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martedì 31 luglio 2012

Crisi: euro, e improvvisamente va tutto bene. Perchè ora?

Scritto per EurActiv il 31/07/2012

E, improvvisamente, va tutto bene. Le parole pronunciate a Londra giovedì scorso dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi sono state, si direbbe, il crinale dell’estate dell’euro: da quel momento, la Germania appare convertita alla rapida attuazione delle decisioni del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno e i mercati sembrano finalmente convinti della fermezza della Bce e dei governi. Il ministro del Tesoro americano Tim Geithner, in Europa per tastare il polso della crescita ai partner e per chiedere anch’egli l’attuazione delle decisioni di un Vertice, quello del G20 di Los Cabos in Messico, distribuisce incoraggiamenti e ‘satisfecit’.

Nel ‘dopo Draghi’, il ritornello dei leader, che pubblicano comunicati congiunti a valanga, Francia-Spagna, Germania-Francia, Italia-Germania –e, oggi, prevedete un Italia-Francia-, è diventato “siamo pronti a tutto per sostenere l’euro” . Ma perchè?, viene da chiedersi, prima non lo erano?-. E, ancora, perchè c'è voluto un mese per decidere di attuare le conclusioni, già acquisite, del Vertice della Crescita?

Certo, meglio la prudenza che l’euforia: il fronte tedesco non è proprio unito, con fibrillazioni nella coalizione al potere e le reticenze della Bundesbank all’azione della Bce; e i mercati sono sempre pronti all’inversione di tendenza, se dovessero captare un calo del vento in poppa all’euro e, soprattutto, se la riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, giovedì, dovesse alimentare il sospetto d’un bluff.

Ma l’inizio della settimana pare incoraggiante. Ieri, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble e Geithner hanno ribadito la fiducia nell'Eurozona, hanno discusso dell’azione congiunta Ue-Bce e hanno avuto parole d’apprezzamento per le riforme di Italia e Spagna e gli sforzi considerevoli fatti dai due Paesi, avvertendo, però, che bisogna proseguire sulla strada delle riforme –silenzio, invece, sulla Grecia, ma quella è, forse, un’altra storia-. Geithner ha anche parlato con il ministro francese Pierre Moscovici e ha incontrato Draghi.

E il governo tedesco ha dato via libera all’acquisto di titoli di Paesi in crisi da parte della Bce, giudicato compatibile coi Trattati dell’Unione ed i poteri della Banca centrale europea, mentre la Commissione di Bruxelles ricordava che nessuna richiesta d’attivazione dello scudo anti-spread è stata finora avanzata. Del resto, da quando soffia il vento di Draghi, le borse vanno su a ogni giro e lo spread s’è allontanato dalle ‘quote Berlusconi’ su cui era tornato.

Sul fronte italiano, nonostante Standard & Poor tagli le stime sulla crescita, prevedendo un calo del Pil del 2,1% nel 2012 e ancora dello 0,4% nel 2013, l’asta dei Btp va bene e il premier Mario Monti avvia con qualche ottimismo il suo giro delle capitali: oggi a Parigi, domani a Helsinki, giovedì a Madrid. Dopo la metà di agosto, Monti è stato invitato a Berlino dalla Merkel, con cui ha avuto sabato una telefonata: Italia e Germania hanno convenuto di prendere “tutte le misure necessarie a proteggere l’eurozona” e hanno ribadito la volontà che “vengano attuate senza alcun ritardo le conclusioni del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno”.

Giovedì, ci sarà pure l’appuntamento chiave della Bce, preceduto e preparato da un confronto bilaterale al massimo livello fra Bce e Bundesbank: il Consiglio direttivo, questa volta, non dovrebbe ritoccare al ribasso i tassi di interesse, ma dovrebbe decidere di agire sul mercato dei titoli di stato dei paesi sotto attacco. I mercati se lo attendono, dopo le dichiarazioni di Draghi e quelle dei leader: “Se la decisione dovesse arrivare –scriveva ieri su EurActiv Giuseppe Latour-, l’ostacolo di agosto potrebbe passare senza conseguenze. Ma, se non dovesse arrivare, potrebbe partire un’altra tempesta speculativa”. Lo sanno i leader europei; e lo sa il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che, informato sull'esito dei colloqui di Geithner, dice che l'Europa continua a costituire un problema, anche se si dice fiducioso che l'Unione non permetterà lo smantellamento dell'euro, "ma "servono azioni decise e, prima sarà, meglio sarà".

lunedì 30 luglio 2012

Calciopoli: Signor Conte, per favore, non patteggi

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 30/07/2012

Gentile Signor Conte, sono uno dei tanti milioni di tifosi juventini e desidero rivolgerle una preghiera, come tifoso e come persona. Premetto che della vicenda per cui lei è stato deferito alla giustizia sportiva per omessa denuncia non so nulla di più di quel che dicono i media: informazioni sovente contraddittorie, in cui fatti e opinioni formano un groviglio quasi inestricabile. Certo, accade spesso e in ogni campo, nel giornalismo italiano. Ma questa è un’aggravante, non un’attenuante: lo lasci dire a me, che faccio il giornalista da una vita e ci sbatto contro il naso ogni giorno.

Non voglio qui discutere l’accuratezza dell’inchiesta, la fondatezza delle accuse, le contraddizioni delle conclusioni del procuratore federale: non ne ho né gli strumenti né la competenza e, forse, neppure la serenità necessari. Né voglio rinvangare il passato, Moggiopoli, la serie B, le prescrizioni, i fariseismi degli ‘scudetti degli onesti’ e di chi tiene loro bordone. E non voglio neppure amplificare l’importanza di questa storiaccia, ché altri sono i problemi dell’Italia e del Mondo.

Io non so se lei sia innocente o colpevole, ma mi piace crederla innocente, perché lei si proclama tale, perché lei è l’allenatore della Juventus e perché lei ne è un simbolo e una bandiera: ho tifato per lei sul campo e in panchina e tifo ancora per lei. Bene: se lei è innocente, Signor Conte, per favore, non patteggi, come leggo e sento dire possa fare. Capisco i vantaggi, per lei e per la Juventus, di una soluzione del genere; ma se è innocente, per favore, non lo faccia.

Patteggiare vorrebbe dire riconoscersi colpevoli, arrendersi alla logica dell’opportunismo invece di battersi per la giustizia. Perché, anche se è solo quella sportiva, pur sempre di giustizia si tratta. Le posso dire, Signor Conte, che molti, moltissimi tifosi juventini la pensano come me: faccio parte d’un gruppo di giornalisti e comunicatori ‘bianconeri’ –pochi si occupano di sport, professionalmente- che dibattono del caso con passione e con intensità; e posso dirle che il no al patteggiamento è largamente prevalente, oltre che essere già stato espresso con forza e competenza da colleghi più autorevoli di me (e altrettanto juventini).

Patteggiare, per ragionevole che sia, costerà immensamente in termini d'immagine a lei e alla Juventus: come spiegare, come accettare, che siccome Conte è innocente ma non lo può provare gli conviene riconoscersi colpevole?, come continuare a dire ‘ero innocente’ se accetti e, addirittura, negozi una sanzione per qualcosa che dice di non avere fatto? Questa mattina, un amico e collega, Antonio Foresi, citava, in uno scambio di mail, Winston Churchill, che, in una vicenda infinitamente più tragica di questa, a chi patteggiò con Adolf Hitler e gli lasciò, per quieto vivere, mano libera contro i Sudeti profetizzò: "Dovevate scegliere fra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore. Avrete la guerra".

E, allora, Signor Conte, meglio battersi perché la verità emerga e perché un sistema che privilegia i furbi rispetto agli onesti sia riformato: affermare la propria innocenza, denunciare le altrui incongruenze, sfruttare una credibilità che lei ha e che, se patteggia, non avrà più. E se, alla fine, lei sarà condannato a una pena più pesante di quella che avrebbe patteggiato, pazienza: la Juventus e noi tifosi la aspetteremo con rispetto e affetto superiori a quello che riusciremo a dimostrarle se lei scende a patti, se lei rinuncia a un pezzo di dignità sua e juventina per ottenere in cambio non giustizia, ma uno sconto sull’ingiustizia. Lo abbiamo già fatto e stiamo ancora cercando di venirne fuori: “Trenta sul campo”, lei che c’era lo sa; il resto sono chiacchiere.

Se lei, invece, fosse colpevole, patteggi pure, paghi il suo debito come la giustizia sportiva le consente di fare. E perdoni questa mia ingenua ingerenza. Ma lei, Antonio, è innocente; e, allora, la prego, non patteggi. Suo, Giampiero Gramaglia

Twitter e Transatlantico: chi 'cinguetta' meglio in politica

Pubblicato da Media Duemila online il 310/07/2012

‘Twitter e Transatlantico: il potere di Twitter in politica’ è il titolo di una tesi, interessante e documentata, molto tecnica e poso ‘gossippara’, che Francesco Maria Marziale ha discusso a luglio alla Sapienza, a Scienza della Comunicazione, conseguendo con lode la laurea specialistica. Francesco Maria, che è stato seguito nel suo lavoro dal professor Stefano Scarcella Prandstraller, è un giovane con le idee chiare, che sente come vocazione –parole sue-  “il web, la comunicazione e il marketing politico”, cui ha dedicato sia la tesi triennale che, ora, quella specialistica.

L’indagine condotta per la ricerca –ci basiamo sulle slides presentate in fase di discussione- indaga “il ruolo delle strutture delle reti interpersonali dei politici del Pd, di Pdl e Lega” nella formazione e circolazione dell’informazione politica. L’obiettivo è trovare coincidenze o differenze significative nell’utilizzo di Twitter e individuare quali politici e quali partiti utilizzino questo mezzo “in maniera più omogenea, trasmettendo un messaggio coerente”, e quelli abbiano “una più elevata densità di connessione”. Francesco Maria ha preso in considerazione deputati, senatori e presidenti di Regione in carica al momento della raccolta dei dati, che avevano un account Twitter attivo, e ha analizzato tutti i tweets prodotti in un arco di termo di dieci mesi, dal 1.o gennaio al 31 ottobre 2011.

L’ipotesi di fondo è che la coesione delle strutture di rete di politici appartenenti  allo stesso partito si riflette nella coesione dei contenuti dei messaggi: minore è la distanza e maggiore è l’intensità delle relazioni tra una coppia di attori, più simile sarà il contenuto dei loro tweets. Il metodo d’analisi è scientifico e complicato: individua 64 nodi per il Pd e 59 per il Pdl e solo 9 per la Lega - ovvio siano di meno, essendo meno i soggetti potenzialmente coinvolti -.

Concentrandosi sui due maggiori partiti, i tweets esaminati sono stati 15.168 per il Pd e 6.868 per il Pdl, che utilizza, dunque, lo strumento con un’intensità inferiore di più della metà al Pd. Se la nostra interpretazione dei dati raccolti è corretta, il network Twitter del Pd è più denso e più coeso di quello del Pdl.

Il dato della centralità pesata consente di individuarne i protagonisti: lato Pd, ai primi cinque posti vi sono Dario Franceschini, primo, davanti al segretario Pierluigi Bersani, terzo, di cui fu antagonista alle primarie, insieme a due account collettivi Deputati Pd, secondo, e Pdnetwork, quinto. C’è un outsider: Ettore Rosato, deputato, triestino, relativamente giovane (44 anni), ma già con esperienze di governo nel Governo Prodi. Lato Pdi, invece, i ‘tweettomani’ sono, e chissà perché ci stupiamo poco, Renato Brunetta, Franco Frattini, Angelino Alfano e Mara Carfagna, nell’ordine, tutti, al tempo dell’inchiesta, ministri del governo Berlusconi –Alfano, a un certo punto, divenne segretario del Partito- e tutti davanti all’account collettivo Govberlusconi.

L’ambizione professionale di Francesco Maria è –ancora parole sue- “fare consulenza e supporto strategico nella definizione di piani di comunicazione politica attraverso l’uso sinergico di tutti i mezzi di comunicazione, da quelli tradizionali ai ‘social network’, con particolare attenzione alle nuove forme di partecipazione politica non-convenzionali”: il mestiere che si taglia addosso è quello di ‘online political communication strategist’, un profilo professionale sfaccettato, che richiede competenze trasversali, già sviluppato negli Stati Uniti, ma ormai necessario anche qui, a chi voglia fare con successo una campagna elettorale. Sfruttando Twitter con competenza.

domenica 29 luglio 2012

Usa 2012: - 100 al voto, Obama è vulnerabile

Scritto per il blog de Il Fatto il 29/07/2012

Ci sono 100 giorni esatti tra oggi e il 6 novembre, l’Election Day negli Stati Uniti. Eppure, l’ora della scelta per la Casa Bianca appare lontanissima, sul calendario e nell’interesse dei media nazionali e internazionali. Conclusasi in aprile la competizione per la ‘nomination’ repubblicana, l’attenzione è calata. In Europa, c’è la crisi dell’euro; in Medio Oriente, c’è la repressione dell’insurrezione in Siria; e, ora, c’è l’estate e ci sono pure i Giochi di Londra, a distrarre giornali e opinione pubblica. Eppure, la partita a due tra il presidente uscente Barack Obama, democratico, primo nero alla Casa Bianca, e lo sfidante repubblicano Mitt Romney, mormone, moderato, appare, a questo punto, molto più incerta di quanto non si pensasse: Obama resta favorito, ma è vulnerabile.

Proprio una sua ‘grande elettrice’, quell’Europa che, però, non depone schede nelle urne, è divenuta negli ultimi mesi il maggiore handicap del presidente Obama: dopo avere ‘importato’ dall’America la crisi del 2008, l’Europa fatica a innescare la crescita e compromette, con i suoi modesti risultati, anche la ripresa americana, che pure è stata nella prima metà del 2012 un po’ migliore del previsto. Ma i tassi di disoccupazione restano nettamente superiori alla soglia di rielezione dei presidenti del passato: siamo all’8,2% e non dovrebbe scendere di molto di qui alla fine dell’anno, se proprio va bene al 7,9%.

I sondaggi più affidabili continuano ad attribuire al presidente un vantaggio sullo sfidante, statisticamente poco rilevante, ma costante. Però il margine si va riducendo, ma mano che la fiducia nel presidente si erode su dossier decisivi, in particolare sulla sua capacità di rilanciare l’economia. Secondo gli analisti più accreditati, Obama conserva due possibilità su tre di essere confermato, soprattutto perché è avanti nella dozzina di Stati in bilico che detengono le chiavi del successo – Florida, Ohio e Pennsylvania sono i più delicati -. Dalla parte di Romney, c’è invece la massa di denaro che i grandi gruppi e la finanza stanno facendo confluire nelle sue casse, armandolo per la fase più intensa della campagna.

Che, a – 100 dal D-Day, conosce una fase di stanca. E’ normale che sia così: questo tra luglio e agosto è periodo di vacanza e di rallentamento dell’attività anche negli Usa. E la competizione si sposta fuori dal territorio nazionale: si guarda alla visita di Romney in Israele, che diventa una sorta di spot in un Paese alleato, ma il cui governo non s’è mai inteso con l’Amministrazione Obama. O si accendono fiammate nella scia della cronaca, come il dibattito, destinato a scemare, sul controllo delle armi dopo la strage di Batman a Denver. Oppure si intrecciano chiacchiere e anticipazioni su chi saranno i ‘team mates’ dei due candidati, se Obama farà ancora ticket con Joe Biden o cambiera squadra e punterà, eventualmente, al ‘dream team’ con Hillary Clinton; e se Romney si metterà al fianco un numero due complementare –ultra-conservatore?, donna?, nero?, o ispanico?-.

Le luci sulla campagna storneranno ad accendersi con le conventions, a cavallo tra fine agosto e inizio settembre –a Tampa, i repubblicani; a Charlotte, i democratici-; e, poi, ci saranno i dibattiti, tre fra i candidati presidente e uno fra i loro vice, in Colorado, a New York, in Florida e Kentucky. Sempre nell’attesa, o nella speranza, a seconda di come si mettono le cose, di quella sorpresa d’ottobre che tutti aspettano sempre e che non arriva quasi mai.

sabato 28 luglio 2012

Ue: crisi. Merkel e Hollande aiutano Draghi a fermare gli spread

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/07/2012

Forse, questa è la volta buona: l’Unione europea potrebbe presto attuare una strategia di difesa dell’euro e dell’eurozona concertata ed efficace, nella scia della sortita di giovedì del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Ieri mattina, in realtà, la Bundesbank aveva assestato una bacchettata sulle dita a Draghi, che si sarebbe spinto troppo in là: aveva avvertito di continuare a essere contraria all’acquisto di bond da parte della Bce ed a dare una licenza bancaria al fondo salva Stati.

Ma da Berlino il Governo le aveva subito dato sulla voce: “Faremo tutto quello che è politicamente richiesto per mantenere insieme l’euro –era la linea della cancelleria scandita dai portavoce-, rispettiamo l’indipendenza della Bce”. E, poi, nel pomeriggio arriva una dichiarazione congiunta della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese François Hollande: “L’integrità dell’euro è un obbligo”, sono pronti a fare di tutto per difendere la moneta unica e condividono la necessità di una rapida attuazione dello scudo anti-spread.

Partita apparentemente chiusa, Al punto che, in serata, la Bloomberg apprende che Draghi e il governatore della Bundesbank Jens Weidmann dovrebbero incontrarsi nei prossimi giorni, per cercare di superare le differenze su una serie di misure per ridurre gli spread. L’obiettivo è arrivare allineati e preparati al consiglio direttivo della Banca centrale europea il 2 agosto.

L’uscita mattutina della Bundesbank, in realtà, faceva eco alla pioggia di critiche a Draghi della stampa tedesca dopo la sua intemerata difesa dell’euro e del ruolo della Bce. Ma l’euforia dei mercati si attenuava solo per qualche ora: sostenuti dalle dichiarazioni politiche, incoraggiati dalle indiscrezioni di Le Monde, le borse chiudono di nuovo in deciso rialzo (Milano sfiora il + 3%) e gli spread non si surriscaldano –quello italiano si ferma a 456, sui minimi dall’inizio di luglio-. Secondo il quotidiano francese, c’è un piano di Bce e fondo salva Stati per frenare i differenziali italiano e spagnolo: un meccanismo di acquisto dei titoli di stato dei Paesi sotto attacco sul mercato secondario, che ricalcherebbe quanto la Banca fece già lo scorso anno coinvolgendo, però, sia l’Efsf –il fondo attualmente esistente- sia l’Esm –il fondo che dovrebbe entrare in vigore il 1.o ottobre.

E’ anche vero che la giornata vede infittirsi le notizie positive. In Italia, l’asta dei Bot semestrali segna il miglior risultato dal maggio scorso, con tassi in calo di mezzo punto: vengono collocati titoli per 8,5 miliardi con una domanda pari a 13,7 miliardi. E il pil Usa nel secondo trimestre segna una crescita dell’1,5%, migliore delle stime –anche il dato del primo trimestre viene rivisto al rialzo, dall’1,9 al 2,0%- Solo dalla Spagna continuano a giungere notizie preoccupanti: la disoccupazione sale al 24,6%, il massimo dal 1976, il livello più alto dalla morte del caudillo Francisco Franco. L’Fmi fa sapere che, senza un intervento della Bce, il Paese rischia di trovarsi a corto di liquidità. E il governo di Madrid smentisce le voci di un piano di salvataggio in fieri da 300 miliardi, dopo averne appena incassati cento per trarre d’impaccio le banche.

Nonostante le critiche della stampa e i sospetti di bluff avanzati dai giornali britannici, le parole di Draghi paiono davvero annunciare una strategia finalmente concordata per far uscire la zona euro dall’angolo dove sembrava rintanata. Rimasto un po’ in disparte in questa fase, mentre fioccavano le dichiarazioni congiunte – quella franco-spagnola mercoledì, quella franco-tedesca ieri -, il premier italiano Mario Monti cercherà di rientrare nei giochi, recandosi la prossima settimana in Francia e in Finlandia. Obiettivi: definire un calendario per unione bancaria e scudo antispread; consolidare il rapporto con la Francia di Hollande, di nuovo venata, si direbbe, di nostalgie di direttorio; e vincere le resistenze della Finlandia, uno dei pochi Paese ancora solidi nella tripla A delle agenzie di rating e fra i meno inclini allo scudo anti spread. A Helsinki, tra mercoledì e giovedì, Monti vedrà il premier Jyrki Katainen e il presidente della Repubblica Sauli Niinsto.

La resistenza della Bundesbank a che la Banca centrale europea assuma il ruolo di agente del fondo salva Stati è di vecchia data: gli acquisti di bond da parte di Francoforte renderebbero –è la tesi- “confusa la demarcazione tra politica monetaria e fiscale”, dando di fatto alla Bce un ruolo stile Fed che formalmente non ha. Del resto, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, che pure accoglie con favore le dichiarazioni di Draghi, sottolinea che le misure vanno prese “nell’ambito del mandato vigente”. Insomma, si discute ancora, ma del come, non del se.

giovedì 26 luglio 2012

Crisi: SuperMario il pifferaio magico dell'euro e dello spread

Scritto per EurActiv il 26/07/2012 e, in altra versione, per il blog de Il Fatto il 27/07/2012

Parla SuperMario, anzi il SuperMario di Francoforte, ché noi ce n’abbiamo una scorta, da Roma a Manchester, e non vola più la mosca di uno spread. Come serpenti cobra al flauto di un fachiro, i mercati s’acquietano, anzi si ringalluzziscono: a quelli che vendevano, viene voglia di comprare; e gli spread scendono. Eppure, senza volere nulla togliere a SuperMario, non è che il presidente della Banca centrale europea abbia detto nulla di nuovo né di sorprendente: ha detto, con linguaggio preciso e conoscenza approfondita dei dossier, quello che aveva già detto in passato e che, comunque, doveva dire. E, si noti, ha solo parlato: non ha ancora fatto nulla. Se il potere taumaturgico delle sue parole non sarà stato sufficiente, la Bce dovrà fare seguire i fatti alle parole, magari nella riunione del comitato direttivo del 2 agosto. E, a quel punto, forse, non saranno proprio tutte rose e fiori.

Le cronache dell’Europa ‘pre euro’ sono piene di governatori di banche centrali e di ministri delle finanze, specie italiani, ma anche irlandesi, e pure spagnoli e francesi, che giuravano il venerdì sera sulla intangibilità della loro moneta e il sabato mattina ne annunciavano la svalutazione. Qualche volta mascherata da rivalutazione del marco, che così pareva meno brutto.

Ora, il fatto che Draghi dica che la Banca centrale europea, all’interno del proprio mandato, è pronta a fare qualunque cosa per preservare l’euro - sia pure rincarando la dose con la formula di sfida “credetemi, questo bastera” - e che dichiari fiducia nella intangibilità della moneta unica, nel permanere della Grecia nell’euro e nella sconfitta della speculazione conforta gli spiriti semplici come me. Ma davvero basta a fare battere in ritirata finanzieri che sono squali?

Per un giorno, è bastato. Ma le settimane a venire di questa traversata del deserto estivo restano zeppe d’incognite e di pericoli. E, poi, l’Europa non ha molti altri Draghi da spendere. Ché, se le stesse cose le avessero dette, come pure capita loro di dirle, Olli Rehn, o Manuel Barroso, o anche Jean-Claude Juncker, sarebbero state, in misura magari a scalare, spallucce e sorrisetti: “difese d’ufficio”, le avrebbero catalogate i mercati e la speculazione.

Evidentemente, Draghi ha ancora da giocarsi un capitale che altri non hanno mai avuto o hanno già molto eroso: la credibilità e la fiducia, Però, anche lui deve stare attento a non consumarlo: se nei prossimi giorni l’effetto da pifferaio magico delle sue parole a Londra dovesse stemperarsi, se le borse dovessero riprendere a bruciare ricchezza e lo spread a mangiarsi sacrifici e manovre, la Bce, a questo punto, a quel punto, dovrà intervenire. Perché le parole, se restano tali, senza fatti, quando dei fatti c’è bisogno, si svalutano più in fretta della lira di una volta; o di una dracma fuori dall’euro.

Euro: la Commissione e Hollande, attuare subito accordi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/07/2012

La Commissione europea dà via libera alla ricapitalizzazione delle banche spagnole in difficoltà, come previsto dal memorandum d'intesa sottoscritto tra l'Eurogruppo e il governo di Madrid. E, nella riunione del Consiglio dei Ministri a Parigi, il presidente francese François Hollande insiste sulla necessità “di dare attuazione rapida e certa” alle decisioni del Vertice europeo di fine giugno. Per la Commissione, l'applicazione delle conclusioni del Vertice procede già "a piena velocità": Bruxelles presenterà ai primi di settembre la proposta sulla supervisione unica bancaria.

Sotto tiro sui mercati, la Spagna ha ricevuto ieri qualche fievole conforto tecnico e politico: martedì a Berlino, ieri a Parigi, il ministro delle finanze De Guindos incontra i colleghi tedesco Schaeuble e francese Moscovici, ricavandone dichiarazioni d’impegno e sostegno. Anche se i tedeschi, quando si parla delle decisioni del 28 e 29 giugno, pensano all’Unione bancaria e i francesi, come spagnoli e italiani, allo scudo anti-spread.

I mercati non si acquietano: la giornata è nervosa; le borse vanno meglio dei giorni precedenti e chiudono in attivo, dopo aperture incerte; lo spread italiano schizza a 541, scende sotto 520 e, dopo ulteriori altalene, chiude a 513; quello spagnolo arriva a 636, poi s’assesta a 602. Ma il tasso decennale spagnolo tocca un nuovo record dalla creazione dell’euro a 7,6%, segno della sfiducia degli investitori verso il paese iberico. Sulle borse, più che sullo spread, incidono le assicurazioni dei portavoce di Bruxelles e di Berlino, secondo cui le voci di pressioni sulla Spagna perché chieda ancora aiuto all’Europa, subito dopo avere ottenuto cento miliardi per le sue banche, sono “errate”.

Diverso, invece, il quadro per la Grecia, che sembra quasi spinta, dalla pressione dei suoi creditori, verso un default, dopo l’ennesima missione della troika Commissione-Bce-Fmi (un’altra è già annunciata per settembre). Oggi, per la prima volta dal 2009, sarà in visita ad Atene il presidente dell’esecutivo Ue Barroso. Per nove aziende greche su dieci, il primo semestre 2012 è stato la fase più nera della crisi.

In Germania, il barometro del clima degli affari peggiora: a luglio era al livello più basso da oltre due anni, segno che la crisi condiziona il morale degli imprenditori. E le banche tedesche chiedono di rinviare di un anno, al 1.o gennaio 2014, l’attuazione di Basilea 3, un pacchetto di regole che danno un giro di vite alle condizioni di operatività degli istituti di credito.

mercoledì 25 luglio 2012

Storie vere: Ama Roma, abbasso la 'lancia', viva la ramazza

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 25/07/2012

Storie vere. Da quando, un bel po’ di tempo fa, ormai, gli operatori ecologici dell’Ama, l’Azienda municipale ambiente di Roma,  sono stati dotati di un nuovo micidiale strumento - io le chiamo ‘le lance’ - gli abitanti delle vie alberate della capitale hanno un cruccio in più e dormono sonni meno tranquilli: armati delle lance –o come correttamente si chiamino non so-, gli operatori ecologici ‘spazzano’ i marciapiedi di detriti d’ogni sorta e genere, foglie, cicche, cartacce, deiezioni canine (sono le cacche dei cani, quelle –e sono un sacco- non raccolte da quei pochi benedetti padroni che seguono la passeggiata del loro fido con paletta e secchiello).

Se ho capito bene, ma posso sbagliarmi, lo scopo delle lance sarebbe di ripulire i marciapiedi e gettarne le sozzerie in pasto a quelle macchine lente e rumorosissime che seguono i ‘lanciatori’ sulla carreggiata, come gli opliti seguivano i veliti, e che dovrebbero trangugiare l’ammasso di mondezza prodotto.

Solo che le lance, o per un qualche difetto strutturale, o per qualche imperizia degli operatori addetti, magari quelli giovani e meno esperti, chi lo sa, sortiscono effetti secondari quanto mai sgradevoli e inopportuni. Mal indirizzato dai getti, il ‘rudo’, cioè la sporcizia, invece di finire sulla carreggiata, s’infila sotto i portoni dei palazzi e ne invade gli androni. Così la mattina il percorso verso l’uscita, per andare al lavoro o dove si voglia, è tra detriti di ogni genere. E anche le griglie delle finestre dei seminterrati o delle cantine restano intasate di sporcizia.

Ci sono cittadini che, quando le lance s’annunciano di lontano, si piazzano come sentinelle di fronte ai portoni, per impedire lo scempio. Una volta, ho provato a mostrare all’operatore ecologico di turno l’effetto del suo passaggio: me n’è parso costernato, ma la volta successiva il danno s’è riprodotto. Adesso, poi, le lance e le loro micidiali macchine accompagnatrici passano di notte, almeno nel mio quartiere: e se scendi a presidiare il portone con il pigiamino estivo alle due del mattino rischi di passare per matto.

Così, le notti trascorrono nell’incertezza –verranno?, o non è il turno?- e nell’ansia di che cosa potrà mai accadere in autunno, quando le foglie cadute moltiplicheranno negli androni l’effetto perverso delle lance. Mica voglio fare il cantore del buon tempo antico e delle vecchie ramazze: quelle, si sa, scopavano poco e magari male;  ma almeno non facevano danni. Però, magari, dopo questo post, qualcuno dell’Ama mi spiega la logica delle lance: l’androne sarà sempre sporco, ma io mi sentirò informato e ne avrò il cuore netto.

Olimpiadi: chissà se davvero un tempo fermavano le guerre

Pubblicato su AffarInternazionali il 25/07/2012

Lo impariamo da bambini che, per le Olimpiadi, le guerre si fermano. Cioè, insomma, si fermavano, forse, nell’antichità, perché poi nessuno va mai a verificare se Alessandro Magno o Giulio Cesare o chi voi vogliate abbiano mai rispettato davvero la tregua olimpica. La tradizione antica fissa la nascita dei Giochi nel 776 a .C. e la loro ultima celebrazione nel 393 d. C. Qualche studioso ritiene che anche prima della data d’inizio altre manifestazioni di alto livello venissero organizzate: Omero, sia nell'Iliade che nell'Odissea, racconta di corse anche con carri che paiono episodi di gare organizzate. E, parallelamente alle Olimpiadi, altri Giochi si svilupparono, un po’ come noi abbiamo campionati mondiali e continentali ad addobbare l’attesa, e ad alimentare il business, di ogni quadriennio.

Dei Giochi Olimpici antichi, lo storico più importante, un padre della storia ecclesiastica, Eusebio di Cesarea, ha redatto una sequenza esatta, inserita in un contesto universale che parte dalla nascita di Abramo e arriva ai ventennali di Costantino, cioè fino al 325 d.C. La ricerca di Eusebio evidenzia l'importanza dei Giochi presso gli antichi: divennero la base della cronologia greca e il termine olimpiade veniva utilizzato non solo per indicare le competizioni, ma anche per designare (con accanto il nome del vincitore della corsa dello "stadio" e della sua città di origine) il periodo dei quattro anni del ciclo olimpico, con fatti ed avvenimenti salienti. Insomma, ad adottare quel sistema, noi staremmo vivendo l’anno IV della 29.a Olimpiade, Bolt, Kingston.

Però, i Giochi moderni le guerre non le arrestano. Anzi, è vero il contrario: le guerre li fermano. E’ già accaduto tre volte, tant’è vero che quelli di Londra sono i 30.i Giochi dell’era moderna, ma in realtà se ne sono disputate finora solo 26 edizioni: ‘saltarono’ nel 1916, quando i Giochi dovevano farsi a Berlino, ma tedeschi e francesi stavano nelle trincee ad ammazzarsi; e, poi, nel 1940 e nel ’44, quando le Olimpiadi dovevano farsi rispettivamente a Roma – lo Stadio Olimpico è un retaggio di quell’edizione abortita- e Londra. E nessuno s’illuda che conflitti ‘minori’, non mondiali, magari solo intestini a un Paese, conoscano tregue olimpiche: in Siria, per esempio insurrezione e repressione continueranno, a dispetto dello spirito dei Giochi e degli appelli dell’Onu. Ha un bel predicare Benedetto XVI, all’Angelus che precede l’inaugurazione, che la Chiesa guarda con simpatia alle Olimpiadi, perché siano esperienza di fraternità e pace: “Il maligno –avverte il papa- semina la guerra”.

E il maligno s’insinua anche ai Giochi. Lasciamo stare le diavolerie prettamente sportive, che pure ci sono e, ovviamente, non dovrebbero esserci: il doping individuale e di Stato; e anche i trucchi, le furberie, i drammi. Pensiamo, piuttosto, a come, nel tempo, ma abbastanza rapidamente, i Giochi siano divenuti un momento di propaganda, prima, e uno strumento d’amplificazione di cause giuste e sbagliate, l’occasione di farsi sentire e, talora, temere.

Complici, magari involontariamente, le logiche del Cio nell’assegnare le Olimpiadi, spesso criticate: i Giochi assegnati di fila a Berlino nel ’36 e a Roma nel ’40 paiono quasi un riconoscimento a due dei totalitarismi più agghiaccianti del XX Secolo. Uno dice: “Sì, però a Mosca non gli diedero”. Solo perché l’Urss ne restò fuori fino al 1952: quando scese in campo, fu subito scontro ideologico con gli Usa e l’Occidente, quasi che il medagliere fosse giudice della superiorità dell’uno o dell’altro sistema politico ed economico.

E’ nel secondo dopoguerra, e con l’accesso all’Indipendenza delle Colonie, che i Giochi acquisiscono davvero una dimensione planetaria. Anche se alcune immagini della prima fase appartengono, comunque, all’immaginario collettivo italiano –qualche esempio: Dorando Pietri, Londra, 1908, o Nedo Nadi, Anversa, 1920; o Luigi Beccali, Los Angeles, 1932; o Ondina Valla, primo oro femminile, Berlino, 1936- e universale. Sono nella memoria dell’umanità Spiridione Loues, Paavo Nurmi, Jim Thorpe, soprattutto il salto in lungo di Jesse Owens: le quattro medaglie d’oro complessive del campione nero, a Berlino, davanti ad Adolf Hitler e nello stadio della superiorità ariana, sono tuttora un eccezionale testimonial dello spirito olimpico.
Londra è la prima città ad ospitarli una terza volta, ma le edizioni del 1904 e del 1948 non furono certo né universali né grandiose. Due volte i Giochi si sono fatti a Parigi, ma in tempi lontanissimi, il 1900 e il 1924, e a Los Angeles, nel 1932 e nel 1984. Quelli di Roma 1960 sono i primi Giochi come li intendiamo noi oggi: una metropoli che si rimodella e s’attrezza per ospitarli, dopo averli attesi invano nel ’40, e che dà lo sfondo dei suoi monumenti e della sua storia all’immagine simbolo di quell’edizione, la maratona vinta a piedi nudi da Abele Bikila, un etiope, l’alfiere d’una ex colonia proprio italiana, l’archetipo degli uomini degli altipiani destinati a dominare fondo e mezzofondo. L’altra immagine tutta italiana di quei Giochi è il volo di colombe all’arrivo di Livio Berruti vincitore dei 200 metri piani, uno degli ultimi bianchi a imporsi nella velocità dopo di lui, solo Valery Borzov, automa russo, lo scozzese Allan Wells e ancora nel 200, Pietro Mennea-.
Le Olimpiadi davvero universali si gonfiano d’eventi, diventano business e spettacolo. E pretesto e proscenio di proteste e violenze. Città del Messico, 1968, un anno predestinato, conosce, fuori dagli stadi, la strage degli studenti sulla piazza delle Tre Culture a Tlatelolco e, dentro gli stadi, la contestazione palese e silente delle Pantere Nere. Ma è a Monaco, 1972, che i Giochi diventano luogo e momento di lutto e terrore: l’irruzione d’un commando palestinese nel villaggio olimpico, l’attacco assassino a una palazzina d’atleti israeliani, la strage che ne consegue, non fermano le Olimpiadi, ma le cambiano per sempre. Dopo Monaco, la sicurezza è divenuta uno degli elementi cardine dell’apparato olimpico, senza per altro impedire a un esaltato bombarolo di colpire con un ordigno fra la folla degli spettatori a Atlanta, 1996.
Le successive sono edizioni esposte alle contestazioni politiche e ideologiche: per tre volte consecutive, Montreal 1976, Mosca 1980 e Los Angeles 1984, la partecipazione subì defezioni e i Giochi furono monchi, per il boicottaggio rispettivamente degli africani, di parte degli occidentali – in seguito all’invasione dell’Afghanistan da parte della Russia (gli italiani lasciarono a casa solo i militari) - e dei Paesi comunisti, come ritorsione per Mosca.
Seul 1988 segna il ritorno alla normalità politica, ma anche l’esplosione della consapevolezza del doping: ci sono i misfatti di Ben Johnson, i misteri di Florence ‘unghie lunghe’ Griffith-Joyneer. Barcellona 1992 è l’esempio dei Giochi di successo per antonomasia: bene organizzati, ben gestiti, nel segno della festa perché il Mondo non è più diviso fra buoni e cattivi dalla Cortina di Ferro e non è più in guerra né fredda né calda (il conflitto del Golfo s’è chiuso da oltre un anno).
Quella resta, oggi, l’edizione di riferimento per chiunque progetti di ospitare le Olimpiadi, anche se non lasciò tracce indelebili a livello sportivo. La città ne uscì abbellita e non sul lastrico, come, invece, accadde nel 2006 ad Atene e a tutta la Grecia, che ancora si devono riprendere dal flop. E dire che i giochi ad Atene dovevano logicamente tornarci nel 1996, nell’edizione del Centenario, quando invece toccarono all’insipida Atlanta, nel segno della Coca Cola e della Cnn.

Perché, oggi, le Olimpiadi sono sì festa sportiva, ma sono soprattutto marketing commerciale e politico. Con Pechino 2008, i Giochi hanno riconosciuto la potenza mondiale della Cina, non solo economica, ma anche diplomatica e organizzativa (e sportiva: più ori degli Usa, più ori di tutti). Un po’ quello che Tokyo 1964 fu per il Giappone; e un po’ quello che Rio de Janeiro 2016 sarà per il Brasile come simbolo dei Paesi emergenti. I Giochi che non fermano le guerre almeno sublimano i conflitti: gli atleti in pista sono l’incruenta versione attualizzata degli Orazi e Curiazi.

martedì 24 luglio 2012

Euro: "subito lo scudo", giallo su una nota che esce ma non c'è

Scritto per EurActiv il 24/07/2012

Un presunto appello congiunto di Italia, Francia e Spagna per l’attuazione “immediata” delle decisioni prese dal Consiglio europeo del 28 e 29 giugno, prima comparso sul sito internet del governo spagnolo e poi rimosso, crea un giallo diplomatico, nella giornata in cui lo spread italiano torna sui livelli del 17 novembre 2011 e va pure oltre.

Secondo fonti francesi, citate dalle agenzie di stampa, la Moncloa ha fatto rimuovere il post contestato dopo un’esplicita richiesta in tal senso del governo francese. E il ministro francese per gli affari europei Bernard Cazeneuve nega che sia stata presa una simile iniziativa, nel corso della riunione di oggi a Bruxelles del Consiglio dei Ministri dell’Ue per gli Affari Generali –per l’Italia, c’era il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero-. Anche Palazzo Chigi si dichiara “non al corrente” della presunta mossa congiunta, la cui notizia, anzi, avrebbe lasciato “a bocca aperta” Roma e Parigi.

Il giallo agita, a mercati chiusi, una giornata estremamente negativa per lo spread, che, dopo un’iniziale calo a 502 punti, è risalito e ha chiuso a 537, cioè oltre il livello del 17 novembre 2011, il giorno del passaggio di consegne tra Silvio Berlusconi e Mario Monti, col rendimento dei Btp a 10 anni al 6,59%. Peggio ancora lo spread spagnolo, che chiude a 638. In calo le borse, con Milano a -2,7%.
La necessità di attuare o, comunque, di rendere operative le decisioni, per ora rimaste sulla carta, specie per quanto riguarda lo scudo anti-spread, del Vertice europeo è comunque stata evocata più volte, anche dopo che un portavoce della Commissione europea aveva dichiarato che nessun Paese ha finora chiesto l'attivazione dello scudo, nemmeno la Spagna: "Questo strumento - aveva detto il portavoce a Bruxelles, riferendosi alla possibilità che il fondo salva-Stati esistente Efsf acquisti titoli di Stato sul mercato - può essere usato su richiesta degli Stati e finora nessuno l’ha avanzata".

In Italia, il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera diceva che “è ora che l’Europa dia un segnale per bloccare lo spread”, mentre il premier Monti, ieri, a Mosca, aveva attribuito l’aumento dello spread anche alle incertezze dell’Europa nell’attuare le decisioni prese. Intanto, in spagna, una terza Regione, la Catalogna, è stata costretta a chiedere sostegno finanziario al governo centrale.

Olimpiadi: le città dei Giochi, chi rinasce e chi fa flop

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/07/2012

Quelli di Londra sono i 30.i Giochi dell’Era Moderna, ma, in realtà, se ne sono disputate finora solo 26 edizioni: se, nell’antichità, le Olimpiadi fermavano le guerre, ai tempi nostri sono state le guerre a fermare le Olimpiadi, nel 1916 – quando la città prescelta era Berlino -, nel 1940 – quando sarebbe toccato a Roma - e nel 1944. Londra è la prima città ad ospitarli una terza volta, ma le edizioni del 1904 e del 1948 non furono certo né universali né grandiose. Due volte i Giochi si sono fatti a Parigi, ma in tempi lontanissimi, il 1900 e il 1924, e a Los Angeles, nel 1932 e nel 1984.

E’ nel secondo dopoguerra, e con l’accesso all’Indipendenza delle Colonie, che i Giochi acquisiscono davvero una dimensione planetaria. Anche se alcune immagini della prima fase appartengono, comunque, all’immaginario collettivo italiano –Dorando Pietri, a Londra, nel 1908, o Nedo Nadi, a Anversa nel 1920- e universale: il salto in lungo di Jesse Owens e le quattro medaglie d’oro complessive del campione nero, a Berlino, davanti a Hitler e nello stadio della superiorità ariana, sono tuttora un potente testimonial dello spirito olimpico.

Le logiche del Cio nell’assegnare le Olimpiadi spess sfuggono alla comprensione e sono criticate: pensiamo ai Giochi assegnati di fila a Berlino nel ’36 e a Roma nel ’40, quasi un riconoscimento a due dei totalitarismi più agghiaccianti del XX Secolo; e, in tempi più recenti, pensiamo ai Giochi del 1996, quelli del Centenario, che tutto pareva destinare ad Atene, da dove l’avventura moderna era ripartita, e che invece toccarono all’insipida Atlanta, nel segno della Coca Cola e della Cnn.

Roma 1960 – Sono i primi Giochi come li intendiamo noi oggi: una metropoli che si rimodella e s’attrezza per ospitarli, dopo averli attesi invano nel ’40 –l’Olimpico è un retaggio dei preparativi dell’edizione abortita-, e che offre lo sfondo dei suoi monumenti e della sua storia all’immagine simbolo di quell’edizione, la maratona vinta a piedi nudi da Abele Bikila, un etiope, l’alfiere d’una ex colonia proprio italiana, l’archetipo degli uomini degli altipiani destinati a dominare fondo e mezzofondo. L’altra immagine tutta italiana di quei Giochi è il volo delle colombe all’arrivo di Livio Berruti vincitore dei 200 metri piani, uno degli ultimi bianchi a imporsi nella velocità –dopo di lui, solo Valery Borzov, automa russo, lo scozzese AllanWells e ancora nel 200, Pietro Mennea-.

Monaco 1972 – E’ quando i Giochi diventano luogo di lutto e terrore: l’irruzione d’un commando palestinese nel villaggio olimpico, l’attacco a una palazzina di atleti israeliani, la strage che ne consegue, non fermano le Olimpiadi, ma le cambiano per sempre. Il sangue aveva già macchiato i Giochi, a Città del Messico nel 1968, con la strage di studenti sulla piazza delle Tre Culture a Tlatelolco; e lo farà ancora ad Atlanta, dove un esaltato bombarolo fece esplodere un ordigno fra la folla di un evento para-olimpico. Ma dopo Monaco la sicurezza è divenuta uno degli elementi cardine dell’apparato olimpico.

I Giochi sono anche stati esposti alle contestazioni politiche: per tre edizioni consecutive, Montreal 1976, Mosca 1980 e Los Angeles 1984, la partecipazione subì defezioni, per il boicottaggio rispettivamente degli africani, di parte degli occidentali – in seguito all’invasione dell’Afghanistan (gli italiani lasciarono a casa solo i militari) - e dei Paesi comunisti, come ritorsione per Mosca.

Barcellona 1992 – L’esempio dei Giochi di successo per antonomasia: bene organizzati, ben gestiti, nel segno della festa per il ritorno della Spagna alla democrazia. Quella resta, oggi, l’edizione di riferimento per chiunque progetti di ospitare le Olimpiadi, anche se non lasciò tracce indelebili a livello sportivo. La città ne uscì abbellita e non sul lastrico, come, invece, accadde nel 2006, ad Atene e a tutta la Grecia, che ancora si devono riprendere dal flop.

Pechino 2008 – Gli ultimi Giochi, quelli che hanno riconosciuto la potenza mondiale della Cina, non solo economica, ma anche politica e organizzativa (e sportiva: più ori degli Usa, più ori di tutti). Un po’ quello che Tokyo 1964 fu per il Giappone; e un po’ quello che Rio de Janeiro 2016 sarà per il Brasile come simbolo dei Paesi emergenti.

Euro: crisi, una vestale e una sub nel club dei signori dell'euro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/07/2012

Le sorti dell’euro, la moneta unica di oltre 330 milioni di cittadini europei, sono in mano a un club relativamente ristretto: cinque persone, nessuna delle quali esercita il potere sull’euro in virtù di un’elezione popolare. Nessuna tranne una: la cancelliera tedesca Angela Merkel, teutonica vestale del rigore e dei conti in ordine, la donna che veniva dall’Est eletta e confermata alla guida del governo tedesco. Tutti gli altri ‘signori dell’euro’ sono stati scelti da loro pari, nominati più che eletti.

Oltre a Frau Angela, il club comprende un banchiere italiano, un avvocato lussemburghese, un calciatore finlandese, una sub francese. Ad essi, rispondono, in qualche modo, i premier dello spread, Mario Monti in Italia, un tecnico che ne sa più di molti di loro, e due politici portati alla guida dei loro Paesi più dai disastri dei loro predecessori che dai loro meriti, lo spagnolo Mariano Rajoy e il greco Antonio Samaras.

Il banchiere italiano è Mario Draghi, 65 anni, presidente della Bce dal 1.o novembre 2011, dopo essere stato, dal 2006, governatore di BankItalia, succedendo ad Antonio Fazio. Economista, manager, con un’esperienza internazionale riconosciuta ed apprezzata –dal 2006 al 2011, fu presidente del Financial Stability Board-. Competenza ed esperienza non gli sarebbero comunque valse il posto che oggi occupa se l’anno scorso l’allora governatore della Bundesbank, Axel Weber, destinato alla Bce, non si fosse dimesso in seguito a un contrasto con la cancelliera Merkel: fuori Weber e dentro Draghi, come Monti uno di quei rari ‘italiani tedeschi’ che Angela apprezza.

L’avvocato lussemburghese è Jean-Claude Juncker, laurea in giurisprudenza ed iscritto all’albo della professione, senza averla mai esercitata. Juncker ha fatto sempre il politico: ha solo 58 anni, ma tutti lo credono molto più vecchio, perché fa il premier ininterrottamente da 17 anni –è il capo di governo con il più lungo stato di servizio permanente ed effettivo dell’Unione europea ed attualmente del Mondo-. Dalla creazione dell’Eurogruppo, il consesso dei ministri delle finanze dei paesi dell’euro, Juncker ne è il presidente: sembrava dovesse lasciare l’incarico a fine giugno, è stato confermato per un altro termine, ma ha detto che cederà il posto ad altri a fine anno. L’incarico potrebbe andare a un francese, l’attuale ministro delle finanze Pierre Moscovici.

Il calciatore finlandese è Olli Rehn, da giovane titolare nella squadra della sua cittadina, Mikkeli, nella serie A finnica –non gran che, come referenza sportiva, ammettiamolo-, poi subito in politica, come si fa da noi, ma, in genere, non dalle parti sue. Rehn, 50 anni, è al secondo mandato da commissario europeo: vice del presidente Barroso, è responsabile degli affari economici e monetari. Competente, ma senza carisma; preciso, ma senza calore; Rehn è il pompiere della squadra: getta acqua sul fuoco delle polemiche, ma smorza pure le fiammate d’entusiasmo che possano nascere.

La sub francese è anche l’intruso di questo club. Davvero non si capisce, infatti, perché il Fondo monetario internazionale debba avere tanta voce in capitolo negli affari europei. Lì, all’Fmi, comanda Christine Lallouette Lagarde, che, nonostante sia divorziata, conserva il nome del marito: 48 anni, avvocato di successo specializzata nelle cause di concorrenza e di lavoro, ministro a più riprese, ‘votata’ dal Financial Times miglior ministro delle finanze dell’Eurozona, la Lagarde, come Draghi, sta dov’è per un caso fortuito: il suo predecessore, Dominique Strauss-Khan, francese come lei, perse il posto nella primavera 2011 per una squallida e contorta vicenda di cui fu protagonistae pure vittima. E così la Lagarde si trovò proiettata, secondo Forbes, nella ‘top ten’ delle donne più potenti al mondo e nel club dell’euro, a stringere il cappio al collo dei Paesi in difficoltà con le regole da neo-colonialismo finanziario della sua istituzione.

lunedì 23 luglio 2012

Ue: euro, sette settimane di fibrillazione estiva

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/07/2012 e, in versione diversa, per EurActiv il 23/07/2012

Venerdì 20 luglio, la settimana dell’Ue e dell’euro era finita male. Oggi, lunedì 23, comincia peggio: borse in caduta libera, l’euro ai minimi dall’inizio della crisi, spread italiano a 520, spagnolo al 625. Le decisioni dell’Eurogruppo del 20 e le notizie uscite nel fine settimane non erano certo fatte per tranquillizzare governi, mercati e cittadini.

Eccone una piccola antologia, con fonti spesso eccellenti. Uno studio su dati dell’Fmi, della Banca mondiale e dei governi nazionali ci dice che ci sono 21 mila miliardi di dollari nei paradisi fiscali, sottratti a ogni tassazione. E uno studio di BankItalia ci rivela che le retribuzioni medie sono presso che ferme, che in dieci anni il reddito medio degli operai è sceso di 442 euro. E ancora Der Spiegel afferma che l’Fmi vuole bloccare gli aiuti alla Grecia, che non rispetterebbe i patti, e che Berlino non considererebbe una iattura l’uscita di Atene dall’euro (la reazione della Commissione europea è stata cauta: “Non
sappiamo da dove vengano queste informazioni al giornale tedesco”).


Per essere una domenica, e d’estate poi, i titoli dei tg, quasi fotocopie l’uno dell’altro, ieri davano l’ansia: “Ore d’apprensione in Europa” –diceva La7-, alla vigilia della riapertura dei mercati, che, sia per detto per inciso, chiudono ogni venerdì e riaprono ogni lunedì; “Le difficoltà della Spagna, dove diverse regioni sono sull’orlo del fallimento, potrebbe fare precipitare la situazione”, scandiva il Tg3; e fortuna che il Tg1 eliminava i titoli perché c’era il GP di Formula 1, che se no sarebbe stata la stessa solfa.

Certo, ci sono pure segnali di segno diverso. Monti, ad esempio, va a Mosca, pur dopo avere denunciato che “il contagio è già in atto”, e dà una sensazione – non proprio la migliore, considerati i precedenti - di ‘business as usual’. E la Bce resta ottimista: “L’euro, assicura Draghi, è irreversibile”, anche se la strada della ripresa rimane in salita; e l’Eurozona va verso un’unione di bilancio.

Dobbiamo abituarci (e rassegnarci): sarà probabilmente così, e forse peggio, per sette week-end, di qui all’inizio di settembre: sembra un film, è la nostra realtà. L’estate incoraggia la speculazione, perché i movimenti sono pochi e incidere sulle quotazioni è più facile, e la rarefazione delle notizie induce alle drammatizzazioni.

Occupazione, produzione, persino inflazione, lo spread, il debito, Spagna e Italia nel mirino, le voci di un euro doppio (ma che sarà mai?): non c’è notizia economica che non dia i brividi. E non sono sufficiente a calmarci, né a calmare i mercati, che conta di più, le rassicurazioni del presidente Napolitano (“per preservare il nostro benessere e ridare fiducia ai giovani, servono istituzioni europee politicamente più forti”) e del premier Monti (“non abbiamo bisogno di nuove manovre: ce la caveremo da soli”).

Mi sarei sentito più tranquillo se, venerdì, l’Eurogruppo non avesse svuotato il vecchio fondo Salva Stati, senza che il nuovo sia pronto: non sarà utilizzabile prima del l 1.o ottobre, visto che la Corte costituzionale tedesca s’è presa tempo fino al 12 settembre per pronunciarsi, alla faccia dell’urgenza e della crisi.

Sette week-end così, li reggeremo?, e li reggerà l’euro? Poi Alonso vince: i titoli della sera erano rosso Ferrari, non rosso debito. E sul podio il pilota –Auguri per il Mondiale!- si mette un pizzico d’ironia: vince in Germania, a Hockenheim, un’auto italiana con conduttore spagnolo e ingegnere greco. Che, come già accadde ad Euro 2012, lo sport dia lezione alla politica ed all’economia?


sabato 21 luglio 2012

Crisi: Eurogruppo, aiuti alla Spagna non fermano il contagio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/07/2012

La Spagna avrà subito 30 miliardi di euro per sostenere le sue banche a rischio default. E, presto, potrà impegnare nell’azione di tamponamento fino a 100 miliardi di euro: l’ammontare esatto sarà definito dopo una nuova serie di stress test. Ma questi interventi svuotano il vecchio fondo salva Stati Ue, l’Efsf. E il nuovo, l’Esm, non entrerà in funzione prima del 1.o ottobre: bisogna, infatti, attendere la pronuncia della Corte costituzionale tedesca, il 12 settembre.

Il rush del Parlamento italiano, che giovedì aveva ratificato il Patto di Bilancio e l’Esm, sarà stato un inutile exploit. La zona euro, fino all’autunno, resterà esposta alle intemperie della crisi, senza più protezioni. Di che preoccupare gli analisti e innervosire i mercati: agosto è mese di tempeste finanziarie ingigantite dalla rarefazione degli scambi.
Prese senza colpo ferire in un paio d’ore di videoconferenza, le decisioni dell’Eurogruppo, già confezionate, non tranquillizzano le borse e neppure acquietano la tensione sociale in Spagna: secondo gli analisti, i mercati restano sotto l’incubo di un contagio della Grecia a Spagna e Italia, nonostante il ministro delle finanze tedesco Schaeuble assicuri che l’Italia non avrà problemi.
La Spagna, invece, ce li ha: chiude la settimana con uno spread a 610, quota Berlusconi, mentre l’Italia finisce a quota 500, che è meglio, ma non è certo bene. E. infatti, Madrid deve ancora incassare che già rilancia: chiede una nuova intesa anti spread, in attesa che lo scudo si materializzi. Mentre la protesta sociale continua: dipendenti statali in agitazione bloccano il traffico in varie città, ci sono arresti e feriti. La regione di Valencia chiede di essere salvata dalla bancarotta, il governo estende le previsioni di recessione al 2013.
Gli aiuti alla Spagna per ricapitalizzare le sue banche, deliberati all’unanimità dopo la richiesta fatta il 25 giugno, avranno, dunque, una cubatura massima di 100 miliardi di euro, ma una prima tranche da 30 miliardi partirà, in ogni caso, già nei prossimi giorni. Secondo la nota dell’Eurogruppo, l’obiettivo è “salvaguardare la stabilità finanziaria dell’eurozona nel suo insieme”.
L’intervento comunitario non è vincolato al rispetto di condizioni draconiane, in stile Grecia. Madird, infatti, “manterrà la piena responsabilità” della sua politica finanziaria. L’assistenza dell’Eurozona sarà “accompagnata da una politica di condizionalità” concentrata –si sottolinea, però- sul settore finanziario. In sostanza, saranno applicate 32 misure contenute in un memorandum d’intesa, che Eurogruppo e Spagna firmeranno nei prossimi giorni. Vi sono piani di ristrutturazione delle banche, in linea con le regole dell’Ue sugli aiuti di Stato, e riforme strutturali settoriali che comprendono iniziative come la separazione degli asset problematici, la ristrutturazione della governance, modifiche ai sistemi di vigilanza. Insomma, il settore bancario spagnolo s’appresta a subire un vero e proprio commissariamento europeo, con le missioni di una nuova troika, Commissione europea, Bce ed Eba. Ma ciò non vale per l’economia iberica nel suo insieme.
Il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn conferma queste impressioni: il programma di aiuti alla Spagna, dice in conferenza stampa, “è molto chiaro”. Si tratta di “avere banche sane, regolate in modo efficace e controllate in modo rigoroso, capaci di alimentare una crescita economica sostenibile”.
I soldi necessari saranno prelevati dall’Efsf, che non avrà nessuno status di creditore privilegiato, contrariamente a quanto era avvenuto in passato in casi analoghi, in particolare per la Grecia: incasserà il suo credito esattamente come tutti gli altri finanziatori del debito pubblico spagnolo. Però, con questo intervento, dopo quelli a favore di Portogallo, Irlanda e Grecia, l’Efsf resta praticamente vuoto.
E, così, il muro di fuoco anti-speculazione, fortemente invocato dal premier italiano Mario Monti, si riduce a una siepe che un bambino può scavalcare. E fin quando non partirà l’Esm resterà in stallo pure lo scudo antispread: i due sono, infatti, strettamente collegati, perché il meccanismo di stabilità dovrà alimentare l’acquisto di titoli dei Paesi sotto attacco, secondo uno schema concordato in linea di massima al Vertice della Crescita di fine giugno, ma ancora da definire nei dettagli.
Salvo drammi d’agosto, l’Eurogruppo si riunirà di nuovo a settembre. Quando dovrebbe pure tornare sull’agenda la situazione della Grecia.

Siria: i giorni più cruenti, il regime teme un 8 Settembre

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/07/2012

Mentre in Siria l’intensità degli scontri tocca il culmine dall’inizio dell’insurrezione –quasi 250 vittime giovedì, il bilancio più cruento in 16 mesi di proteste e repressione-, le Nazioni Unite, dopo giorni di ‘tira e molla’ e un veto di Russia e Cina, approvano all’unanimità una risoluzione che proroga la missione dell’Onu, l’Unsmis, per un periodo di 30 giorni.

In pratica, il Consiglio di Sicurezza prende tempo: le Nazioni Unite non abbandonano il campo, ma neppure intensificano la pressione sul regime di Damasco perché il presidente Assad lasci il potere e avvii la transizione. La risoluzione non menziona le sanzioni né fa riferimento all’eventualità dell’uso della forza e lascia uno strascico di polemiche tra Washington e Mosca.

Il testo tiene conto delle raccomandazioni del segretario generale Ban Ki-moon: ulteriori rinnovi della missione sono subordinati alla cessazione dell'uso di armi pesanti sul territorio e a un calo della violenza che consenta ai membri di Unsmis di operare senza eccessivi pericoli. E, invece, sul terreno gli scontri s’intensificano. La speranza, a questo punto, è quella di una sorta di 8 Settembre delle forze armate lealiste: un rapporto molto aggiornato dell’Iiss di Londra non lo esclude, ma neppure lo dà per imminente.

Gli analisti dell’Istituto osservano: “Il numero dei disertori è in aumento al punto da creare dubbi sulla coesione dell’esercito. Una parte dei soldati di leva e del personale in servizio permanente effettivo si rifiuta di combattere. L’Esercito siriano libero, composto in gran parte di transfughi, è capace di organizzare attacchi su piccola scala contro le forse lealiste, che, però, hanno il controllo degli armamenti pesanti”.

Il regime potrebbe non disporre di forze lealiste sufficienti a garantirgli la sopravvivenza in caso d’insurrezione armata attiva, soprattutto se le violenze si diffondono ulteriormente nel Paese –ieri, si combatteva ad Aleppo, oltre che a Damasco, mentre migliaia di profughi si dirigevano verso le frontiere-.Ma la spallata deve venire dall’interno: non verrà dall’esterno.

Le Nazioni Unite, complice la posizione di Russia e Cina, se ne lavano le mani, malgrado le notizie dalla Siria, pur contraddittorie e impossibili da verificare, siano quelle d’un bollettino di guerra. L’Ue si appresta a inasprire le sanzioni lunedì, ma limita il proprio intervento alle azioni umanitarie. Il ministro Terzi, incita “a dare la sensazione ad Assad che è finito”, ma esprime anche timore per la presenza “di forze jihadiste”. Altre ambasciate chiudono, vari Paesi s’apprestano ad evacuare i proprio cittadini.

Per la tv di Stato, le unità del regime hanno ‘ripulito’ il centro della capitale dai ribelli, mentre fonti degli insorti riferiscono che i posti di frontiera con la Turchia e con l’Iraq sono in mano ai ribelli. Voci d’una partenza di Assad, diffuse da fonti diplomatiche russe, vengono smentite, ma il regime ammette la morte del capo dell’intelligence ferito nell’attentato di mercoledì. Monsignor Nassar, vescovo maronita di Damasco, riferisce di “enormi distruzioni” nella capitale, dove la situazione è “un’apocalisse”.

Con una popolazione di 22 milioni e mezzo di abitanti, dove un cittadino su due ha meno di 20 anni e neppure uno su 25 ha più di 65 anni, e un pil pro capite di 2.760 dollari nel 2011,  la Siria dispone, secondo i dati dell’Iiss di Londra, di forze armate composte da 295mila uomini (220mila nell’esercito, 5mila in marina, 30mila in aeronautica e 40mila nella difesa aerea) e di 108mila paramilitari, oltre a una riserva di 314mila uomini, quasi tutti dell’esercito.

Nell’analisi dell’Iiss, le forze armate siriane sono essenzialmente addestrate alla sicurezza interna, cioè alla repressione “brutale”: il nemico non è più Israele, con cui non c’è più partita, ma l’opposizione. Le unità d’elite sono leali al regime, mentre le unità dell’esercito convenzionali, considerate meno affidabili, non vengono di solito impegnate contro il dissenso e vengono dislocate nelle regioni meno turbolente.

Nel 2011, prima l’Ue, il 20 maggio, poi la Lega Araba, il 3 dicembre, hanno decretato embarghi sulle vendite di armi alla Siria –per la Lega Araba, una prima assoluta-. Ciò non ha impedito al regime di Damasco di collocarsi, secondo il Sipri di Stoccolma, al 25.o posto nella classifica mondiale dell’import di armi. Le misure dell’Ue e della Lega hanno avuto, almeno nel 2011, scarsissimo impatto: l’import di armi siriano è infatti passato da 299 a 291 milioni di dollari, è cioè rimasto sostanzialmente invariato. I fornitori del 2011, come quelli del 2010, sono praticamente solo due: la Russia, con 294 e 246 milioni di dollari di armi vendute, e l’Iran, salito da 5 a 45 milioni di armi.

Le spese per gli armamenti sono state nel 2011 pari a 2.490 milioni di dollari, cioè il 4,1% del pil: una percentuale alta, ma nettamente inferiore a quella delle grandi potenze militari. E, in passato, la Siria aveva speso molto di più in percentuale del pil, oltre il 6%, senza contare i bilanci dei tempi di guerra con Israele.

giovedì 19 luglio 2012

Rosella è libera: la gioia e l'ipocrisia

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 19/07/2012

Rossella Urru è libera, presto sarà a casa: W Rossella, che in questi nove mesi di paura, spesso di silenzio, talora di false speranze, è stata nel cuore e nei pensieri di tutti noi. Rossella non era una turista del rischio, andatasi a cacciare in una situazione pericolosa per un misto d’incoscienza e d’insipienza: a 30 anni, è una persona che ha scelto di essere utile al proprio prossimo, una cooperante esperta e appassionata, da due anni in Algeria con il Cisp, il Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli. Al momento del sequestro, era nel sud del Paese, in un campo di profughi saharawi, una di quelle cause disperate calata nella memoria della mia generazione, anche se il tempo è passato e uno non si ricorda neppure bene la storia della gente nel deserto tra Marocco e Algeria.

Rossella è libera, presto sarà a casa. La soddisfazione, la gioia, il sollievo sono di tutti; e tutti li esprimono, dal presidente della Repubblica al premier al ministro degli Esteri, alle autorità d’ogni grado e d’ogni credo. La gente di Samugheo, il suo paese, in provincia di Oristano, suona le campane a festa ed espone uno striscione nuovo, ‘Liberata’, una constatazione, una certezza, al posto di quello vecchio, ‘Libera’, che era una speranza, un appello. Siamo tutti contenti perché Rossella - lo sentiamo, lo sappiamo, l’abbiamo vista in questi mesi nelle foto dal campo - è, come dice il ministro della cooperazione, Andrea Riccardi, “una figlia dell’Italia migliore”.

Rossella è libera: per lei, è finita bene. La memoria va a Franco Lamolinara, l’ingegnere di Gattinara ucciso nel marzo scorso, con un altro ostaggio britannico, nel nord della Nigeria, durante un blitz fallito delle forze di sicurezza locali e inglesi, che avevano voluto tentare un’irruzione nel covo dei sequestratori, mentre i servizi italiani stavano trattando la loro liberazione. E l’ansia corre a Giovanni Lo Porto, siciliano, cooperante anch’egli, catturato il 19 gennaio con un collega tedesco nel Punjab, in Pakistan, da allora nelle mani –pare- d’un gruppo di talebani: è l’unico italiano nel Mondo attualmente sequestrato.

Nelle cronache, la soddisfazione, la gioia, il sollievo per Rossella s’intrecciano con l’interrogativo scontato in questi casi: c’è stata trattativa?, è stato pagato un riscatto?  E scatta l’ipocrisia rituale: nessun riscatto, nessuna trattativa. Ora, io non ho idea se vi sia stato negoziato e se sia stata pagata una somma o altro, ma certo non troverei né sorprendente né scandaloso se ci fosse stato riscatto e baratto, soldi o prigionieri. Capisco che si mantenga il riserbo sul quanto e sul come, ma perché non volere ammettere quella che appare un’evidenza? Nelle vicende degli ostaggi, si sa che americani e britannici tendono a non trattare, mentre gli altri, tedeschi e francesi, spagnoli e italiani, ma anche giapponesi e coreani, quando tocca a loro, danno la precedenza alla salvezza del seauestrato piuttosto che alla salvaguardia dei principi.

Tanto più che le bugie, anche quelle non necessarie, anzi forse soprattutto quelle, hanno le gambe corte: secondo i mediatori del Burkina Faso, Rossella e i due cooperanti spagnoli rapiti con lei e trattenuti – ppare – da gruppi in combutta con al Qaida sono stati liberati in cambio di tre estremisti islamici, due detenuti in Mauritania e uno in Niger. Addirittura, se è vera, una storia da intrigo internazionale, dietro cui ci starebbe un lavorio diplomatico e di intelligence di cui andare magari fieri e non da negare.

Siria: ore decisive, attacco al regime, Onu in stallo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/07/2012

Siria, ore decisive. E drammatiche. E sanguinose. Tre alti responsabili della difesa e della sicurezza sono stati uccisi –fra di essi, il cognato del presidente Bachar al-Assad- e numerosi altri sono rimasti feriti in un attacco contro la sede degli apparati di repressione del regime. L’attentato, il primo contro ministri dall’inizio dell’insurrezione nel marzo 2011, è stato rivendicato dall’Esercito siriano libero, composto in massima parte da disertori, che, martedì, aveva annunciato l’inizio della battaglia per la liberazione di Damasco, mentre i combattimenti già infuriavano nella capitale con decine di vittime –e, ieri, sarebbero state un centinaio-.

La guerra civile ha ormai investito in pieno la capitale. L’azione terroristica, forse opera di un kamikaze, forse di un infiltrato, forse d’una ex guardia del corpo –le ricostruzioni sono ancora contraddittorie-, fa fuori il ministro della Difesa e il suo vice e il capo dell'intelligence militare. Secondo gli attivisti anti-regime, tutte le vittime erano “membri della cellula di crisi che dirige le operazioni contro i ribelli". L’Esercito siriano libero preannuncia nuove azioni e reitera l’invito a “quanti non hanno le mani sporche di sangue” a lasciare il presidente Assad entro la fine del mese: “Se no, li considereremo complici”.

E’ il giorno che lo spettro del terrorismo torna a gravare sul Medio Oriente: nei pressi di Burgas, in Bulgaria, un kamikaze fa un massacro su un bus di israeliani, almeno sette morti, oltre 20 feriti. La strage di Damasco conferma che la componente terroristica è ormai forte nell’insurrezione anti-Assad. La scelta dell’Occidente di lasciare che la rivolta si armasse, piuttosto che di disarmare il regime, ha radicalizzato lo scontro, portando in prima linea gli oltranzisti pro-Assad, da una parte, e gli integralisti all’apposizione, dall’altra. Se il disegno era quello di isolare l’Iran, minandone l’alleato siriano, il risultato è stato un bagno di sangue, indipendentemente dalla scarsa attendibilità dei bilanci di parte forniti, e una frattura diplomatica.

L’escalation della violenza in Siria, evidente da giorni, nonostante l’intensità dello scontro fosse già tragica, non ha infatti rotto lo stallo nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove Russia e Cina continuano a bloccare una risoluzione sul rinnovo della missione di monitoraggio delle Nazioni Unite (Unsmis), appoggiata da Usa e Paesi europei. Neppure un colloquio telefonico tra i presidenti Obama e Putin sblocca la situazione: il voto slitta a oggi, o a chissà quando. Mosca intende porre il veto su qualsiasi documento menzioni sanzioni contro il regime di Damasco ed evochi il capitolo 7 della Carta Onu, quello che regola il ricorso alla forza.

Sia i russi che gli occidentali pensano che quanto è avvenuto ieri a Damasco rafforzi la loro posizione: Mosca vi vede una conferma che in Siria operano gruppi terroristici vicini ad al Qaida; l’Occidente la prova dell’urgenza di accelerare l’uscita di scena di Assad e la transizione. Le posizioni non paiono conciliabili, ma consultazioni alla ricerca di un compromesso si sono intrecciate per tutta la giornata.

L’attentato, avvenuto ieri mattina, costituisce un duro colpo al regime siriano, attaccato durante la riunione dei vertici della sicurezza e dell'intelligence. Il palazzo dove c’è stata l’esplosione, quale che ne sia la natura, era presidiato in modo rigidissimo. L’intera zona, sulla Piazza Rauda, nel quartiere di Abu Roummaneh, vicino alle ambasciate italiana e americana, è una delle più blindate della capitale siriana. La capacità di sottrarsi ai controlli dimostra la preparazione militare dell’esercito siriano libero o il livello delle complicità di cui gode.

Subito dopo l'attacco, l'esercito ha blindato l'ospedale nel quale sono stati portati i feriti. Prima
dell’attacco, secondo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), erano già ripresi
bombardamenti governativi su alcuni quartieri di Damasco. E nuovi scontri erano avvenuti la notte, sempre nella capitale, nei rioni di Midan e Kafaksouseh.

martedì 17 luglio 2012

Ue: crisi, Eurogruppo, il 20 solo teleconferenza, niente scudo

Scritto per EurActiv il 17/07/2012

Sarà solo una teleconferenza e sarà interamente dedicata agli aiuti alle banche spagnole: si snellisce la riunione dell’Eurogruppo di venerdì 20 luglio, la seconda in una dozzina di giorni dei ministri delle finanze dei 17 Paesi della zona euro. Non si parlerà, quindi, di Grecia e non si parlerà neppure delle condizioni d’attuazione dello scudo ‘anti-spread’.

L’annuncio ufficiale che la riunione dell’Eurogruppo sarà una teleconferenza, e comincerà a mezzogiorno, è venuto dal presidente Jean-Claude Juncker, che, oggi pomeriggio, ha diramato un comunicato. La riunione 'virtuale' dei 17 ministri dovrebbe formalizzare l'intesa politica già raggiunta sugli aiuti destinati alla ricapitalizzazione delle banche spagnole in difficoltà.

Non è chiaro che cosa abbia indotto a ‘ridimensionare’, rispette alle attese, l’appuntamento del 20. Nelle ultime 48 ore, erano emerse di nuovo discrepanze sulle condizioni d’attivazione dello scudo ‘anti-spread’. Il governo italiano aveva ribadito di non avere l’intenzione di utilizzarlo, al momento, anche se –aveva aggiunto- nessuno può escluderlo a priori per il futuro. Domenica, Berlino aveva ribadito i suoi paletti: “Niente solidarietà senza controlli”; e poteri di controllo maggiori all’Ue contro chi non rispetta le regole. Un altro Eurogruppo potrebbe svolgersi a inizio settembre.

L’annuncio delle modalità dell’Eurogruppo di venerdì è venuto al termine della consueta giornata in cui le notizie economiche appaiono un bollettino di guerra: le borse europee hanno chiuso deboli, con lo spread italiano più basso di ieri, quando aveva sfiorato quota 500, ma sempre sopra quota 480.

E BankItalia ha diffuso previsioni che danno la disoccupazione, nel 2013, oltre l’11%, con giovani e donne le categorie più colpite. I salari andranno giù, specie per gli statali. Il 2012 sarà tutto in recessione: una conferma di quanto prospettato, lunedì, dal Fondo monetario internazionale, secondo cui il Pil dell’Italia scenderà dell’1,9% quest’anno e ancora dello 0,3% l’anno prossimo. E ciò anche se l’Fmi giudica positive le mosse del governo per ridurre il deficit: il problema è la ripresa globale che resta debole; e restano i rischi per la stabilità finanziaria.

Ieri, sempre BankItalia aveva segnalato, a maggio, un nuovo record storico del debito pubblico, 1.966,3 miliardi, + 17,1 miliardi rispetto al mese precedente. L’aumento delle entrate tributarie nei primi cinque mesi 2012, a 142 miliardi (+1,14%), non compensa l’incremento degli interessi da pagare.

L’11% delle famiglie italiane, 8 milioni di persone, è povero: peggiorano le condizioni di vita di senza reddito e operai, migliorano per ora quelle degli impiegati –ma, l’abbiamo appena visto, l’anno prossimo saranno gli statali i più colpiti-.

Fra tante cattive notizie, una buona la dà oggi l’Istat: la bilancia commerciale è stata positiva in maggio, grazie all’aumento dell’export del 4,8%, e il deficit complessivo dei primi cinque mesi è dunque sceso.

Usa 2012: Obama gioca il jolly Hillary, di nuovo in corsa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/07/2012

Metti un Hillary nel motore, se vuoi fare ruggire la tua campagna. O se, meno ambiziosamente, vuoi che il Mondo non noti troppo che il presidente degli Stati Uniti è in tutt’altre faccende affaccendato e non può interessarsi delle vicende internazionali. Così, Hillary Rodham Clinton, che quattro anni or sono stava ancora contendendo, di questi tempi, la nomination democratica a Barack Obama, è oggi uno dei jolly in mano al presidente uscente, nella corsa alla riconferma alla Casa Bianca.

Hillary, segretario di Stato efficace e discreto, o sobrio, mai uno screzio col presidente, gira come una trottola: dall’Egitto a Israele, dove non era più stata negli ultimi due anni –una prova in più che le relazioni tra Washington e il governo di Benjamin Netanyahu non sono proprio eccellenti-; e trova sempre modo d’occuparsi della Siria.

Per l’ex first lady, che, nel frattempo, s’è affrancata dalla tutela del marito, l’ex presidente Bill, che l’aveva scortata in tutte le primarie 2008, è una sorta di rush finale: fonti informate al Dipartimento di Stato sono certe che Hillary non resterà a quel posto nel secondo mandato del presidente Obama; e un suo stretto collaboratore già ne canta una sorta d’encomio di commiato, “ha elevato il tono della diplomazia statunitense”, che negli anni di George W. Bush era caduto piuttosto in basso. Anche se gli egiziani che, domenica, l’hanno contestata ad Alessandria hanno riesumato lo slogan ‘Monica, Monica’, un’allusione alla Lewinsky, la stagista per cui Clinton rischiò l’ ‘impeachment’ e il matrimonio. I contestatori, che s’erano pure fatti sentire al Cairo il giorno prima, lanciando pomodori e scarpe, accusavano gli Stati Uniti di “ingerenza” nelle vicende egiziane.

Ora, se Hillary lascia le ipotesi sono disparate. A 65 anni, la Clinton potrebbe semplicemente andare in pensione dalla politica, dopo averci vissuto dentro, da moglie di governatore, first lady, senatore, candidata alla nomination democratica, segretario di Stato, una trentina d’anni: di che maturare i contributi anche negli Stati Uniti. Oppure, potrebbe restare in servizio permanente effettivo come vice-presidente, se Obama decidesse di cambiare il ticket e di rinunciare all’invisibile, e quindi poco utile, ma pure poco ingombrante, Joe Biden.

Molto, forse, dipende delle decisioni che il candidato repubblicano Mitt Romney sta maturando, nella scelta del suo vice. Indiscrezioni di stampa americana, indicano che Romney potrebbe annunciare il ‘numero due’ già questa settimana: nella short list dei candidati ancora papabili, ci sarebbero l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty –uno che puntava alla nomination, ma si ritirò prima che la corsa cominciasse-; il governatore del New Jersey Chris Christie, che il premier Monti ha conosciuto la scorsa settimana alla convention di magnati dei media e guru dell’ ‘hi-tech’ di Sun Valley nell’Idaho; il senatore della Florida, Marco Rubio, ispanico e alfiere del Tea Party; e il parlamentare Paul Ryan. E poi c’è l’incognita Condoleezza Rice: il nome dell’ex segretario di Stato continua a circolare nonostante le smentite ed è stato rimesso in circolo con forza da un blog conservatore, il Drudge Report. La candidatura della Rice potrebbe incoraggiare Obama a puntare su Hillary nel ticket, a coppie invertite uomo-donna, bianco-nero.

Ma torniamo alla Clinton. Se lascia il Dipartimento di Stato, ma non va in pensione e non fa il vice, potrebbe ricominciare a studiare da presidente. Le elezioni del 2016 non la troverebbero così avanti negli anni da escludere una sua candidatura: nel 2008, John McCain aveva 72 anni quando corse per la Casa Bianca (perdendo); e Ronald Reagan ne aveva 70 quando s’insediò la prima volta. Ma la strada è lunga e incerta: se Obama otterrà il secondo mandato, nel 2016 i repubblicani, per la legge non scritta e spesso non rispettata dell’alternanza, saranno i favoriti.

Se, se, se… I dubbi, sulla rielezione di Obama, si addensano, nonostante l’ultimo sondaggio solido UsaToday Gallup lo dia in testa di un’incollatura, 47% a 45%, su Romney nei 12 Stati che tengono le chiavi della Casa Bianca. Negli altri Stati, dove i giochi paiono già fatti, il vantaggio di Obama è più netto: 48% contro 44%.

Più che il vantaggio nei punti dei sondaggi può contare oggi il vantaggio nei soldi in cassa. E lì Romney, favorito dalla nuova legge sui finanziamenti elettorali, sta meglio di Obama: il Comitato di azione politica che lo sostiene ha raccolto a giugno 20 milioni di dollari, tre volte di più di quello di Obama, scrive il l Washington Post. E Romney era già avanti: 106 milioni contro 71. Se continua così, il repubblicano doppia il democratico. E l’obolo della gente comune, questa volta, potrebbe non bastare a colmare il gap.

lunedì 16 luglio 2012

Energia: Oettinger a Roma, Italia può essere hub gas

Scritto per EurActiv il 16/07/2012

L’Italia può diventare uno hub europeo del gas, sia per la vicinanza e per le connessioni con i Paesi produttori, come Algeria e Libia, sia per l’entità dei suoi consumi e per le possibilità di connessione con altri Paesi Ue consumatori come la Grecia: lo ha detto il commissario europeo per l'energia Günther Oettinger, che ha oggi compiuto una visita ufficiale in Italia. Oettinger ha però rilevato l’esigenza di infrastrutture per realizzare un progetto del genere, infrastrutture che potrebbero anche beneficiare di investimenti della Bei e dell’Ue.

Nel corso della visita, il commissario Oettinger, tedesco, ha avuto colloqui con il presidente del Consiglio Mario Monti, con il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera e con il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero Milanesi nonché con i principali stakeholders italiani del settore energetico. Il commissario ha anche partecipato al Forum EnEn (Energy and Environment) sulle politiche energetiche e ambientali europee, organizzato dall'Istituto di economia e politica dell'energia e dell'ambiente (Iefe) con ll'Università Bocconi presso il Senato (aula Commissione Difesa, Palazzo Carpegna). Oettinger è stato anche ricevuto dal presidente del Senato Schifani, che, a quanto riferisce l’ANSA, ha sollecitato una maggiore integrazione nel settore del gas e ha ricordato che l’Italia è impegnata a raggiungere gli obiettivi europei,

Incontrando un gruppo di giornalisti, il commissario ha confermato che oggetto degli incontri sono stati il completamento del mercato unico dell'energia, i progetti infrastrutturali nel campo energetico, le priorità per l'Italia, di cui ha ricordato la posizione geo-strategica in questo settore, le reti energetiche intelligenti ecc. Oettinger ha anche confermato che la Commissione europea considera più imortante per l’Europa l’apertura di un corridoio dell’energia sud piuttosto che la realizzazione del SouthStream che offre una rotta alternativa al gas russo.



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domenica 15 luglio 2012

Il Prof e i guru: al borsino di Sun Valley, Monti su, Obama giù

\Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/07/2012

Conta quel che conta. Anzi, conta poco, perché questo non è certo uno spaccato dell’America che eleggerà il proprio presidente il 6 novembre. Ma, al ‘borsino’ di Sun Valley, Montagne Rocciose, Idaho, Mario Monti sale e Barack Obama scende. Il premier professore incassa elogi ed applausi, con la sua performance davanti al gotha dei media e ai guru della ‘internet society’: “Mario resta, non lasciare l’anno prossimo”, gli chiedono gli investitori americani. Howard Stringer, presidente del CdA della Sony, interpreta un pensiero diffuso: “Se lui restasse, sarebbe un’iniezione di fiducia per l’Italia”.

Il presidente Obama, invece, ha ancora sostenitori alla conferenza Allen & Co, ma i consensi sono in calo rispetto a quattro anni or sono: “Nel 2008, l'85% della gente qui votava Obama. Ora, sarei sorpreso se avesse il 50%", dice Wilbur L. Ross Jr, un ricco finanziere. A non tradire Obama è Hollywood e la cultura: "Non importa che cosa ne pensa la gente qui: sarà rieletto al 100%", afferma Jeffrey Katzenberg, amministratore delegato di DreamWorks Animation.

Monti, lui, si gode il buon impatto della sua intervista e rispetta le regole del gioco, che impongono ai partecipanti di non parlare dei lavori: l’obiettivo è di garantire la massima franchezza negli scambi d’opinione, senza l’incubo di ‘fughe’ o di ‘fuori onda’. “Qui non si parla”, risponde il premier ai giornalisti, che provano a strappargli una battuta sulla ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi, sul declassamento dell’Italia da parte di Moody’s, o sulla percezione dell’Italia qui alla 30.a edizione di questa conferenza.

Il premier non parla, come tutti, o quasi, rispettando la regola del silenzio con i giornalisti. Che, infatti, sono relativamente pochi, italiani a parte. Ma il Professore è soddisfatto: se la sortita nell’Idaho voleva contribuire a migliorare la fiducia nell’Italia degli investitori, ma missione pare riuscita. Se si dividono tra Obama e Mitt Romney, il candidato repubblicano, che molti magnati, tanto per cominciare Rupert Murdoch, sentono più vicino a loro, finanzieri e guru dell’ ‘hi tech’ americani sono, invece, praticamente unanimi nell’applauso a Monti. Fra i complimenti, quelli, pesanti, di Warren Buffett: “Bravo, eccellente”.

E non è solo la percezione del tavolo italiano della conferenza, organizzato dal presidente della Fiat John Elkann con bandierine tricolori –tra gli invitati, l’industriale Gianfranco Zoppas e il finanziere Mike Volpe-: l’intervista al premier dell’anchorman della Cbs Charlie Rose fa guadagnare alla credibilità italiana più punti di quanti non gliene sia costati il declassamento di Moodys. Di cui si parla e, soprattutto, si drammatizza molto di più in Italia: anche ieri, l’intreccio delle dichiarazioni ha seguito più i crinali della politica che dell’analisi corretta e informata. Da una parte, Brunetta (Pdl) attribuisce il downgrade allo scudo anti-spread; dall’altra, Boccia (Pd) invita il governo ad attivare lo scudo in funzione anti – downgrade; detto per inciso, lo scudo non è ancora operativo.

Ieri, la giornata finale ha visto una chiacchierata tra l’ex capo della Cia George Tenet e l’attuale capo dell’Agenzia d’intelligence, il generale David Petraeus, e un’intervista a Buffet, miliardario ‘pro Obama’, da parte di Oprah Winfrey, la ‘signora’ per eccellenza dei salotti televisivi americani. Dopo lo squarcio di venerdì su Europa, euro e Italia –c’erano più europeisti qui che ai Vertici dell’Unione, è stata l’impressione-, la politica Usa prende il sopravvento: George Stephanopoulos, che fu portavoce di Bill Clinton, modera un dibattito tra i sindaci di Chicago Rahm Emanuel e di New York Michael Bloomberg, e il governatore del New Jersey Chris Christie, uno dei candidati a fare ticket con Romney per la vice-presidenza.

sabato 14 luglio 2012

Il Prof e i guru: Monti spiega l'Italia della 'new economy'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/07/2012

Il Prof e i guru: tra profumi di miliardi e cortine di riserbo, Mario Monti partecipa alla 30.a edizione della conferenza Allen & Co., a Sun Valley, località sciistica sulle Montagne Rocciose, nell’Idaho. L’evento è rigorosamente a porte chiuse: il premier viene intervistato da Charlie Rose, anchorman della Cbs, davanti ai vip dei media americani e della ‘high tech’. Politici, ce ne sono pochissimi: Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca, non si fa vedere, anche se è qui vicino - americanamente parlando, pur sempre un migliaio di chilometri- a raccogliere fondi nel Wyoming. C’è, invece, uno dei suoi possibili ‘vice’, Chris Christie, governatore del New Jersey.

Alla cena che, l’altra sera, ha inaugurato l’esclusivo appuntamento c’erano oltre cento persone, tutte a casa di Herb Allen, nipote del fondatore della banca d’investimenti che gestisce l’iniziativa: Herb aveva ospiti con Monti e il presidente Fiat John Elkann il sindaco di New York Michael Bloomberg e quello di Chicago Rahm Emanuel, un luogotenente del presidente Barack Obama; il presidente di Google Eric Schmidt e l’ad di Facebook Mark Zuckerberg, Rupert Murdoch con i figli James - ingrassato - e Lachlan e l’ad di Apple Tim Cook; e ancora Bill Gates, Warren Buffett, la stilista Diane Von Fustenberg e il direttore della Cia David Petraeus, il generale che combatté gli insorti in Afghanistan nella fase più cruenta di quel conflitto.

Una compagnia eterogenea, non proprio la congrega ideale per Monti, che uno s’immaginerebbe più a suo agio alla analoga annuale conferenza economica di Jackson Hole, nel Wyoming, una sorta di Davos americana. Che cosa è venuto a farci, qui, il premier, in un momento che forse non era sbagliato starsene in Italia? L’obiettivo è spiegare l’Italia ai guru dei media e dell’ ‘internet society’.

Il clima è positivo, ma c’è pure scetticismo. Buffett, il miliardario ‘di sinistra’, dice alla Cnbc che, se l’economia americana “rallenta”, quella europea sta iniziando “a scivolare abbastanza rapidamente”; e aggiunge di ritenere che l’eurozona non possa andare avanti così com’è disegnata. Buffett, oggi, è protagonista dell’evento clou di tutta la conferenza, intervistato da Oprah Winfrey.

L’evento è blindato, le informazioni filtrano a spizzichi. Durante l’intervista di rose, Gates, il primo del pubblico a fare una domanda, chiede a Monti in modo diretto se l’Italia è davvero capace d’essere virtuosa e di realizzare le riforme. Monti, riferisce un industriale italiano presente al botta e risposta, Gianfranco Zoppas, patron dell'omonima azienda, la prende alla larga: Usa e Ue, sostiene, hanno lo stesso problema, la capacità di esprimere una leadership comune. E poi invita ad avere fiducia nell’Italia, perché i cambiamenti culturali richiedono tempo: dice che le banche italiane sono solide; che sulla riforma del lavoro c’è ancora molto da fare; che il popolo italiano non ha finora incontrato il governo giusto –ma mica lo si trova per strada- e che l’Italia ha finora dato molto e ricevuto poco, con un riferimento agli strumenti di sostegno europei; racconta della banda larga e pure di DigItalia.

Certo, non sarebbe proprio la giornata giusta, per venire a sciorinare l’Italia che verrà, dopo che Moody’s ha di nuovo retrocesso la credibilità del Paese. Ma i mercati paiono indifferenti all’agenzia di rating. E, in quest’azione di promozione sulla scena internazionale, il premier può partire dall’analisi recente dell’Fmi, che ha promosso il suo Governo e ne ha lodato l’ “ambiziosa agenda”, pur mettendo in evidenza i rischi di contagio permanenti nell’eurozona. A Sun Valley, del resto, c’è pure gente che fa il tifo per un euro forte –lo stesso Buffett- e che giudica l’Italia fortunata ad averlo come premier –magari, avevano conosciuto il suo predecessore-.

C’è pure una mini-protesta, in questa località che è stata la ‘seconda casa’ di molti nomi celebri: Ernest Hemingway e Gary Cooper, Clarke Gable e la famiglia Kennedy, prima che i “ricchi e potenti” ne facessero un feudo. Un’avanguardia di Occupy, cinque persone, si sdraia a terra davanti a uno degli ingressi del complesso che ospita la conferenza. La polizia interviene e li porta via: “Questa per noi è una scena del crimine”, dice il portavoce del manipolo, Shavone Hasse.

venerdì 13 luglio 2012

Ue: crisi, Mario e Angela, la coppia di fatto dell'Unione

Scritto per AffarInternazionali il 13/07/2012

Per parlare di Europa e integrazione, usano entrambi riferimenti mitologici. A Reims, dove celebra i riti dell’amicizia franco-tedesca, la cancelliera Angela Merkel osserva che l’Unione così com’è non è sufficientemente forte, ma prevede che sarà una fatica di Ercole costruire l’Unione politica (e va già bene che non evoca il mito di Sisifo).

A Roma, all’Abi, il premier Mario Monti sottolinea che le ultime riunioni dell’Ue hanno consentito "progressi significativi", ma rileva: "I mercati vivono di coerenza e di incoerenza dei messaggi loro indirizzati. Dunque è facile che queste decisioni somiglino alla tela di Penelope". A farne le spese, è anche l'Italia: lo spread che resta alto, ammette Monti, è "motivo di frustrazione per tutti e soprattutto per il governo".

Fiducia
Ma le reminiscenze del liceo non sono l’unico elemento comune a Mario e Angela. Nei nove mesi del ‘governo dei professori’, s’è creato, fra di loro, un rapporto complesso ma solido: l’uno ha bisogno dell’altra; e viceversa. Alla Merkel, quell’italiano alto e distinto, rigido che pare un tedesco, dà la sensazione che l’Italia non farà, come il solito, il gioco delle tre carte; e a Monti, la fermezza e, a tratti, la durezza della cancelliera servono a fare tenere la barra del rigore alla sua strana maggioranza parlamentare. E, poi, entrambi si sentono più a loro agio in Europa che in patria, specie Monti, che a Roma deve prestare ad Angelino Alfano e a tutto l’Abc lo stesso riguardo che a Bruxelles presta ad Angela la tedesca.

Al Vertice del G20 di Cannes, in Francia, ai primi di novembre del 2011, l’Italia, allora ancora di Silvio Berlusconi, “fu sottoposta a una pressione prossima all’umiliazione”: i suoi partner tentarono di farle perdere “parte della sua sovranità”. A raccontarlo, nel discorso dell’11 luglio all’Abi, è stato il premier Mario Monti, definendo quell’episodio "una situazione sgradevole" e fissando i paletti per il futuro: "L'Italia - ha spiegato - è un paese tra i più pronti in Europa a condividere pezzi di sovranità"; ma non intende dovere rinunciare al diritto di decidere che cosa fare a casa propria. Quel diritto cui stava per essere costretta ad abdicare poco prima dell’avvicendamento a Palazzo Chigi tra il Cavaliere e il Professore.

Adozione
Tra l’autunno 2011 e l’estate 2012, il rapporto dell’Italia con i partner dell’Ue è cambiato, come di pari passo è evoluto il rapporto di Monti con i suoi nuovi ‘colleghi’ e, in particolare, con la cancelliera Merkel, la ‘donna forte’ di questa Unione che ha bisogno di leadership. All’inizio, Monti era stato quasi ‘adottato’ dal direttorio sghembo costituito dalla Merkel e dal presidente francese Nicolas Sarkozy, preoccupati che l’Italia non facesse da testa di ponte per il contagio della crisi dalla Grecia e dal Mediterraneo al cuore renano dell’Europa economica e finanziaria.

In breve tempo, Monti fu accettato, in quanto professore, e d’economia, per di più, come precettore del duo Merkel-Sarkozy, capace di spiegare agli italiani che cosa dovevano fare, ma anche ai suoi interlocutori che cosa stavano facendo gli italiani (e quali erano le alternative per l’Unione).

Quindi, anche grazie al credito datogli dal presidente statunitense Barack Obama, che gli affidò il suo messaggio ai leader europei (“Bene il rigore, ma ora la crescita”), Monti divenne interlocutore a parte intera di Francia e Germania e, poi, profittando dell’eclissi di Sarkozy in campagna elettorale e sul viale del tramonto, s’affermò come interlocutore privilegiato di Frau Merkel. Fino a prendere quasi il comando delle operazioni, dopo il G8 di Chicago e, soprattutto, il G20 di Los Cabos, affrontati dalla cancelliera sulla difensiva, perché tutti ce l’avevano con la linea del risanamento ad oltranza.

Battaglie e guerre
Nei dieci giorni che lui stesso definì “decisivi” per l’Unione, Monti convocò a Roma, il 22 giugno, un Quadrangolare tra Italia, Francia, Germania e Spagna, dove, a fare la parte che era stata sua all’esordio, c’era il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy. E fu poi protagonista al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno, il cosiddetto Vertice della Crescita, uscendone vincitore. Che la Merkel, a Bruxelles, abbia perso è stato giudizio unanime: ‘intrappolata da Monti’, come scrivevano i giornali tedeschi; o battuta da Hollande, come sosteneve la stampa francese, che forse aveva visto un’altra partita; era stata lei - titolava la Reuter - “la grande perdente”.

Per i britannici, l’aveva spuntata l’asse Roma - Madrid; ma gli spagnoli erano cauti: “Abbiamo vinto una battaglia, non la guerra”. Fra i retroscena delle fasi più calde al Justus Lipsius, quello, riferito da El Pais, secondo cui Monti avrebbe pure “minacciato le dimissioni per indurre a cedere la Merkel”, terrorizzata dall’ipotesi di ritrovarsi al tavolo Mr B. “Con Monti nel ruolo di direttore d’orchestra - sosteneva El Pais, l’Europa ha fatto un passo avanti”.

Ma, a quel momento, è stato lo stesso Professore, che archivia i contrasti al Vertice come schermaglie negoziali, ad affrettarsi a rimettere il rapporto in equilibrio. Appena quattro giorni dopo, nel vertice italo-tedesco di Roma, il 4 luglio, Monti ‘faceva la pace’ con la Merkel, ché non è proprio il caso di trattarla dall’alto in basso, anche se al Vertice della Crescita l’aveva trovata trovato un po’ coriacea, ostinata nel non capire i vantaggi della condivisione del debito - lei si accolla quelli degli altri - e per niente incline ad avere un occhio di riguardo verso i Paesi virtuosi, quelli cioè che non lo sono stati fino a ieri e che adesso, perché hanno fatto qualche taglio e approvato qualche riforma, credono di meritare in pagella i voti dei primi della classe.

Nuovo ruolo
E gli altri mica stanno a guardare: se il Professore cincischia, c’è subito chi si mette alla destra della cancelliera. Così, la vigilia dell’Eurogruppo del 9 luglio, la Merkel e il presidente francese Francois Hollande hanno rinnovato, a Reims, appunto, la riconciliazione franco-tedesca: quella storica, di 50 anni or sono; e hanno cementato il patto screziato nella notte bruxellese.

Mentre i vecchi vizi italiani, i ritardi, l’inaffidabilità, sono sempre dietro l’angolo. L’Italia, che tanto si batte per l’utilizzo dell’Esm, cioè del nuovo fondo salva stati, come scudo antispread, è l’unico dei 17 dell’eurozona, insieme all’Estonia, e non averlo ancora ratificato - il Senato lo ha fatto, la Camera lo farà nei prossimi giorni; ed è uno dei tanti che non hanno ratificato il Patto di Bilancio. La Germania, però, non può farci le pulci: il parlamento s’è pronunciato, ma il presidente Joachim Gauck non ci metterà la firma fin quando la Corte costituzionale non si sarà pronunciata.

Insomma, tutto congiura perché Roma e Berlino, Mario e Angela, filino d’amore e d’accordo, magari mettendosi il broncio ogni tanto, come in tutte le coppie che durano. Lo testimonia una frase della cancelliera, a Roma, il 4 luglio: “Io e Mario abbiamo sempre trovato l’accordo”; e Germania e Italia vogliono “affrontare - e superare - insieme” la crisi.

Dunque Berlino e Roma vanno avanti sulla strada, che può essere la stessa, della crescita, del risanamento e dell’integrazione: il Prof fa fare i compiti a casa al suo paese; e Angela non gli nega lo scudo, anche se pare quasi farselo estorcere. Italia e Germania sono, fra i 27, i paesi più aperti alla condivisione della sovranità e i loro leader sono convinti che i pregiudizi sono il maggiore ostacolo all'integrazione europea. Una bella coppia. Peccato che duri poco: ancora nove mesi, e Mario sarà fuori gioco; altri quattro mesi, e forse pure Angela uscirà di scena. Si rischia che, al prossimo giro, li rimpiangeremo.