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lunedì 31 agosto 2015

Immigrazione: Ue, i 3 Grandi innescano riunione, Londra mette paletti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/08/2015

Una riunione d’urgenza, l’Ue non la nega mai a nessuno. Se la chiedono, poi, all’unisono, i Grandi dell’Unione, Germania, Francia, Gran Bretagna, la presidenza di turno del Consiglio dei 28, lussemburghese, non può che mettersi a disposizione: convoca l’incontro dei ministri dell’Interno e della Giustizia per il 14 settembre, al pomeriggio, a Bruxelles.

L’obiettivo è "rafforzare la risposta europea" all’emergenza immigrazione. Un eufemismo, perché quella risposta va sostanzialmente costruita, a partire dalle timide intese del luglio scorso. C’è però la sensazione che stavolta qualcosa possa maturare, perché, dopo Ferragosto, la cancelliera Merkel ha mutato toni e linguaggio: forse, si va verso un diritto d’asilo europeo.

E il dramma dei 71 profughi siriani morti asfissiati e liquefatti di calore nel cassone di un tir lungo un’autostrada austriaca ha portato nel cuore dell’Europa quelle tragedie che, nel Mediterraneo, apparivano lontane e un po’ “roba da Sud del Mondo”. Le indagini, poi, rafforzano la coscienza che i nuovi schiavisti non sono solo gli jihadisti del Califfato o bande di scafisti senza scrupoli libici, ma sono anche ‘europei doc’, gente con il passaporto dell’Ue, romeni, croati, ungheresi, bulgari – cinque già gli arresti -.

La domenica lascia spazio alla politica, perché la cronaca, per fortuna, non registra tragedie: centinaia di profughi sbarcano a Taranto; presunti scafisti vengono fermati a Messina; ed è un giallo in Austria la vicenda di tre bambini siriani.

L’iniziativa della riunione d’urgenza è stata presa dai ministri dell’Interno Thomas de Maiziere, tedesco, Bernard Cazeneuve, francese, e Theresa May, britannica. Uno strano trio: un po’ perché dei Grandi mancano l’Italia, che pure è in prima linea sul fronte flusso, e pure la Spagna – che Alfano si sia distratto?, nel week-end -; e un po’ perché Londra è un’intrusa tra Berlino e Parigi.

Se, infatti, lo snodo Calais – Dover accomuna Francia e Gran Bretagna, il governo Cameron non ha mai aperto alla solidarietà europea, né intende farlo ora. Anzi: la May, sul Sunday Times, chiede agli europei dell’Ue - e quindi anche agli italiani – di sbarcare a Londra solo se hanno un lavoro. E dice basta a tutti quei 'continentali’ – termine un po’ spregiativo - che s’installano in Gran Bretagna solo per goderne il welfare fatto di assegni di disoccupazione, sanità gratuita e aiuti alle famiglie.

Per la May, "l’Ue deve tornare ai principi originari": "libertà di movimento", per Londra, significa "libertà di trasferirsi con un lavoro". In un anno, 330 mila cittadini Ue si sono trasferiti nel regno Unito, 57 mila gli italiani.

Ben diverso, invece, l’atteggiamento della Germania, che dice sì alle quote dei richiedenti asilo giunti in Italia e Grecia, apre ai profughi siriani, si fa paladina della solidarietà. Quanto alla Francia, il presidente Hollande è condizionato nelle sue scelte dal voto regionale del 6 e 13 dicembre, che potrebbe dare un’ulteriore spinta al movimento lepenista.

Il ministro degli Esteri Laurent Fabius denuncia come "scandaloso" l'atteggiamento sull’immigrazione di Paesi dell'Est: la barriera tra Ungheria e Serbia "non rispetta i comuni valori della nostra Europa".

domenica 30 agosto 2015

Usa 2016: Jeb & Hillary, dinasty dei patatrac; Trump inanella gaffes e consensi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/08/2015

E’ proprio una ‘dinasty’. Ma, per il momento, dei patatrac. Per Hillary e Jeb, le brutte notizie giungono a coppie, loro che parevano sicuri di disputare nel 2016 la rivincita del match 1992 Clinton-Bush e che oggi collezionano delusioni dai sondaggi e preoccupazioni dai loro staff.
Secondo Politico, un sito che di politica e presidenziali se ne intende, tre ‘raccoglitori di fondi’ hanno piantato in asso Jeb Bush venerdì “per contrasti personali e dubbi sulla sua candidatura”. Quanto a Hillary Clinton, il rilevamento più recente rileva che la sua popolarità fra i democratici non è mai stata così bassa dal 2012: colpa dell’emailgate, lo scandalo sull’uso di un account privato di posta elettronica invece di quello ufficiale quand’era al Dipartimento di Stato. 

Ma se Hillary continua a non avere avversari credibili per la nomination democratica –resta almeno 20 punti avanti a tutti, in attesa che scenda in lizza il vice-presidente Joe Biden-, Jeb un avversario ce l’ha. Anzi, ne ha 16, un plotone. Ma uno, soprattutto, lo preoccupa, perché vive l’estate fortissimo.
Il magnate dell’immobiliare e showman Donald Trump esce indenne da gaffes e contraddizioni. Insulta una giornalista della FoxNews, caccia un cronista ispanico da una conferenza stampa perché pone domande scomode, chiede 100 dollari per l’ingresso a un suo evento nel New Jersey dopo avere promesso che non avrebbe fatto collette elettorali (“Non sto raccogliendo fondi -spiega, senza riuscire a essere convincente-, chiedo solo un contributo per dare da mangiare a tutta ‘sta gente”). 

Nulla lo scalfisce: anzi, lui è ansioso di smentire di avere il parrucchino (“uso la lacca”, per tenersi su i capelli in quel suo modo caratteristico); e di continuare a fare affari apparentemente bislacchi –con un socio, starebbe trattando l’acquisto del San Lorenzo de Almagro, la squadra di Buones Aires per cui tifa papa Francesco-.

L’uscita di scena dei tre consulenti di Bush trova spiegazioni diverse: Kris Money, Trey McCarley e Debbie Alexander, che non hanno finora dato spiegazioni, avrebbero volontariamente lasciato la campagna, pur continuando a lavorare per Jeb; oppure, sono state messe alla porta perché non c’era più bisogno di loro. Tutte e tre hanno ottimi contatti fra i repubblicani in Florida e avrebbero fatto bene il loro lavoro. 

Il portavoce Tim Miller minimizza: l’ossatura della squadra di Miami resta, “Ann Herberger, vent’anni con Bush, continua a guidarla”. Fonti della campagna anonime sottolineano la difficoltà di ‘miscelare’ la squadra della Florida con quella nazionale.

Nella corsa alla Casa Bianca, la raccolta dei fondi è fondamentale: se resti senza soldi, sei fuori. Trump a parte, tutti ne sono condizionati. Mitt Romney, il candidato repubblicano nel 2012, ha subito rinunciato quando s’è reso conto che numerosi suoi donatori s’erano schierati questa volta con Jeb, figlio e fratello di presidente, ex governatore della Florida. Romney e Bush s’incontrarono a Salt Lake City, constatarono la situazione, concordarono forse qualcosa per il futuro; e Romney si chiamò fuori. 

Prima di scendere in campo, Hillary e Jeb hanno disputato le loro ‘primarie di Goldman Sachs’: obiettivo, accaparrarsi i favori della banca d’affari. Anche se Charles Geisst, storico di Wall Street al Manhattan College, avverte: "A Goldman Sachs piace giocare sui due i fronti, in particolar modo in questo caso, perché entrambi i candidati, Bush e Clinton, potrebbero in definitiva rivelarsi utili”.

Hillary ha –lei personalmente e il marito Bill- rapporti di lunga data con Goldman Sachs, mentre Jeb ne ha ‘corteggiato’ i capi con una serie di visite a New York. Si racconta che, in un solo giorno, abbia partecipato a un evento al Ritz Carlton organizzato da Dina Powell, che guida la Goldman Sachs Foundation e che lavorò alla Casa Bianca con suo fratello George W., e sia pure intervenuto ad un evento curato da Jim Donovan, un dirigente della banca, nel 2012 fra i sostenitori di Romney.
Secondo Politico, i finanziatori di Jeb non sono preoccupati dell’andamento della campagna quanto delle prestazioni del candidato, che non riesce a ‘infiammare’ i repubblicani. La raccolta dei sussidi continua, sia pure a ritmo rallentato, ma i costi di uno ‘staff mammuth’ crescono: “Il problema non è quanti soldi Bush riceve, ma quanti ne spende”.  Per Trump, né l’uno né l’altro: il parrucchino, sì, lo inquieta.

sabato 29 agosto 2015

Chiesa: pedofilia; morto l'ex arcivescovo sotto processo, ma la gramigna resta

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/08/2015 

Era il primo prelato pedofilo a essere finito sotto processo nella Città del Vaticano, giudicato da un collegio di soli laici. Ma non era certo il primo, e neppure l’ultimo, dei pedofili nella Chiesa, una gramigna che attecchisce da secoli e che estirpare non è facile. E' morto davanti alla tv accesa, presumibilmente per cause naturali, Josef Wesolowski, 67 anni, polacco, ex arcivescovo. E' stato trovato così, già privo di vita, alle 5 del mattino, da un francescano, nel Collegio dei Penitenzieri in Vaticano, dove scontava gli arresti domiciliari.

Il Promotore di Giustizia ha comunque ordinato un’autopsia che è già stata effettuata. Illazioni e chiacchiere –non c’è dubbio- circoleranno, quale che sia il referto dei medici: in Vaticano, le morti improvvise lasciano sempre aloni di mistero. Basti pensare a quella di Giovanni Paolo I, trovato morto all’alba nella sua stanza il 29 settembre 1978 dopo soli 33 giorni di pontificato: non c’è nessuna prova che il decesso del papa del Sorriso, o del Papa di Settembre, -proprio ieri la causa di beatificazione di Papa Luciani ha fatto progressi- non sia stato naturale; ma ancora se ne parla.

La morte di Wesolowsky, ridotto allo stato laicale per volere di Papa Francesco, riaccende i riflettori sul problema della pedofilia nella Chiesa. Sul tema, dopo le energiche decisioni del nuovo pontefice, è sceso un relativo silenzio, ma nessuno s’illude che la ‘fabbrica dei pedofili’ si sia definitivamente chiusa.

L’impegno del Papa contro la pedofilia si manifesta come una vera e propria rivoluzione nella Chiesa. Pochi mesi dopo la sua elezione, Bergoglio la definisce “una lebbra nella nostra casa” e la mette in testa all’agenda di sradicamento dei mali del clero: migliaia di denunce, miliardi di risarcimenti, comunità sconvolte, nessun continente esente, complicità di cardinali e vescovi, carriere vissute nel silenzio della colpa. Il 10 giugno 2014, viene creato un tribunale ad hoc per processare i vescovi accusati di abuso d’ufficio episcopale, cioè di avere sottovalutato o addirittura insabbiato le denunce di pedofilia ricevute. Poi, un mese dopo, il papa rafforza il sistema penale vaticano relativo ai delitti sui minori.

Wesolowski era sotto processo per atti di pedofilia commessi a Santo Domingo (nei cinque anni in cui è stato nunzio apostolico, dal 2008 al 2013) e per detenzione di materiale pedopornografico (anche durante il soggiorno a Roma sino al suo arresto in Vaticano il 23 settembre 2014). Prova, del resto superflua, che uscire da certi percorsi è difficile, se non impossibile.

Nel 2013 Wesolowski fu sorpreso in una zona di prostituzione minorile di Santo Domingo. Papa Francesco ordinò il suo immediato rientro e, dopo la sentenza di colpevolezza da parte della Congregazione della Dottrina della Fede, lo condannò alla dimissione dallo stato clericale.

Il suo arresto fu deciso per impedirne la fuga. Rinviato a giudizio il 6 giugno, doveva comparire a processo l'11 luglio. Cinque i capi di accusa a lui contestati: detenzione di materiale pedopornografico, pedofilia in concorso con un diacono, ricettazione di materiale pedopornografico, lesioni gravi alle vittime adolescenti, condotta che offende la religione e la morale cristiana per aver visitato siti pornografici.

Era la prima volta che un presule veniva sottoposto in Vaticano a un processo penale in un tribunale composto solo da laici, proprio in seguito al "motu proprio" di Bergoglio che ha rivoluzionato le norme di procedura penale nella Santa Sede, e ad una misura ad hoc per superare una difficoltà formale, ossia il fatto che Wesolowski risultava ancora vescovo perché si era appellato contro la riduzione laicale inflittagli dall'ex Sant'Uffizio.

L’udienza dell’11 luglio, però, durò solo tre minuti. Wesolowski, che dopo un periodo di detenzione in Vaticano era ai domiciliari per problemi di salute, non si presentò perché colto da malore e il processo fu rinviato a data da destinarsi. La sua morte lascia senza giustizia le vittime e senza risposte chi nella Chiesa di Papa Francesco voleva risalire a quanti per anni hanno coperto l'ex nunzio: l’azione penale è estinta, la sentenza spetta ormai ad altro giudice.

Immigrazione: il camion della morte in Austria e i mercanti di uomini

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/08/2015 

Andiamolo ancora a raccontare in giro che i mercanti di uomini, gli scafisti, gli schiavisti sono gente altra da noi. Il dramma del Tir in Austria rivela un traffico di migranti tutto europeo, gestito da europei, organizzato da una multinazionale di europei: tutta gente con il passaporto dell’Ue, che dovrebbe avere i valori dei diritti dell’uomo iscritti nel proprio dna.

Il bilancio dei migranti morti soffocati nell’autotreno abbandonato, forse per oltre 24 ore, lungo un’autostrada in Austria, è di 71 vittime; fra esse, otto le donne, quattro i bambini; probabilmente profughi siriani, quelli cui la cancelliera Merkel ha appena promesso asilo se arrivano in Germania.

Cifre ben superiori ai 50 cadaveri inizialmente stimati. Le polizie ungherese e austriaca hanno arrestato quattro persone di varia nazionalità, tra cui l’autista. Il capo della banda sarebbe in Romania.

Ciò che è successo sul Tir è stata "un'azione criminale, non solo il gesto di un contrabbandiere di esseri umani", dice in conferenza stampa la ministra dell'Interno austriaca Johanna Mikl Leitner- "E' stata una tragedia orribile. Dobbiamo agire, non basta essere commossi".

L’autotreno è stato ritrovato giovedì, abbandonato lungo un'autostrada vicino ai confini dell’Austria con la Slovacchia e l'Ungheria.  Il camion frigorifero di 7,5 tonnellate di stazza, con una zona di carico lunga appena cinque metri, ha targa ungherese e le insegne d’una ditta di pollame slovacca.

Il Tir era stato abbandonato in un’area di sosta per le avarie lungo l'autostrada A4, tra il lago di Neusiedl e la località di Parndorf, nel Burgenland.  Non è chiaro che cosa non sia andato a buon fine nel trasporto: se l’autista abbia lasciato il suo carico quando s’è accorto che i migranti erano morti; o se chi gli doveva dare il cambio non si sia presentato e, quindi, i migranti siano rimasti chiusi dentro a soffocare.

Le vittime sarebbero decedute tra le 36 e le 48 ore prima della scoperta dei cadaveri, giovedì a mezzogiorno. "Dalla parte posteriore del camion, usciva un liquido di decomposizione”, ha raccontato il direttore della polizia del Burgenland, Hans Peter Doskozil.

Dopo una prima ispezione oculare, gli agenti hanno trasferito il tir in un centro a Vienna con un sistema di refrigerazione speciale per facilitare l'estrazione dei cadaveri.

Secondo la polizia ungherese, il camion è stato visto mercoledì a sud di Budapest e poi vicino alla frontiera con l'Austria. Il veicolo sarebbe entrato in Austria già mercoledì e sarebbe stato abbandonato giovedì alle 06:00, sei ore prima di essere ispezionato ed aperto. Ma questa ricostruzione contraddice l’ipotesi che i migranti fossero morti da 24/36 ore. Il caldo sviluppatosi nel container del Tir potrebbe però avere accelerato la decomposizione dei cadaveri.

venerdì 28 agosto 2015

Immigrazione: decine di cadaveri sul camion in Austria scuotono la Merkel e l'Ue

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/08/2015


Quei morti non parlavano tedesco. Ma stavano lì, dentro un camion lungo un’autostrada austriaca. Sono un po’ tedeschi per questo e vengono scoperti mentre la Cancelliera Merkel, che s’è appena convertita sulla via dell’immigrazione e ha convertito il suo governo, è a Vienna, a un Vertice dei Balcani occidentali, dove i leader di diversi Paesi cercano di concordare una strategia per gestire la pressione senza precedenti di migranti di frontiera in frontiera, in un gioco del domino della disperazione.

I morti vengono tirati fuori dal cassone dell’autotreno: asfissiati, soffocati, sono una cinquantina. Storie analoghe, morti analoghe, persino numeri analoghi, a quelli delle tragedie –ormai ricorrenti- nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, dove i più derelitti fra i disgraziati si stipano e soccombono alle esalazioni di olio e nafta.

La strage lungo l’autostrada è "un avvertimento a prendere sul serio il problema, rapidamente e nello spirito europeo di solidarietà", dice la Merkel, che aggiunge di essere "sconvolta". Sono giorni che mettono alla prova la cancelliera: lunedì, il Vertice franco-tedesco con l’annuncio di proposte sull’immigrazione; martedì, la decisione di concedere il diritto d’asilo ai siriani in Germania, senza tenere conto degli accordi di Dublino; mercoledì, la visita al centro di Heidenau attaccato dai neo-nazisti -“Vigliacco chi attacca i profughi”, dice Angela, incurante dei fischi dei nostalgici della svastica -; e ieri, il camion della morte.

La vicenda ha tratti ancora incerti, un bilancio approssimativo. I cadaveri erano su un autotreno parcheggiato in un'area di sosta della A4, tra il lago di Neusiedl e Parndorf, nel Burgenland, non lontano dalla frontiera con l'Ungheria. Il veicolo ha richiamato l'attenzione degli agenti perché fermo da varie ore ai bordi della carreggiata. La polizia sta cercando il conducente, di cui s’ignora l’identità e che ha fatto finora perdere le sue tracce.

Difficile supporre che l’autista non sapesse del suo carico, che quegli immigrati fossero ‘clandestini a bordo’. Più facile immaginare che sulle autostrade dei Balcani e dell’Europa centrale gli autotreni possano essere l’equivalente dei barconi nel Mediterraneo: uno li pensa carichi di merce e, invece, portano esseri umani.

C’è la sensazione che la tragedia possa pesare sulle scelte dell’Unione più di altre nel Mediterraneo, magari più drammatiche nelle dimensioni, ma più lontane dagli occhi dell’Europa che decide.

"Questa vicenda ci ha commosso tutti: i trafficanti di essere umani sono dei criminali", dichiara il ministro dell'Interno austriaco, Johanna Mikl-Leitner, in una conferenza stampa a Eisenstadt.

Per l'Ue, s’avvicina l’ora di dare una risposta comune. La soglia di 40 mila rifugiati da ridistribuire fra i 28 è ormai riconosciuta inadeguata da molti Paesi, fra cui la Germania, e dallo stesso Esecutivo dell’Ue che l’ha proposta. Anche se Berlino e Parigi chiedono a Italia e Grecia di espletare quanto loro richiesto –l’identificazione e il respingimento, per chi non ha diritto all’asilo- e di non limitarsi a fare da ‘terra di transito’.

Migranti e rifugiati arrivano alle porte dell'Unione in un numero senza precedenti, via mare e via terra. Mercoledì, c’è stato un nuovo record al 'varco' nei pressi del villaggio di Roszke, tra Ungheria e Serbia: la frontiera eèstata attraversata da 3.241 persone, tra cui quasi 700 bambini.

Il ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz avverte che il suo Paese vaglierà norme anti-immigrazione più severe se l'Ue non troverà una risposta unitaria. Anche Serbia e Macedonia, Paesi in via di adesione, chiedono più aiuti e un'azione concertata dell'Ue.

Il commissario europeo all'allargamento Johannes Hahn stima che alla porte dell'Europa ci siano attualmente 20 milioni di rifugiati. Bruxelles punta a proporre entro fine anno "un meccanismo permanente, vincolante e con quote" per la ripartizione di richiedenti asilo, in caso di emergenze che possano verificarsi in qualunque Paese. 

Usa: Virginia; Wallmart, basta mitra sugli scaffali, ma è marketing

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/08/2015

Allison e Adam non saranno morti invano: la più grande catena commerciale degli Stati Uniti, quasi 5200 punti vendita in tutta l’Unione, smetterà di offrire fucili d'assalto, semi-automatici e altre armi ad alta precisione. La merce sarà rimossa dagli scaffali prima dell’autunno: l'operazione verrà completata in una o due settimane.

Può suonare ironico, e tragicamente lo è, ma l’uccisione dei due reporter in diretta tv a Roanoke, Virginia, ammazzati da un collega che filma e posta sul web la sua impresa, porta come epigrafe la decisione della Wallmart. Positiva, nell’ottica del controllo delle armi, ma ancora poco incisiva, nonostante gli appelli della Casa Bianca e la frustrazione del presidente Obama.

La drammatica sequenza dell’omicidio a sangue freddo di Alison Parker, 24 anni, giornalista, e Adam Ward, cameramen, 27 anni, l’arma e la telecamera sullo stesso asse, puntati sulla ricerca esasperata e morbosa di visibilità e pubblicità, induce il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest a chiedere che "il Congresso approvi una stretta sulle armi", inviando le condoglianze del presidente ai familiari delle vittime.

E lo stesso Obama, in un’intervista televisiva, ricorda che "il numero di persone che nell’Unione muore a causa delle armi da fuoco è molto superiore a quello delle vittime del terrorismo": un tasto su cui torna spesso, come quando ricordò, dopo la strage di Charleston –nove neri uccisi in chiesa da un ‘supremazista’ bianco poco più che adolescente- che sono 11 mila l’anno le vittime di arma da fuoco negli Usa –gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001 ne fecero circa 3000- e che gli americani s’ammazzano fra di loro 297 volte più dei giapponesi, 39 volte più dei francesi –presi a credibile paradigma europeo-, 33 volte più degli israeliani.

Ma le parole del presidente, invece di fare l’unanimità della Nazione, la dividono e diventano terreno di speculazione elettorale. Hillary Clinton, candidata alla nomination democratica per Usa 2016, è “distrutta e arrabbiata” per quanto accaduto. Ma Donald Trump, il miliardario che cerca visibilità politica, dice che la colpa non è delle armi, ma della malattia mentale non curata del giornalista assassino, Vester Flanagan. E Jeb Bush si merita un A+, che da noi è un 10 con lode, dalla lobby delle armi, l’Nra (National Rifles Association), invitando il presidente a preoccuparsi delle armi del Califfo invece che di quelle dei pacifici e laboriosi cittadini americani “che rispettano la legge”.

Fra i tributi alla memoria di Alison e Adam, portati da parenti, amici, colleghi e gente qualsiasi sul luogo del duplice omicidio, c’è una felpa rosso mattone della Virginia Tech, l’Università non lontana teatro nel 2007 della prima strage raccontata in tempo reale dagli studenti vittime con i loro videofonini: 32 i morti, più lo studente killer di origine asiatica.

E nel giorno dell'uccisione dei due reporter in diretta tv, la paura contagia la cittadina di Sunset, Lousiana, dove un uomo semina il panico accoltellando due donne –le sorelle del sindaco: una muore-, scatenando un conflitto a fuoco con la polizia e asserragliandosi con ostaggi nel minimarket di una stazione di servizio. Alla fine l'arresto, con l'uso dei gas lacrimogeni. Ma il bilancio è tragico: due morti, tra cui un poliziotto, e due feriti. Ancora una volta, è una scena da film, con il killer vestito da Rambo che per sfuggire agli agenti sfonda la vetrina di un negozio con la sua auto.


“Reality dell’orrore”, li hanno definiti Roanoke e Sunset. Ma la Wallmart non vuole che si dia una lettura politica della sua decisione, presa –precisa- “da mesi”: è basata su criteri commerciali, perché c’è un calo nelle vendite di quelle armi, mentre verrà aumentato l'inventario di altri modelli popolari tra i cacciatori. Negli ultimi anni, però, gli azionisti di Walmart hanno fatto pressione perché la catena rivedesse la sua politica di vendita di alcuni prodotti, come i Bushmaster AR-15, utilizzati in stragi di massa come nella scuola Sandy Hook di Newtown, nel Connecticut, o nel cinema di Aurora, in Colorado.

giovedì 27 agosto 2015

Usa: l'ultimo scoop, uccidere in diretta e 'postare' sul web il proprio delitto

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/08/2015
Assassino, di sicuro. Fuori di testa, molto probabilmente, Ma pure giornalista fino agli ultimi istanti. Vester Flanagan, il ‘collega’ che ieri ha ucciso in diretta televisiva una reporter e un cameramen della sua ex tv, voleva "vendicare la strage di Charleston", ma anche lasciare il segno, ‘fare notizia’, ‘bucare il video’, e il web, mettendo insieme un cocktail d’elementi da prima pagina, il sangue, le immagini, il razzismo –al contrario: il nero che ammazza la bianca, giovane, carina, vestita come le protagoniste della serie tv sulle tv allnews, NewsRoom-.
Accade a Roanoke, Virginia, sul confine con la Carolina del Nord, dove comincia il Profondo Sud. A Roanoke, ci si va per scendere in canoa le rapide sul fiume. O ci si passa scendendo da New York o da Washington in auto verso la Florida. Ora, c’è un motivo in più per segnarsela, sulla carta dell’Unione. Ci faranno un museo sulla motorway; e ci venderanno i ‘memorabilia’ di Vester, che, prima di cercare di scappare, posta la scena sul web.
Sotto accusa, finisce “l’esibizionismo paranoico” sui social media, come spiega il criminologo Francesco Bruno, perché l’aspirante assassino / suicida pensa il suo piano per quel pubblico, oltre che per quello televisivo. E le cronache recenti sono strapiene dell’utilizzo del web come strumento di propaganda criminale e terroristica, oltre che di gratuito e in fondo innocuo auto-esibizionismo.
Ma, in realtà, non c’era bisogno dei social per spingere Flanagan, cronista cacciato, a uccidere Alison Parker, 24 anni, giornalista –a suo dire- razzista, e Adam Ward, 27 anni, cameramen, mentre intervistano in diretta a Bridgewater Plaza Vicky Gardner, direttrice della camera di commercio della contea di Bedford. Una scena di cronaca di provincia: routine professionale, un po’ banale.
Cinema e letteratura americani sono pieni di spunti che Flanagan poteva cogliere, dove la paranoia della notizia spinge al delitto. Nel 1956, Fritz Lang diresse ‘L’alibi era perfetto’, divenuto nel 2009 ‘Un alibi perfetto’ di Peter Hyams: un giornalista costruisce uno scoop sull’arresto e la condanna del procuratore generale -Michael Douglas nell’ultima versione-, per un omicidio da lui commesso proprio per non mettere a repentaglio la sua nomea di grande cronista.
Nel 1976, Network racconta, in chiave satirica, e con un cast di stelle –il regista è Sydney Lumet-, come una tv sia disposta ad assoldare una banda di terroristi, che uccidono il diretta il conduttore del talkshow pur di rilanciare l’audience che langue. E il recentissimo Lo Sciacallo di Dan Gilroy ricorda l’ossessione criminale –e venale- per la notizia e l’immagine che ‘Asso nella Manica’ di Billy Wilder nel 1951 aveva già denunciato tragicamente.
Il governatore della Virginia, Terry McAuliffe, un ex pezzo grosso del Partito democratico, assicura che il duplice omicidio non è “un atto di terrorismo”: e l’America tira un sospiro di sollievo, niente ‘lupi solitari’ questa volta, né integralisti, né ‘supremazisti’; solo normale esaltazione omicida, prendi l’arma e la web camera, vai e uccidi.

Poi, arriva una correzione di rotta: il movente è razziale. E l'incuvo si ripropone: il nemico peggiore per gli americani è il vicino della porta accanto, la frizione fra bianchi e neri. Anche se Flanagan aveva pure "motivi di risentimento" nei confronti della testata televisiva per cui aveva lavorato.

Altri americani, nella sua situazione, e senza la 'giustificazione' di vendicare un atto razzista, hanno fatto molto peggio, stragi in fabbrica, a scuola, in ufficio, alla posta; senza neppure preoccuparsi degli effetti televisivi e senza postare la scena. Flanagan, invece, cronista perfetto, sul posto giusto al momento giusto, sfrutta la forza del web, che in una frazione di secondo serve il delitto su tutti gli schermi, dai pc ai telefonini. Del resto, il duplice omivìcidio l'ha organizzato lui: mica poteva farsi sfuggire la notizia.

mercoledì 26 agosto 2015

Usa 2016: democratici, Biden quasi c'è, ruota di scorta o frangiflutti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/08/2015

Ci siamo. Quasi. E forse. Joe Biden, vice-presidente degli Stati Uniti, politico misurato, per nulla scavezzacollo, sta per scendere in campo per la nomination democratica: un avversario  – il solo, finora –, in grado di impensierire la battistrada Hillary Rodham Clinton, la cui marcia s’è un po’ appesantita tra scandali montati e antipatia naturale. Ma c’è pure chi vede in Biden un frangiflutti per Hillary, da mesi unico bersaglio di tutti gli attacchi repubblicani.

Secondo la Cnn, il presidente Barack Obama ha dato la sua ‘benedizione’ a Biden, durante una cena alla Casa Bianca, lunedì. Fonti di primo piano del partito democratico riferiscono alla rete all news che Biden ha pure visto Anita Dunn e Bob Baur, consiglieri fidati del presidente da dieci anni, coppia di guru nella vita e in politica.

Gli indizi di candidatura di Biden si cumulano. Nel week-end, il vice di Obama aveva incontrato Elizabeth Warren, senatrice del Massachussetts, vera ‘anti-Hillary’, popolarissima leader liberal, fustigatrice di Wall Street, che non ama per nulla la Clinton. La Warren ha deciso da mesi di non scendere in lizza, tradendo molte aspettative, ma un suo appoggio a Biden gli farebbe guadagnare molti punti e ne toglierebbe al candidato indipendente, il senatore 'socialista' Bernie Sanders, che guadagna terreno nei sondaggi, ma che non ha chance di nomination e tanto meno di elezione. Resta ai margini dei giochi, invece, Martin O’Malley, ex governatore del Maryland.

In realtà, è Hillary che perde consensi, a causa dell'Emailgate, cioè dell'utilizzo quand’era segretario di Stato (2009-2013), di un account di posta privato invece di quello ufficiale. Tra la mail sotto inchiesta, alcune contenenti materiale classificato o top secret, che non sarebbe stato adeguatamente protetto. In questo contesto, i democratici rischiano di ritrovarsi improvvisamente senza candidato: Biden offre un’alternativa affidabile e credibile.

Il vice-presidente è quel signore che, con rare eccezioni, vive con discrezione nell’ombra del ‘capo’, ma che sa di poterne prendere il posto da un momento all’altro, talora in circostanze drammatiche –è accaduto otto volte nella storia americana, quattro volte perché il presidente è stato ammazzato -.

Drammi a parte, che un vice diventi presidente, negli Stati Uniti succede: di rado, ma succede. Che ci provi, succede più spesso. Nel dopoguerra, quattro vice di presidente a fine corsa hanno tentato: Richard Nixon 1960, Hubert Humphrey 1968, George Bush 1988, Al Gore 2000. Ma solo uno ce l’ha fatta: Bush andò alla Casa Bianca, dopo otto anni nell’ombra di Ronald Reagan. In realtà, pure Nixon divenne presidente, ma nel ’68, contro Humphrey, dopo essere stato battuto nel ’60 da John F. Kennedy e dopo un periodo di quarantena.

Dunque, il tentativo di Biden, dal 2009 ‘numero due’ alla Casa Bianca, non sarebbe sorprendente: secondo ilo New York Times, l’ex senatore del Delaware –sei mandati consecutivi, 36 anni di fila dal 1973 al 2009 - ha avuto una serie di incontri con donatori e leader democratici che non hanno ancora dichiarato d’appoggiare Hillary.

Biden sarebbe fortemente spinto a questa scelta da un promessa fatta al figlio Beau, morto di cancro al cervello a maggio, a soli 46 anni. A incoraggiare il padre sarebbe anche Hunter, il figlio minore: "E' ciò che Beau vorrebbe che io facessi", avrebbe confidato il vice-presidente a Michael Thronton, un suo sostenitore. A giugno, il Wall Street Journal parlò delle pressioni su Biden di John Cooper, che raccolse fondi con successo per Obama.

La scomparsa di Beau era stata una vera tragedia per la famiglia Biden: primogenito, avvocato, maggiore in Kosovo, aveva poi seguito le orme del padre in politica con i democratici ed era stato fino a gennaio ministro della Giustizia del Delaware.

Politico navigato, bianco, esperto di politica internazionale, Biden era stato, nel 2008, una scelta ben azzeccata di Obama, relativamente inesperto, nero, a digiuno di affari mondiali. Per aspirare alla Casa Bianca, gli manca un po’ di carisma e un po’ di vivacità –sa essere noioso-; e deve stare attento alle gaffes, sempre in agguato nelle sue sortite.

Il Time gliene pubblica addirittura una ‘hit parade’ - ma l’esercizio tenta e diverte molte testate -: per fare un complimento a Hillary, che vuole essere presidente, le dice che come vice avrebbe fatto meglio di lui; per sostenere l’Obamacare, la riforma della sanità, si lascia scappare un’espressione ‘forte’; e fa il verso al presidente della Corte Suprema, il giudice Roberts, che sbaglia a leggere il giuramento di Obama. Ma c’è da dire che le gaffes sono diminuite con l’età e l’esperienza.

Lo scarto di Hillary sui suoi attuali improbabili rivali s’è ridotto da 60 punti a mento della metà, mentre il vantaggio sui potenziali antagonisti repubblicani s’è assottigliato. La crescita di popolarità del battistrada conservatore Donald Trump fa pure leva sul fatto che l’ex first lady paga gli scandali e comincia a fare i conti con l’ostilità che buona parte dell’opinione pubblica degli Stati Uniti nutre per lei.

Si sapeva dall’inizio che, sull’altare mediatico delle primarie democratiche, qualche agnello doveva offrirsi all’aquila rapace della competizione 2016: Biden può assumersi il ruolo, pronto a diventare ruota di scorta del partito e dell’Unione.

martedì 25 agosto 2015

Marò: Amburgo ci risponde picche, tutto fermo, ma Girone non torna

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/08/2015

“Ora tornano”. E non tornano mai. Dal 2012 in poi, ce l’hanno millantata come cosa – quasi - fatta una processione di premier e di ministri degli Esteri e della Difesa. Stavolta, però, è peggio: non tornano ora e non torneranno fin quando la procedura arbitrale non sarà conclusa - possono volerci anni, due o tre -. E dire – racconta Natalino Ronzitti, uno dei grandi esperti di diritto internazionale – che gli avvocati di parte indiana erano pronti a offrire che la Corte speciale, chiamata a giudicare in India i due marò, concludesse i lavori in quattro mesi, se l’Italia non si fosse opposta al giudizio. Adesso, ci piacerebbe accettare la proposta; ma non si può più - osserva Ronzitti –, “una volta scelta l'opzione di difendersi dal processo e non nel processo".

L’Italia , dunque, torna da Amburgo con le pive nel sacco: due settimane fa, dopo la doppia udienza, c’era un clima di euforia. I nostri avvocati “gliele avevano cantate chiare”, ai giudici e agli indiani, accusati di “tenere in ostaggio” i marò. Invece, il Tribunale del mare ha detto no a misure urgenti temporanee a favore di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre.

La Corte di Amburgo ha solo stabilito che Italia e India dovranno "sospendere tutte le procedure" e "astenersi da misure che potrebbero aggravare la disputa" o "pregiudicare qualsiasi futura decisione del tribunale di arbitrato". Il verdetto ha visto 15 voti a favore, tra cui il presidente del collegio, e sei contro.

L'Italia voleva che Latorre, ora convalescente, potesse rimanere in Italia oltre la proroga di sei mesi concessagli per motivi di salute e che Girone potesse rientrare dall'India, dove ha obbligo di firma.

Nella sentenza, il Tribunale sappare conscio del dolore delle famiglie dei due pescatori indiani uccisi – le vittime -e delle conseguenze che le restrizioni hanno per i marò e i loro cari.

Commentando il verdetto, l'agente del Governo italiano di fronte al Tribunale, Francesco Azzarello, ambasciatore in Olanda, valuta in modo positivo lo stop alla giurisdizione indiana, ma esprime delusione per le mancate misure urgenti. L'Italia –annuncia la Farnesina- ripresenterà la richiesta alla Corte arbitrale.

Più diretto il commento del ministro Delrio: "L'Italia sperava diversamente", ammette. La sentenza "non va nella direzione richiesta, valuteremo i passi necessari". Nella politica, c’è chi se la prende con il Governo, chi con i giudici –partecipi di un complotto internazionale?- e chi ripete che Salvatore e Max devono tornare a casa (ma, adesso, è più difficile, quasi impossibile).

S’allontana dunque l’epilogo d’una vicenda che risale al febbraio 2012, quando i fucilieri di marina Girone e Latorre, in servizio anti-pirateria sulla Enrica Lexie, spararono contro quello che sembrava un battello pirata. Invece era un peschereccio: due indiani furono colpiti e uccisi. Quando la nave attraccò, i due marò furono arrestati per omicidio: un'accusa che, nel frattempo, fra incertezze legali d'ogni sorta, non è stata ancora formalizzata.

Dopo avere provato varie strade e fatto scelte contraddittorie, Roma decise di ricorrere all'arbitrato: non si tratta di determinare la colpevolezza o meno dei due marò, ma chi ha titolo per giudicarli. Intanto, meglio provare a negoziare: magari ne esce un’intesa.

domenica 23 agosto 2015

Usa 2016: Trump; soldi e balle, il cocktail del successo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/08/2015

Donald Trump ha un’estate di vantaggio sui suoi rivali. Lui ci sta dando dentro a fondo, le spara grosse e spende un sacco. Gli altri, i favoriti della vigilia, che adesso arrancano nei sondaggi, misurano le forze perché la gara è lunga: mancano 442 giorni all’Election Day dell’8 novembre, oltre 150 giorni all’inizio delle primarie. Una corsa così faticosa che rischi di finire in apnea.

Ma il magnate dell’imprenditoria e showman, Donald il rosso per via dei suoi improbabili capelli, non se ne cura: a corto di soldi, lui non rischia di restare; e deve invece acquisire politicamente notorietà e credibilità.

Incuriosita, la gente lo segue: a Mobile, in Alabama, l’altro giorno, la stadio da 40 mila posti era quasi esaurito, quando lui c’è entrato sulle note, un po’ scontate, di ‘Sweet Home Alabama’, dopo essere sceso dal suo 757 personale e personalizzato –nello Iowa, non l’aveva usato, perché la gente un po’ economa di quello Stato non l’avrebbe apprezzato-.

Poi, ha sciorinato il suo programma politico: “Annienterò i miei rivali, sto schiacciando Jeb Bush e Marco Rubio in Florida”, il loro Stato. Quanto a Hillary Rodham Clinton, la ‘nemica’ democratica, “non so se arriverà fino in fondo: sento di lei brutte cose” –un riferimento all’emailgate, lo scandalo che porterà l’ex segretario di Stato a testimoniare di fronte a una commissione del Congresso-.

Quindi, eccolo lanciare al galoppo il cavallo di battaglia della sua campagna: contro l’emigrazione, per un muro tra Usa e Messico, contro – ed è quasi inaudito, negli Stati Uniti - lo ‘ius solis’, cioè il principio, sancito da un emendamento della Costituzione, che chiunque nasce sul suolo dell’Unione ne è cittadino. Un tema che al Sud gli vale la simpatia della ormai ‘minoranza bianca’ e i consensi degli ultra-conservatori e dei qualunquisti, che poi non votano. Ma che gli preclude il sostegno, molto pesante, degli ispanici. Tant’è che Bush e Rubio, due dei suoi avversari più accreditati, moglie messicana l’ex governatore della Florida, genitori cubani il senatore, gli danno sistematicamente contro, mentre qualche peone del folto gruppo - 17 gli aspiranti alla nomination – prova a imitarlo.

Secondo Politico, 7 su 10 repubblicani ‘doc’ vogliono che Trump la smetta con ‘sta storia e cambi registro. Anche se i sondaggi, per ora, gli danno ragione: è ben in testa al plotone dei candidati, sfiora il 25% dei suffragi - solo Bush e Scott Walker, governatore del Wisconsin, superano regolarmente la soglia del 10% - e ha ridotto sotto i 10 punti il distacco da Hillary Clinton. Secondo un rilevamento Cnn/USAToday, in un duello oggi il 51% voterebbe l’ex first lady e il 45% Trump, che, a giugno, quando scese in lizza, era indietro di 25 punti,

Il magnate dell’imprenditoria non ha problemi di soldi – può spendere fino a un miliardo di dollari del suo, si vanta -, mentre gli altri centellinano i fondi. E, poi, senza peli sulla lingua e senza freni da ‘politicamente corretto’, fa sempre meglio del soporifero Jeb. In un match a distanza nel New Hampshire, lo ha bollato come "ineleggibile", "poco energico" e "inconcludente"; e lo ha canzonato perché “fa addormentare” i pochi che lo vanno a sentire. Quindi, ha bocciato le posizioni di Bush luna dopo l’altra, dall'educazione alla sanità, dall'immigrazione alla politica estera. "E’ la cosa più stupida mai sentita in politica", ha detto, della tesi di Bush sulla necessità di "un maggior ruolo Usa nel gioco" in Iraq, impegnando più risorse contro il Califfato.

Pare Gastone, di questi tempi: i contrattempi diventano colpi di fortuna. Una corte di New York l’aveva convocato come potenziale giurato: un fastidio per tutti, figuriamoci per lui, che, a marzo, aveva già avuto un’ammenda di 250 dollari per non avere risposto a cinque convocazioni dal 2006 - inviate all’indirizzo sbagliato, è la tesi difensiva -. Stavolta, Trump è andato e, davanti a una selva di telecamere, s’è detto pronto a fare il suo dovere di cittadino. Ne è uscito uno spot; e manco l’hanno preso.

Asterischi

- I  17 candidati alla nomination repubblicana per la Casa Bianca daranno vita a un secondo dibattito in diretta sulla Cnn il 16 settembre da Simi Valley in California, sede della biblioteca presidenziale di Ronald Reagan. Il primo dibattito, sulla Fox, s’è svolto a Cleveland, Ohio, il 6 agosto. Altri seguiranno il 28 ottobre sulla Cnbc e, poi, uno al mese a novembre, dicembre, gennaio.

La stagione delle primarie di Usa 2016 inizia più tardi che nel 2012, quando fu anticipata a gennaio: il 1° febbraio, si vota nello Iowa, con il sistema dei caucuses, cioè delle assemblee; e il 9 febbraio nel New Hampshire. Poi, tra il 20 e il 27 febbraio, democratici e repubblicani si esprimeranno separatamente in South Carolina e Nevada. Marzo sarà il mese più fitto e potenzialmente decisivo. Le date non sono ancora ufficiali.

- Fra i rivali di Donald Trump, c’è già chi non ha più un dollaro in tasca (o quasi): l’ex governatore del Texas Rick Perry ha smesso di retribuire lo staff della sua campagna, che continua a lavorare per lui per volontariato. Fino a quando? Nel 2012, Perry, vittima delle sue gaffes, fu tra i primi a ritirarsi.

sabato 22 agosto 2015

Corea: 'Good Morning Pyongyang', minacce di 'guerra della radio'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/08/2015

Una guerra di radio: una cosa vintage al tempo della guerra sui social e della propaganda sul web del Califfato. Vengono in mente quei soldati tedeschi ‘traditi’ dalle note sensuali di Lilì Marleen; o, in epoca più recente, il Good Morning Vietnam di Robin Williams, soldato anti-militarista; o ancora Radio Free Europe, arma della Guerra Fredda, o le trasmissioni destinate alla popolazione irachena durante l’invasione del 2003.

Qui, il fronte è il confine fra le due Coree –se vi serve una suggestione cinematografica, ‘Mash’, dove però la radio da campo serve ad amplificare le imprese sessuali di ‘Bollore’ e del suo partner-. Il regime di Pyongyang non manda giù i programmi di musica pop, previsioni meteo e buddismo che altoparlanti lungo la zona demilitarizzata che separa le due Coree rovesciano dal Sud sul Nord.

E così, dopo uno scambio di colpi di artiglieria e altre scaramucce, il dittatore Kim Jong-un, figlio e nipote d’arte, perché quella dei Kim è un’autentica dinastia comunista, ha messo sul piede di guerra le sue truppe. Lo riferisce l'agenzia ufficiale Kcna: l’ordine ai militari è di entrare in "un semi-stato di guerra" -che cosa significhi, non è ben chiaro-.

In attesa che scada oggi l’ultimatum di 48 ore lanciato giovedì, le forze armate nordcoreane devono "essere del tutto pronte al lancio a sorpresa di qualsiasi azione militare". Beh, con tanto d’annuncio l’effetto sorpresa si sarà un po’ perso. Ma nessuno ha davvero voglia di passare alle vie di fatto. Sempre che Kim non abbia davvero guai grossi ad affermare la propria leadership in patria: alzare la tensione internazionale è un vecchio artificio del nonno e del papà, quando le cose non vanno bene nel Paese.

Seul ha già replicato intimando a Pyongyang di astenersi da ogni "azione avventata" e avvertendo che, com’e' già successo, i soldati sudcoreani sono pronti a rispondere. Quando, giovedì, il Nord provò ad abbattere con un razzo uno degli altoparlanti ‘invasori’, il Sud rispose con tiri d’artiglieria.

Rispetto ai rischi, la ‘posta in gioco’, però, appare minima: Pyongyang pretende che Seul rimuova tutti gli altoparlanti. La zona demilitarizzata che dall’armistizio del 1953, dopo un conflitto durato tre anni e forse milioni di vittime, separa i due Paesi d’uno stesso popolo ne ricorda di peggio.

Da un ventennio, la penisola coreana è in bilico tra momenti di distensione tra le due capitali e accessi di tensione, tra un dialogo internazionale sui programmi nucleari nord-coreani e sussulti d’orgoglio nazionalistico sud-coreano, seguendo percorsi non sempre logici in apparenza e intrecciati alle vicende interne politiche ed economiche –il Nord è esposto a devastanti carestie-.

Già nel 2013 Kim, giunto al potere inaspettatamente giovane, aveva dichiarato "lo stato di guerra" con Seul, senza mai passare alle vie di fatto. Tre anni prima, nel 2010 quando alla guida del Paese c'era il padre, Kim Jong-il, i due episodi più gravi: in marzo un sottomarino di Pyongyang affondò una nave da guerra sudcoreana, la corvetta Cheonan –morirono 46 dei 104 marinai a bordo-; e poi, in novembre, l'artiglieria nordcoreana martellò l'isola sudcoreana di Yeonpyeong – restarono uccisi due civili e due soldati-. In quest'ultimo caso, Seul rispose al fuoco.

A sventare il conflitto, in genere hanno concorso le pressioni internazionali: su Seul, quelle Usa; e su Pyongyank quelle cinesi. Oggi l’influenza di Washington e Pechino sui rispettivi interlocutori s’è, però, un po’ appannata –anche se il nazionalismo sudcoreano è più indirizzato contro il Giappone che contro la Nord Corea, un fastidio e un anacronismo più che un vero nemico-.

A fare cadere il muro di Panmunjom, Bill Clinton provò negli ultimi mesi della sua presidenza, fine 2000: ci andò vicino, non ci riuscì. Obama ci vorrà provare?, dopo avere smantellato quelli diplomatici ed economici con Cuba e con l’Iran.

venerdì 21 agosto 2015

Egitto: il Cairo brucia, al-Sisi chiede aiuto a Putin

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/08/2015

Sono lontani i tempi in cui Nasser, leader riconosciuto del post-colonialismo arabo e del movimento dei non allineati, giocava per l’Egitto la carta dell’alleanza con l’Urss in funzione anti-occidentale: lontani oltre mezzo secolo. Ma forse qualcosa di simile sta accadendo di nuovo: il presidente russo Vladimir Putin riceverà il presidente egiziano Abdul Fattah al-Sisi a Mosca mercoledì 26 agosto.

Al Cremlino, al-Sisi giunge preceduto dall’eco delle esplosioni che, in questi giorni, insanguinano l’Egitto: i movimenti antagonisti del regime repressivo del generale presidente lo sfidano, dopo l’entrata in vigore, all’inizio della settimana, di 54 nuove misure anti-terrorismo.

Ieri, un attentato, l’ultimo di una serie di azioni cruente, è stato compiuto al Cairo, proprio davanti al Palazzo della Sicurezza nazionale. Secondo un gruppo vicino al sedicente Stato islamico, l’attacco doveva "vendicare i fratelli martiri”: il bilancio è di 29 feriti, tra cui sei poliziotti.

L’incontro tra Putin e al-Sisi è annunciato dal Cremlino: i due parleranno di Medio Oriente e Libia, ma pure delle "prospettive di ulteriore rafforzamento della cooperazione economico-commerciale" tra i due Paesi. Putin, messo un po’ ai margini della politica internazionale dalla crisi ucraina, è ancora tenuto in gioco dall’accordo sul nucleare con l’Iran e dalle crisi nel Grande Medio Oriente.

E’ il secondo incontro quest’anno fra Putin e al-Sisi –ma Renzi fa meglio del russo: è a tre-. Putin era andato in visita al Cairo a febbraio e aveva firmato accordi e memorandum, fra cui l’’intesa per la costruzione della prima centrale nucleare egiziana.

Rispetto agli Anni 50 e 60, l’ideologia non c’entra, o c’entra poco: conta la convenienza politica ed economica. Putin e al-Sisi, poi, hanno stili di governo simili, autoritari e fortemente personalizzati –culto della personalità, si diceva una volta, ma va bene pure ora-. Ma Putin, in più, ha, al momento, un controllo del territorio che l’altro si sogna.

In Egitto, capita persino che i terroristi si disputino un attentato, come ieri. Lo Stato del Sinai, gruppo affiliato allo Stato islamico, ha rivendicato l’azione al Cairo come una vendetta per i martiri di Sharkas, un villaggio dove nel 2014 furono uccisi sette miliziani. Ma in precedenza l’attacco era stato firmato da Egyptian Black Block, una sigla finora attribuita a ultras del calcio che nel luglio 2013 parteciparono ai moti di piazza per rovesciare il presidente democraticamente eletto Morsi.

La dinamica dell’azione evoca, in qualche misura, l’attacco contro il consolato italiano al Cairo, l’11 luglio, anch’esso avvenuto tra la notte e l’alba con un’autobomba.

Secondo una prima ricostruzione, un'auto s’è fermata intorno alle 2 di notte nei pressi dell'edificio della polizia, un palazzo di quattro piani: il conducente è sceso ed è salito su una motocicletta. Poco dopo l'auto è saltata in aria provocando un ampio cratere e danneggiando, oltre alla caserma, anche gli edifici circostanti.

L'attentato avviene tre giorni dopo il via libera al nuovo pacchetto egiziano di leggi anti-terrorismo, più dure di quelle in vigore e che, oltre a inasprire le pene, dà maggiori poteri alle forze di sicurezza. Le nuove norme, 54 misure, sono entrate in vigore nonostante le forti polemiche da parte di attivisti dei diritti dell’uomo ed esponenti della società civile egiziana e della comunità internazionale, che ritengono la riforma un ritorno all'epoca del regime di Hosni Mubarak: una sorta di restaurazione della satrapia che la Primavera egiziana del 2011 aveva cancellato.

L’attacco pare confermare un cambio di strategia da parte degli oppositori armati al regime al-Sisi: più che attacchi massicci nel Sinai contro obiettivi militari, azioni mirate nella capitale e altrove e sequestri di stranieri –l’ultimo, un croato sequestrato il 13 agosto-, per colpire anche il turismo, oltre che gli interessi degli amici del generale presidente.

giovedì 20 agosto 2015

Is: il nemico è l'archeologo, decapitato il custode di Palmira

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/08/2015 

Il nemico più temuto?, dal sedicente Califfo e dai suoi sgherri. Non i raid aerei della coalizione, che pure infliggono danni e perdite ai miliziani jihadisti; o i peshmerga curdi, gli unici che tengono loro testa sul terreno. E neppure gli infedeli all’Islam che, fedeli ad altro dio, che se è uno è poi lo stesso, condividono una dimensione religiosa. E manco gli ostaggi che valgono per il riscatto che qualcuno è disposto a pagare per loro; altrimenti, sono carne da macello da sacrificare negli spot dell’orrore: Isacchi e Ifigenie senza deus ex machina.

Il nemico la cui uccisione è una sconfitta ha il volto e la cultura di un archeologo siriano di 82 anni, che la soldataglia dell’autoproclamato Stato islamico decapita e appende a una colonna romana, sulla piazza principale di Palmira, senza essere riuscita a ottenerne le informazioni che voleva.

Khaled Asaad, responsabile per quasi mezzo secolo del sito archeologico, uno dei più suggestivi, testimonianza dell’appartenenza della Siria a un patrimonio culturale condiviso da tutta l’umanità, era noto per i suoi lavori a livello internazionale: davanti al museo che dirigeva, ha dato la sua vita per difenderne i tesori, rifiutandosi di indicare ai miliziani dove fossero nascosti reperti da rivendere per acquistare armi.

Un traffico che chiama in causa anche le responsabilità dell’Occidente: i mercanti d’antichità e, ancor più, gli acquirenti che foraggiano il terrore per impreziosire le loro case.

La notizia dell’esecuzione di Asaad, dopo oltre un mese di detenzione, interrogatori, maltrattamenti, è stata data dal responsabile delle antichità siriane Maamoun Abdulkarim, che a sua volta l’ha avuta dalla famiglia della vittima. Con Abdulkarim, Asaad aveva continuato a collaborare come esperto anche dopo il pensionamento, nel 2003: "Lo avevamo scongiurato, io e altri colleghi e amici, d’andarsene da Palmira, ma lui non ci ha voluti ascoltare". Il Califfato motiva, invece, l’esecuzione con gli incarichi di rappresentanza del governo di Damasco affidati allo studioso in conferenze all'estero.

In un’intervista ad Al Jazira, Amr al Azm, un archeologo siciriano attualmente professore di Storia del Medio Oriente e Antropologia all’Università di Shawnee, nell’Ohio, dice che diversi archeologi sono stati fatti prigionieri dall’Is in Siria negli ultimi anni e altri sono stati sottoposti a pressioni perché "ritenuti in possesso di informazioni su antichità di cui i jihadisti vogliono impadronirsi": per rivenderle, mica per distruggerle, come avviene in immagini di propaganda spesso rivelatesi false.

Secondo al Azm, Asaad sarebbe stato preso perché responsabile dell’evacuazione di molti reperti dal museo di Palmira prima dell’arrivo degli jihadisti, a maggio.  "Personalmente - ha aggiunto - conosco un archeologo che a Raqqa (la capitale del Califfato in Siria, ndr) è stato perseguitato dall’Is a lungo per estorcergli informazioni su presunti tesori nascosti".

Le informazioni su traffici e distruzioni sono sempre controverse. A giugno si disse che gli jihadisti avevano minato le rovine Palmira, lasciandone presagire la distruzione, come di siti archeologici iracheni (ad Hatra Nimrud e nel museo di Mosul). In Siria, sarebbe stata abbattuta una statua sotto forma di leone della dea Al Lat, I secolo a.C. Ma i miliziani rivendicano, invece, il merito d’intercettare e bloccare traffici clandestini.

Il fascino di Palmira violato dal terrore risveglia l’Occidente dal suo torpore, davanti all’offensiva di atrocità sciorinata nell’ultima settimana dall’Is, in Iraq, in Siria, nell’harem di morte del Califfo al-Baghdadi, alla Sirte, esecuzioni, impiccagioni, decapitazioni.

Come se i miliziani stessi reclamassero l’attenzione dell’Occidente, anche se certi macabri ‘show’ sembrano più destinati all'opinione pubblica interna che a quella internazionale, per incoraggiarne la sottomissione. E c’è, poi, nel sovrapporsi delle informazioni, un intreccio di propaganda, perché non sempre le fonti degli orrori sono davvero attendibili. Lo strabismo per cui se la coalizione attacca un obiettivo integralista elimina miliziani; se invece lo attacca l’aviazione di Assad uccide civili innocenti.

mercoledì 19 agosto 2015

Libia: Aliboni, crisi è deleteria per Italia, partecipare a intervento senza guidarlo


Scritto per La Presse il 19/08/2015
 Gli sviluppi della crisi in Libia sono “deleteri per gli interessi italiani in quel Paese”. Per contrarli, l’Italia deve puntare “su un forte impegno nel quadro d’un intervento internazionale, accompagnato da efficaci e generosi aiuti tecnico-economici bilaterali, più che sulla leadership dell’intervento”. Lo dice a La Presse Roberto Aliboni, uno dei massimi esperti italiani di Libia, consigliere scientifico per il Mediterraneo e il Medio Oriente dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).
D - L'offensiva degli jihadisti in Libia allarma le diplomazie occidentali, con l'iniziativa, lunedì,  degli Usa e di cinque Paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna) e lea presa di posizione di ieri della Nato, in concomitanza con la riunione della Lega araba. Si può oggi ipotizzare un intervento militare circoscritto alle milizie che fanno riferimento al Califfato?
R - Un intervento militare ‘terzo’ rispetto ai libici e al sedicente Stato islamico (Is) - internazionale o solo occidentale - o avviene in alleanza con una delle due fazioni in presenza (Tobruk ovvero Tripoli) oppure avviene indipendentemente dalle due fazioni.
In quest’ultimo caso avremmo una situazione simile a quella in Siria, con la coalizione anti-Is che combatte l’Is indipendentemente dal regime di Assad, come pure dalle svariate milizie ribelli, e invece in alleanza con – almeno per ora - modestissime e incerte  milizie “moderate” facenti capo agli Usa. Ritengo che un intervento del genere avrebbe come minimo le stesse difficoltà e la stessa inconcludenza di quello siriano.
Escluderei l’evenienza di un intervento in alleanza con Tripoli (che non gode del riconoscimento della comunità internazionale, ndr).
Un intervento è invece possibile e prevedibile in alleanza con Tobruk. Tuttavia, questo intervento (le cui caratteristiche sono tutte e difficili da definire) si profila in modo diverso a seconda che avvenga a ridosso d’un’intesa d’unità nazionale fra tutte le fazioni oppure avendo contro le fazioni che non abbiano accettato tale accordo. In tal caso il nuovo governo avrebbe il sostegno occidentale ma si troverebbe a combattere su due fronti, Is e Tripoli (più Ansar al-Sharia e i qaedisti), più o meno coalizzati fra loro, con problemi a lungo termine. Ciò metterebbe l’intervento - internazionale o occidentale che sia - davanti a problemi non lievi, in una situazione di nuovo simile alla siriana.
D - C'è una possibilità che l'appello all'unità contro gli jihadisti venga accolto dalle fazioni libiche?, e che, quindi, l'intesa parziale già raggiunta si rafforzi verso una pacificazione nazionale?
R - Le fazioni libiche combattono l’Is localmente e in ordine sparso, non solo e non tanto per la divisione fra Tobruk e Tripoli ma anche perché nel conflitto sono impegnate alcune tribù (pure importanti) e forze locali (come a Derna, a Bengasi e Sirte). L’impegno diretto delle tribù contribuisce a frammentare ulteriormente il quadro.
Le voci che in Libia esortano a un impegno unitario contro l’Is, formazione che tutti avversano (con l’eccezione di alleanze, tattiche, fra Is e Ansar al-Sharia), sono non poche, ma non riescono a superare la divisione fra moderati e radicali che esiste nel Paese (un’evoluzione – non esattamente coincidente con quella fra Tobruk e Tripoli - dovuta soprattutto al negoziato condotto dall’inviato dell’Onu Bernardino Léon). Perciò, mentre appare doveroso da parte occidentale e internazionale esortare all’unità contro un pericolo comune, del resto percepito come tale dai libici, tale unità d’intenti può diventare operativa solo se interviene un accordo(sia fra tutte le fazioni, e allora sarà una unità operativa forte, sia fra quelle pronte ad accettare il ‘primato’ di Tobruk, (e allora sarà più debole).
D - Quali possono essere le conseguenze degli sviluppi in atto sul traffico di migranti dalle coste libiche?, e sugli interessi italiani in Libia? C'è lo spazio per un'iniziativa autonoma italiana a frenare il primo e a tutelare i secondi?
R - La possibilità che un risorto governo libico faccia uscire il territorio dall’attuale situazione di “ungoverned space” (spazio non governato, ndr) e freni dunque il flusso di emigranti e rifugiati, anche in presenza di sviluppi favorevoli, non è vicina. L’intervento esterno, se sarà attuabile e attuato, dovrebbe concentrarsi su questo punto e assumere una forte dimensione di controllo delle frontiere (e credo che questo farebbe piacere a tutte le fazioni e tribù libiche, anche ove restassero in contrasto fra loro),
Inoltre, non si deve dimenticare che la stabilità della Libia è solo uno dei fattori dell’anomala mobilità attuale. Non è neppure il più importante avendo un carattere meno strutturale degli altri (é una circostanza favorevole, ma non una causa).
Per quanto riguarda gli interessi italiani in Libia, gli sviluppi in corso sono deleteri. La stabilizzazione del Paese avrebbe comunque effetti positivi. Tuttavia, ritengo che un ingabbiamento della mobilità e una tutela degli interessi dovrebbero essere affidati a una saggia e forte azione del governo italiano nel quadro dell’azione collettiva internazionale, europea e occidentale.
Non tutti i libici vedono l’Italia con favore o, meglio, non vedono con favore un’esposizione diretta italiana. Per cui punterei a un forte impegno italiano nel quadro di un intervento internazionale, accompagnato da efficaci e generosi aiuti tecnico-economici bilaterali, più che alla leadership dell’intervento, come invece si caldeggia dal parte di taluni media e dal governo.

martedì 18 agosto 2015

Egitto: terrrorismo, le 54 sfumature di repressione del generale

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/08/2015 

Ormai, oligarchi, satrapi, leader autoritari di mezzo Mondo l’hanno capito: se vogliono reprimere il nemico interno con la benedizione delle democrazie occidentali, basta che mimetizzino da lotta al terrorismo la repressione. E tutto diventerà loro lecito. Il primo fu Putin, che aderì alla guerra al terrorismo di Bush II, schiacciando l’insurrezione cecena (che ci mise del suo nel dargliene buoni motivi, dal teatro di Mosca alla scuola di Beslan). Ma ci riuscì pure un dittatore come Gheddafi, che nel 2002 barattò la benevola tolleranza verso il suo regime di americani e britannici con la consegna d’obsoleti arsenali.

Adesso, il presidente turco Erdogan schiera la sua aviazione nei raid anti-Califfato, così che può soffocare nel sangue l’anelito dei curdi, gli unici efficaci sul terreno contro le milizie jihadiste, all’autonomia e all’indipendenza. E il presidente egiziano Abdul al-Sisi vara un nuovo pacchetto di severe misure per contrastare il terrorismo integralista: una raffica di 54 provvedimenti, che critici del generale divenuto presidente rovesciando il presidente legittimo Mohamed Morsi e difensori dei diritti umani considerano un armamentario per stroncare il dissenso interno: c’è il timore che pugno di ferro contro gli jihadisti possa essere usato in modo spregiudicato.

Le misure egiziane danno una definizione molto generica di terrorismo: ogni atto che lede l’ordine pubblico con la forza, per cui una protesta studentesca o una manifestazione popolare rischiano di finirci dentro alla prima sbavatura. Sono inoltre previste multe pesantissime - decine di migliaia di euro - per i giornalisti che danno "notizie o dichiarazioni false" su atti terroristici o che pubblicano informazioni che contraddicono le note del ministero della Difesa. Ovviamente con buona pace della liberà di stampa e di informazione.

La bozza originale, che prevedeva due anni di carcere, è stata rivista sotto il peso di una valanga di contestazioni, interne e internazionali. Amnesty International avverte che le nuove leggi impediranno la libertà di espressione e il diritto di manifestare, creando in Egitto uno stato d’emergenza permanente: "Queste misure –dice l’organizzazione- diverranno un altro strumento per stroncare ogni dissenso e spianare i diritti umani”.

Il pacchetto sancisce che i processi ai danni di sospetti terroristi siano gestiti da tribunali speciali. Chi aderisce a un gruppo radicale rischia 10 anni di carcere; finanziare un’associazione terrorista può costare l'ergastolo, ovvero 25 anni di carcere); esaltare atti di natura violenta o creare un sito per diffondere messaggi di matrice integralista comporta pene fra i 5 e i 7 anni di carcere.

Al-Sisi aveva promesso un giro di vite anti-terrorismo a giugno, dopo l’attentato all’autobomba che aveva ucciso al Cairo il procuratore generale Hisham Barakat. Il piano ora varato prefigura un irrigidimento del braccio di ferro del generale presidente con i Fratelli Musulmani, che avevano democraticamente espresso il presidente Morsi -divenuto poi impopolare- e che ora sono messi al bando come organizzazione terroristica, arrestati a migliaia e costretti alla clandestinità.

Ora, sarebbe il caso di prendere le distanze dal pacchetto e dal generale, i cui tribunali, intanto, impartiscono a centinaia condanne a morte a dissidenti e islamisti. Con l’effetto, è scontato, d’inasprire lo scontro e d’innescare, anziché sopire, la minaccia terroristica, nel Sinai, ma anche al Cairo e nei luoghi turistici: è una strategia da militare, arrivare alla normalizzazione attraverso la guerra, invece che alla pacificazione tramite il dialogo.

I media del Cairo, preventivamente rispettosi delle nuove norme, concentrano l’attenzione sull’afa killer di questa torrida estate. E l’Occidente, più complice che distratto, guarda altrove: l’Italia in primis, ché i rapporti tra il Cairo e Roma non sono mai stati così intensi.

Libia: assenza di iniziativa internazionale e appelli dell'Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/08/2015 

Sembra un disco rotto, la diplomazia internazionale sulla Libia. E quella italiana le va dietro. Appelli all’unità, alla pacificazione, per una soluzione politica. Lanciati a chi è diviso, si fa guerra e cerca sul terreno una soluzione militare.

Dove stia, la pretesa leadership italiana sulla questione libica affermata più volte dal premier Renzi, non si sa. Eppure l’Italia ha in Libia responsabilità speciali, storiche  – la colonizzazione - e recenti - l’irresponsabile gestione, imbarazzante per tutto l’Occidente, della fine di Gheddafi e del dopo Gheddafi -. Di cui adesso l’Italia sopporta pesanti conseguenze, perché l’incertezza libica è componente essenziale dell’emergenza immigrazione.

Ieri, gli Usa e cinque ‘grandi’ dell’Unione europea, fra cui l’Italia, hanno lanciato un appello, l’ennesimo, per una soluzione politica, proprio mentre il loro interlocutore libico, il Parlamento che siede a Tobruk, chiedeva un intervento armato dei Paesi arabi contro le milizie jihadiste.

Il governo internazionalmente riconosciuto, ma che non ha dietro di sé la maggioranza dei libici, chiede pure la revoca del divieto della vendita di armi imposto dall'Onu nel 2011. E Tobruk avverte che il Califfato conquisterà altro terreno in Libia senza un intervento armato.

Le notizie sul crescendo di terrore a Sirte offrono lo spunto ai governi di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna e Stati Uniti per chiedere a tutte le fazioni libiche di essere unite contro l’Is, nonostante non sia chiaro dove corra il confine tra orrore e propaganda nelle ultime cronache.

In una riunione straordinaria al Cairo, oggi, la Lega Araba valuterà le richieste di Tobruk, che chiede di bombardare la roccaforte in Libia degli jihadisti: un’operazione già compiuta, mesi fa, dall’aviazione egiziana, senza sostegno internazionale, ma con la connivenza occidentale. I Paesi limitrofi, anche Tunisia ed Algeria, sono consapevoli che il deterioramento della sicurezza in Libia è una minaccia per tutto il Nord Africa.

Il ministro degli Esteri Gentiloni ripete che “la Libia rischia di diventare una nuova Somalia”. Ma già lo è, con due governi –a Tobruk e a Tripoli-, una enclave jihaidsta, una serie di potentati locali. E la mediazione dell’Onu avvicina i moderati, ma non coinvolge i duri delle diverse fazioni.