Metti
un Hillary nel motore, se vuoi fare ruggire la tua campagna. O se, meno
ambiziosamente, vuoi che il Mondo non noti troppo che il presidente degli Stati
Uniti è in tutt’altre faccende affaccendato e non può interessarsi delle
vicende internazionali. Così, Hillary Rodham Clinton, che quattro anni or sono
stava ancora contendendo, di questi tempi, la nomination democratica a Barack
Obama, è oggi uno dei jolly in mano al presidente uscente, nella corsa alla
riconferma alla Casa Bianca.
Hillary,
segretario di Stato efficace e discreto, o sobrio, mai uno screzio col
presidente, gira come una trottola: dall’Egitto a Israele, dove non era più
stata negli ultimi due anni –una prova in più che le relazioni tra Washington e
il governo di Benjamin Netanyahu non sono proprio eccellenti-; e trova sempre modo
d’occuparsi della Siria.
Per
l’ex first lady, che, nel frattempo, s’è affrancata dalla tutela del marito,
l’ex presidente Bill, che l’aveva scortata in tutte le primarie 2008, è una sorta
di rush finale: fonti informate al Dipartimento di Stato sono certe che Hillary
non resterà a quel posto nel secondo mandato del presidente Obama; e un suo
stretto collaboratore già ne canta una sorta d’encomio di commiato, “ha elevato
il tono della diplomazia statunitense”, che negli anni di George W. Bush era
caduto piuttosto in basso. Anche se gli egiziani che, domenica, l’hanno
contestata ad Alessandria hanno riesumato lo slogan ‘Monica, Monica’,
un’allusione alla Lewinsky, la stagista per cui Clinton rischiò l’
‘impeachment’ e il matrimonio. I contestatori, che s’erano pure fatti sentire
al Cairo il giorno prima, lanciando pomodori e scarpe, accusavano gli Stati
Uniti di “ingerenza” nelle vicende egiziane.
Ora, se
Hillary lascia le ipotesi sono disparate. A 65 anni, la Clinton potrebbe
semplicemente andare in pensione dalla politica, dopo averci vissuto dentro, da
moglie di governatore, first lady, senatore, candidata alla nomination
democratica, segretario di Stato, una trentina d’anni: di che maturare i
contributi anche negli Stati Uniti. Oppure, potrebbe restare in servizio
permanente effettivo come vice-presidente, se Obama decidesse di cambiare il
ticket e di rinunciare all’invisibile, e quindi poco utile, ma pure poco
ingombrante, Joe Biden.
Molto,
forse, dipende delle decisioni che il candidato repubblicano Mitt Romney sta
maturando, nella scelta del suo vice. Indiscrezioni di stampa americana,
indicano che Romney potrebbe annunciare il ‘numero due’ già questa settimana:
nella short list dei candidati ancora papabili, ci sarebbero l’ex governatore
del Minnesota Tim Pawlenty –uno che puntava alla nomination, ma si ritirò prima
che la corsa cominciasse-; il governatore del New Jersey Chris Christie, che il
premier Monti ha conosciuto la scorsa settimana alla convention di magnati dei
media e guru dell’ ‘hi-tech’ di Sun Valley nell’Idaho; il senatore della
Florida, Marco Rubio, ispanico e alfiere del Tea Party; e il parlamentare Paul
Ryan. E poi c’è l’incognita Condoleezza Rice: il nome dell’ex segretario di
Stato continua a circolare nonostante le smentite ed è stato rimesso in circolo
con forza da un blog conservatore, il Drudge Report. La candidatura della Rice potrebbe
incoraggiare Obama a puntare su Hillary nel ticket, a coppie invertite
uomo-donna, bianco-nero.
Ma torniamo
alla Clinton. Se lascia il Dipartimento di Stato, ma non va in pensione e non
fa il vice, potrebbe ricominciare a studiare da presidente. Le elezioni del
2016 non la troverebbero così avanti negli anni da escludere una sua
candidatura: nel 2008, John McCain aveva 72 anni quando corse per la Casa
Bianca (perdendo); e Ronald Reagan ne aveva 70 quando s’insediò la prima volta.
Ma la strada è lunga e incerta: se Obama otterrà il secondo mandato, nel 2016 i
repubblicani, per la legge non scritta e spesso non rispettata dell’alternanza,
saranno i favoriti.
Se, se,
se… I dubbi, sulla rielezione di Obama, si addensano, nonostante l’ultimo
sondaggio solido UsaToday Gallup lo dia in testa di un’incollatura, 47% a 45%,
su Romney nei 12 Stati che tengono le chiavi della Casa Bianca. Negli altri
Stati, dove i giochi paiono già fatti, il vantaggio di Obama è più netto: 48%
contro 44%.
Più che il vantaggio nei punti
dei sondaggi può contare oggi il vantaggio nei soldi in cassa. E lì Romney,
favorito dalla nuova legge sui finanziamenti elettorali, sta meglio di Obama:
il Comitato di azione politica che lo sostiene ha raccolto a giugno 20
milioni di dollari, tre volte di più di quello di Obama, scrive il l Washington
Post. E Romney era già avanti: 106 milioni contro 71. Se continua così, il
repubblicano doppia il democratico. E l’obolo della gente comune, questa volta,
potrebbe non bastare a colmare il gap.
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