Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/10/2011
Meglio nella tomba che alla sbarra: il filo rosso di un pensiero inconfessabile cuce fra di loro le dichiarazioni un po’ rituali che accompagnano la notizia dell’uccisione di Muammar Gheddafi, colonnello dittatore, prima nemico bandito, poi amico accettato di un Occidente distratto nella difesa, in Libia, dei diritti dell’uomo e dei valori della democrazia, perché petrolio e gas, lì, contavano di più. Fatta salva la pietas sempre concessa a una persona morta, c’è, in molti commenti, la convinzione che la fine della guerra è più vicina e il senso d’una sorta di ‘missione compiuta’, anche se nessuno, nemmeno l’Onu, aveva affidato all’Alleanza atlantica il compito di scovare e uccidere il leader libico.
Il sollievo nasce anche dalla considerazione che un Gheddafi vivo sarebbe stato ingombrante per i nuovi leader libici e per i suoi nemici delle ultime settimane, che furono suoi amici almeno negli ultimi dieci anni, dopo il suo sdoganamento dal’inferno dei protettori del terrorismo internazionale e la sua collocazione nel limbo di quelli con cui fai affari cercando, però, di averci poco a che fare. Naturalmente, con una gradualità d’atteggiamenti: dal distacco americano alle strette di mano francesi; dal baratto britannico del ‘boia di Lockerbie’ con un po’ di commesse fino al bacio dell’anello italico.
Ve lo immaginate un Gheddafi da custodire prigioniero prima e da chiamare alla sbarra poi, per rendere conto dei crimini suoi e del suo regime? Ci sarebbe stato da litigare fra i nuovi libici e i loro alleati: i primi volevano processarlo ‘in casa’; i secondi fare valere il mandato di cattura della Corte dell’Aja, spiccato per crimini contro l’umanità. Quali che fossero i giudici, libici o, a maggior ragione, internazionali, il Colonnello poteva denunciare la combutta con il suo regime di molti degli attuali capi ribelli, oppure chiamare a rendere conto della loro amicizia nei suoi confronti i leader che lo avevano sdoganato, Bush jr e Blair, o quelli che gli avevano lasciato piantare la sua tenda nei loro giardini, Berlusconi e Sarkozy, senza parlare di una miriade di signorotti africani e del Terzo Mondo. Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss, dice in un tweet: “Un’esecuzione di Gheddafi sembra probabile e pure logica: un processo internazionale sarebbe stato troppo imbarazzante”.
Un’Italia di complici – E, invece, Berlusconi può ora cavarsela con un classico, ma sbrigativo e, soprattutto, fuori luogo, “Sic transit gloria mundi”, lui che di Gheddafi aveva fatto un grande amico, abbracci, genuflessioni e processioni di vergini ai corsi d’Islam del rais. Il latino vale al Cavaliere uno sberleffo di Famiglia Cristiana, “more solito”: “da uno che gli ha baciato l’anello non potevamo aspettarci che una glorificazione in morte”. Una battuta destinata a restare nell’antologia delle frasi celebri e infelici di Mr B, accanto a quella “non gli ho ancora telefonato per non disturbarlo” detta all’inizio dell’insurrezione. Fortuna che, come al solito, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci mette dignità e misura, “s’è chiusa una pagina drammatica”.
Il ministro degli esteri Franco Frattini si tiene più sull’usato sicuro, “L’uscita di scena di Gheddafi –da apprezzare l’under statement tutto britannico, ndr- è una grande vittoria del popolo libico”; e sotto a ricordare il ruolo dell’Italia nel conflitto, così come fa il ministro della difesa Ignazio La Russa, che attribuisce al fu dittatore la colpa, anzi l’invenzione, “del risentimento libico per il colonialismo italiano”, con tutto il bene che gli abbiamo fatto a quella brava gente. Il leader leghista Bossi va al sodo: “adesso subito a casa i libici clandestini”. E l’eurodeputato Mario Borghezio incastona nella tiara delle banalità la perla di un “onore al templare di Allah”.
Se Gheddafi non c’è più, l’intreccio di affari tra Italia e Libia resta: il petrolio e il gas dell’Eni, che ha già provveduto da sé a metterseli al sicuro, le partecipazioni in Unicredit, Finmeccanica, Fiat, Juventus e molte altre società, i soldi depositati nelle nostre banche, le oltre cento aziende italiane che operano laggiù. Nessuno può dire che piega prenderà la nuova Libia; ma noi sappiamo per cento che ne saremo amici, anzi che ne vorremo essere i migliori amici.
Un Mondo di spettatori - Mentre la ricostruzione delle circostanze dell’uccisione di Gheddafi s’intreccia già con intuizioni e invenzioni – ne avremo per decenni, come per l’uccisione di Osama bin Laden-, sul web parte il dibattito sulla pubblicazione delle immagini della fine del dittatore: foto da voyeurs dell’orrore o documenti storici? E, intanto, le reazioni s’inanellano. Prima del presidente Obama, parla il segretario di Stato Clinton, che solo martedì era a Tripoli: “La fine di Gheddafi non significa, di per sé, la fine delle violenze”.
Il premier britannico Cameron dedica un pensiero alle vittime del dittatore; il presidente francese Sarkozy saluta “l’inizio di un nuovo periodo di democrazia e di libertà”; entrambi sono “orgogliosi” del ruolo giocato dal loro Paese nella vicenda libica. I leader dell’Ue e della Nato sono su lunghezze d’onda analoghe –e l’Alleanza valuta se e quando dichiarare conclusa la missione-. Il presidente russo Medvedev auspica, ora, “la pace”. E il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon chiede di “fermare i combattimenti” e dice che “non è tempo di vendetta, ma di riconciliazione”. Che gli alleati, e i libici, lo ascoltino.
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