, Nadia, Mira, Felismina, Catherine, Jang Qing, Elena, Magda (che non di Hitler era la moglie, ma di Goebbels): “Si sono innamorate di un uomo crudele, violento e tirannico, l'hanno convinto che era bello, affascinante, onnipotente. A volte l'hanno dominato, a volte sono state tradite e ingannate. Alcune di loro sono state quasi più feroci del loro compagno. Spesso l'hanno seguito fino alla morte. Hanno tutte contribuito a plasmare le personalità più potenti e terribili del XX secolo”.

La Ducret ricostruisce gli incontri, le strategie di seduzione, gli amori, e successivamente il peso e l’influenza sulle politiche e sulle scelte e il destino delle donne che hanno intrecciato le loro vite con quelle di potenti crudeli, dal momento in cui sono entrate nel loro letto fino a quando –è il caso di Claretta, Elena e anche di Magda Goebbels come di Eva Braun- lo hanno accompagnato nel momento supremo. Il libro, ne dice l’editore italiano, “esplora i meccanismi più profondi e segreti del rapporto che lega sesso e potere. E, raccontandoci la storia da un'angolatura inedita, ci aiuta a capire l'attualità”. Uno degli ingredienti fondamentali del successo politico dei grandi leader, che non sempre sono dittatori, è proprio il fascino esercitato sulle donne. Hitler l’aveva capito: “L'importante è conquistare le donne, il resto arriva dopo” (e, spesso, è più facile).

SPIGOLI: crisi, Tremonti fa gol in Spagna, Moody's ce ne infila tre

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/10/2011

Ai ministri italiani, non capita spesso di prendere, con loro dichiarazioni, non solo le prime pagine di tutta Italia, ma anche quelle d’un Paese straniero. Giulio Tremonti, con l’affermazione che le cose in Spagna vanno meglio che da noi perché li si fanno elezioni politiche anticipate e perché Zapatero si fa da parte, ci riesce. La stampa italiana lo chiosa in chiave anti-Berlusconi –andremmo meglio anche noi, se quello facesse un passo indietro e se andassimo al voto-; la stampa spagnola lo chiosa di meno, ma ci si diverte un bel po’ lo stesso. E Abc se ne esce con un editoriale che denuncia la mancanza di leadership del premier italiano (per la serie: Tremonti ha ragione). Ma il vero editoriale di giornata sulla situazione italiana lo scrive Moody’s: la decisione dell’agenzia di rating di tagliare di tre tacche d’un colpo solo l’affidabilità del debito italiano “non poteva arrivare in un momento peggiore per la zona euro”, tra le preoccupazioni dei mercati in fibrillazione, commenta la Bbc, che correda il servizio con una foto di Mr B a capo chino sulle mani giunte: un’immagine di sconfitta, se non di disfatta. Il Telegraph ed El Pais danno la stessa interpretazione della decisione di Moody’s: l’abbassamento del rating nasce dal timore che l’Italia sarà in difficoltà a ridurre il debito con una crescita cronicamente debole. E se El Pais capta che “i mercati ignorano” il declassamento, anzi si concedono una giornata da toro, Libération sintetizza un po’ sbrigativamente che “l’Italia va a rotoli”. Ma che si guardassero l’ombelico loro, i cugini francesi, tutti in trepida attesa del bebé presidenziale.

Crisi: la Merkel sprona l'Italia e vuole il 'salva banche'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/10/2011

Le agenzie di rating non sono le sole a bacchettare l’Italia. In visita a Bruxelles, Angela Merkel tira fuori una dichiarazione imperativa: “L’Italia deve rispettare gli impegni” per la riduzione del debito, dice, dopo incontri con le Istituzioni comunitarie. La cancelliera tedesca parla dopo che Moody’s ha d’un colpo solo abbassato di tre punti la fiducia nella capacità dell’Italia di ripagare i propri debiti, due settimane dopo un’analoga, ma meno drastica, penalizzazione da parte di S&P.

“Qualsiasi Paese europeo può riconquistare la fiducia, seattua davvero le misure decise”, prosegue la Merkel; e cita, in positivo, il caso del Portogallo, i cui dirigenti, né quelli di centrosinistra prima al potere, né quelli di centrodestra ora al governo, neanche il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, hanno mai fatto pubblici apprezzamenti dell’aspetto fisico della cancelliera. Se c’è riuscito il Portogallo, anche “l’Italia può riconquistare la fiducia dei mercati”, purché faccia quel che s’è impegnata a fare. E arriva il veleno: “Questo le ha posto qualche difficoltà “ in passato. Moody’s e S&P, che stanno lì con la matita rossa in mano, prendono nota.

Italia a parte, la Merkel porta a Bruxelles un messaggio di preoccupazione, ma anche di speranza: per esempio, la Grecia –insiste- deve restare nell’euro e la Germania “farà il necessario” perché Atene “abbia gli aiuti per ritrovare la via della crescita”. Le dichiarazioni della cancelliera contribuiscono all’ennesima giornata frenetica e apparentemente assurda delle borse, che ignorano le agenzie di rating e le acute tensioni sociali greche e chiudono con raid impressionanti: Francoforte, il toro di giornata, sfiora il + 5%, dopo che un allarme alla bomba scattato poco prima della chiusura induce la polizia ad evacuare, in via precauzionale, l’edifico delle transazioni (che continuano per via telematica). Alla fine, né gli agenti né i cani trovano nulla di sospetto: magari, l’episodio è solo un sintomo della tensione sui mercati.

Il messaggio cui la Merkel tiene è chiaro: l’Unione europea deve accelerare le operazioni per darsi un piano per ricapitalizzare le banche che ne hanno bisogno e a bloccare il contagio della sfiducia nella zona euro. La cancelliera ne parlerà nel fine settimana col presidente francese Nicolas Sarkozy e porterà la questione al Vertice europeo di metà mese. Da Washington, l’Fmi, il Fondo monetario internazionale, la spalleggia dicendosi preoccupato per la lentezza della risposta della zona euro.

Adesso che lo strumento ‘salva Stati’, il Fesf, sta per divenire operativo, ce ne vuole uno ‘salva banche’ –il Fesf potrà giocarvi un ruolo, ma solo in ultima istanza-. C’è il timore che la crisi del debito si propaghi nell’area dell’euro e sfoci in una crisi del settore bancario, con lo schema visto negli Stati Uniti nel 2008 quando ci fu il fallimento della Lehman Brothers. “Se siamo d’accordo che le banche non sono abbastanza capitalizzate, è giustificato intervenire in tal senso”, “tenuto conto dell’attuale situazione dei mercati finanziari”. Se ce ne fosse stato bisogno, le grosse difficoltà della banca franco-belga Dexia confermano i rischi.

La Germania, che è la prima economia europea, vuole “criteri comuni” per le economie dell’euro: ci vogliono dei risultati, devono venire in fretta, Berlino è pronto a mostrare la strada. Barroso rivendica con orgoglio alla Commissione di Bruxelles il ruolo di “governo economico dell’Unione”, mentre la Merkel e Sarkozy ne invocato uno ‘ad hoc’. Ma Barroso si schiera al fianco della Merkel sul piano ‘salva banche’. L’Fmi fa i conti in tasca agli istituti di credito europei, stimando a 100 o 200 miliardi di euro l’iniezione di capitali necessaria a stabilizzare il settore, ma non intende giocare un ruolo nel piano.

Contro la crisi, la Germania pensa che “la modifica dei Trattati dell’Ue non dev’essere un tabù”. Ma Barroso tira il freno: cambiare i Trattati solo se necessario; prima, sfruttarne tutte le possibilità.

mercoledì 5 ottobre 2011

Meredith: Amanda trova l'America. giustizia sotto attacco

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/10/2011

Con l’assoluzione di Amanda (e Raffaele), e la condanna di Meredith a finire fra i ‘cold cases’ della giustizia italiana, l’Italia diventa terreno di confronto politico-elettorale tra Stati Uniti e Gran Bretagna: Londra è costernata e il premier David Cameron è vicino ai Kercher; Washington (e Seattle) esultano e il Dipartimento di Stato esprime soddisfazione. C’è chi s’indigna per la sovranità (del nostro Paese) violata; c’è chi tira sballate somme diplomatiche e geo-politiche dalla contrapposizione quasi inedita tra americani e inglesi; e c’è chi rimanda le critiche al mittente. Il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, osserva che “gli Stati Uniti non sono affatto legittimati a impartirci lezioni di diritto”, ricordando Guantanamo e il Cermis. E si potrebbero pure citare l’uccisione di Calipari e il rapimento di Abu Omar ad opera della Cia: come il Cermis, tutti casi in cui il fatto che i colpevoli fossero americani, militari o spie, li ha messi, per gli Stati Uniti, al di sopra della legge.

Però, è difficile sorprendersi per le critiche piovute sul sistema giudiziario italiano, prima dagli Stati Uniti e adesso più dalla Gran Bretagna, quando ad andare in giro per il Mondo a parlare male di inquirenti e magistrati sono il presidente del Consiglio, dai podi delle conferenze stampe congiunte con altri leader o quasi inginocchiato accanto al presidente Obama in occasione di un Vertice del G8, e l’ex ministro della giustizia, e ora scudiero del premier, Angelino Alfano. Davvero ci possiamo stupire che la stampa estera diffidi della giustizia italiana? Va a finire –appunto- all’italiana, come nel coro dell’Adelchi: “Il forte si mesce col vinto nemico … L’un popolo e l’altro sul collo vi sta”. Divisi da Amanda e Meredith, americani e britannici, ma uniti nel diffidare dell’Italia.

Certo, l’impatto mediatico così universale di questa vicenda, ben al di là della portata in sé del fatto di cronaca, innesca sbavature diplomatiche. Dopo settimane di critiche e diffidenze della stampa statunitense, il Dipartimento di Stato esprime “apprezzamento per l’attenta considerazione della vicenda nell’ambito del sistema giudiziario italiano” – c’era, forse, una dichiarazione speculare già pronta, a verdetto rovesciato-. Sortita singolare, da parte di un Paese che mal sopporta, anzi considera ingerenze, gli appelli alla clemenza degli alleati europei e persino della Santa Sede quando manda legalmente a morte minorenni o minorati o presunti innocenti. Cameron, invece, testimonia incredulità e, appreso il verdetto, sta con i Kercher: “Quei genitori avevano avuto una risposta per quel che è successo alla loro meravigliosa figlia e adesso non l’hanno più. Tutti dovrebbero pensare a loro, a come si sentono”.

Come il Dipartimento di Stato, anche il New York Times aveva forse pronto un doppio commento. Ma il suo elogio della giustizia italiana è condito di elementi d’autocritica: "Se Amanda fosse stata processata negli Stati Uniti, ora t'ora potrebbe facilmente essere in attesa dell’esecuzione", osserva Timothy Egan sul sito del quotidiano. Egan nota che "il sistema giuridico italiano dà a ogni condannato una seconda chance sostanziale, un appello davanti a nuovi giudici"; e fa un parallelo col caso di Trevor Davis, "messo a morte dallo stato della Georgia in settembre, nonostante gran parte dei testimoni avessero ritrattato la loro testimonianza". Davis era un nero di 42 anni, sulla cui colpevolezza gravavano molti dubbi: e' stato giustiziato nonostante interventi a suo favore di papa Benedetto XVI o dell'ex presidente americano Jimmy Carter (un georgiano). Il NYT considera la sua vicenda "una barbarie" e "un tragico caso di malagiustizia".

Non mancano le contraddizioni, nell’orgia mediatica della notte di Amanda che rinasce e di Meredith di nuovo uccisa. La studentessa americana riceve le attenzioni di una star: sala d’attesa vip a Fiumicino, addirittura suite reale durante il transito all’aeroporto di Heathrow a Londra; e s’appresta a ‘monetizzare’ la sua popolarità: interviste, memorie, diritti d’immagine possono valere milioni di dollari. Nella vicenda tragica, non mancano neppure gli infortuni clamorosi: i siti di Daily Mail, Sun e altri media britannici danno, per un minuto e mezzo, la notizia al contrario –Amanda condannata-; e il Daily Mail, che ha aperto sull’episodio un’inchiesta interna, completa la frittata con il commento dell’accusa inventato di sana pianta –“Giustizia è fatta”- e con il pianto di disperazione d’Amanda –le lacrime c’erano, ma di gioia-. Forse, l’errore è venuto dalla conferma della condanna per diffamazione nei confronti di Patrick Lumumba.

I media inglesi, oltre che sulla giustizia italiana, spargono veleno sugli imputati assolti. Il Daily Mail si rifà della svista con “Libera di farsi una fortuna. Ora per Foxy milioni di Hollywood e una nuova vita come ‘martire professionale dell'ingiustizia’". L’Independent dichiara la Knox “destinata a danarosa ma dubbia fama”. La Bbc invece vede segnali di misoginia nel ritratto di Amanda dipinto dai media. Il Times di Londra, il Telegraph, il Guardian e tutti gli altri, nessuno dimentica Meredith e i Kercher.

L’ ‘amandamania’ contagia tutta la stampa europea. E quella americana mette il gran pavese, a cominciare, ovviamente, dal Seattle Times (“Finalmente libera”). Ma ci sono distinguo: la Cnn ricorda che “la verità sull'uccisione di Meredith non è ancora emersa”; mentre, sulla Fox, la giudice Usa Jeanine Pirro elogia i colleghi italiani. “Libera” è la parola più ricorrente: le tv danno il vedetto in diretta, i siti ci aprono. Ma il San Francisco Chronicle fa i conti in tasca ad Amanda, che ha già offerte di lavoro: una radio di Seattle le offre 10mila dollari per lo show del mattino per una settimana; e soldi veri arriveranno dai talks shows, dai libri e dai film (Lifetime channel sta già lavorando a una riedizione del suo).