Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/07/2012
Mentre in Siria l’intensità degli scontri tocca il culmine
dall’inizio dell’insurrezione –quasi 250 vittime giovedì, il bilancio più
cruento in 16 mesi di proteste e repressione-, le Nazioni Unite, dopo giorni di
‘tira e molla’ e un veto di Russia e Cina, approvano all’unanimità una
risoluzione che proroga la missione dell’Onu, l’Unsmis, per un periodo di 30
giorni.
In pratica, il Consiglio di Sicurezza prende tempo: le
Nazioni Unite non abbandonano il campo, ma neppure intensificano la pressione
sul regime di Damasco perché il presidente Assad lasci il potere e avvii la
transizione. La risoluzione non menziona le sanzioni né fa riferimento
all’eventualità dell’uso della forza e lascia uno strascico di polemiche tra
Washington e Mosca.
Il testo tiene conto delle raccomandazioni del segretario
generale Ban Ki-moon: ulteriori rinnovi della missione sono subordinati alla
cessazione dell'uso di armi pesanti sul territorio e a un calo della violenza
che consenta ai membri di Unsmis di operare senza eccessivi pericoli. E,
invece, sul terreno gli scontri s’intensificano. La speranza, a questo punto, è
quella di una sorta di 8 Settembre delle forze armate lealiste: un rapporto
molto aggiornato dell’Iiss di Londra non lo esclude, ma neppure lo dà per
imminente.
Gli analisti dell’Istituto osservano: “Il numero dei
disertori è in aumento al punto da creare dubbi sulla coesione dell’esercito.
Una parte dei soldati di leva e del personale in servizio permanente effettivo
si rifiuta di combattere. L’Esercito siriano libero, composto in gran parte di
transfughi, è capace di organizzare attacchi su piccola scala contro le forse
lealiste, che, però, hanno il controllo degli armamenti pesanti”.
Il regime potrebbe non disporre di forze lealiste
sufficienti a garantirgli la sopravvivenza in caso d’insurrezione armata
attiva, soprattutto se le violenze si diffondono ulteriormente nel Paese –ieri,
si combatteva ad Aleppo, oltre che a Damasco, mentre migliaia di profughi si
dirigevano verso le frontiere-.Ma la spallata deve venire dall’interno: non
verrà dall’esterno.
Le Nazioni Unite, complice la posizione di Russia e Cina, se
ne lavano le mani, malgrado le notizie dalla Siria, pur contraddittorie e
impossibili da verificare, siano quelle d’un bollettino di guerra. L’Ue si
appresta a inasprire le sanzioni lunedì, ma limita il proprio intervento alle
azioni umanitarie. Il ministro Terzi, incita “a dare la sensazione ad Assad che
è finito”, ma esprime anche timore per la presenza “di forze jihadiste”. Altre
ambasciate chiudono, vari Paesi s’apprestano ad evacuare i proprio cittadini.
Per la tv di Stato, le unità del regime hanno ‘ripulito’ il
centro della capitale dai ribelli, mentre fonti degli insorti riferiscono che i
posti di frontiera con la Turchia e con l’Iraq sono in mano ai ribelli. Voci
d’una partenza di Assad, diffuse da fonti diplomatiche russe, vengono smentite,
ma il regime ammette la morte del capo dell’intelligence ferito nell’attentato
di mercoledì. Monsignor Nassar, vescovo maronita di Damasco, riferisce di
“enormi distruzioni” nella capitale, dove la situazione è “un’apocalisse”.
Con una popolazione di 22 milioni e mezzo di abitanti, dove
un cittadino su due ha meno di 20 anni e neppure uno su 25 ha più di 65 anni, e
un pil pro capite di 2.760 dollari nel 2011,
la Siria dispone, secondo i dati dell’Iiss di Londra, di forze armate
composte da 295mila uomini (220mila nell’esercito, 5mila in marina, 30mila in
aeronautica e 40mila nella difesa aerea) e di 108mila paramilitari, oltre a una
riserva di 314mila uomini, quasi tutti dell’esercito.
Nell’analisi dell’Iiss, le forze armate siriane sono
essenzialmente addestrate alla sicurezza interna, cioè alla repressione
“brutale”: il nemico non è più Israele, con cui non c’è più partita, ma
l’opposizione. Le unità d’elite sono leali al regime, mentre le unità
dell’esercito convenzionali, considerate meno affidabili, non vengono di solito
impegnate contro il dissenso e vengono dislocate nelle regioni meno turbolente.
Nel 2011, prima l’Ue, il 20 maggio, poi la Lega Araba, il 3
dicembre, hanno decretato embarghi sulle vendite di armi alla Siria –per la
Lega Araba, una prima assoluta-. Ciò non ha impedito al regime di Damasco di
collocarsi, secondo il Sipri di Stoccolma, al 25.o posto nella classifica
mondiale dell’import di armi. Le misure dell’Ue e della Lega hanno avuto,
almeno nel 2011, scarsissimo impatto: l’import di armi siriano è infatti
passato da 299 a 291 milioni di dollari, è cioè rimasto sostanzialmente
invariato. I fornitori del 2011, come quelli del 2010, sono praticamente solo
due: la Russia, con 294 e 246 milioni di dollari di armi vendute, e l’Iran,
salito da 5 a 45 milioni di armi.
Le spese per gli armamenti sono state nel 2011 pari a 2.490
milioni di dollari, cioè il 4,1% del pil: una percentuale alta, ma nettamente
inferiore a quella delle grandi potenze militari. E, in passato, la Siria aveva
speso molto di più in percentuale del pil, oltre il 6%, senza contare i bilanci
dei tempi di guerra con Israele.
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