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sabato 28 febbraio 2015

MO: Palestina, la cattiva coscienza della sinistra (e dell'Europa)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/02/2015

Per la sinistra, e per l’Europa, la questione palestinese è un irrisolto ricorrente dilemma. Non solo per loro, intendiamoci: il conflitto tra israeliani e palestinesi attraversa tutto il dopoguerra e resta un capitolo aperto nonostante guerre e accordi, Nobel e attentati, intifade e ritorsioni. Anche l’America, che s’è sempre schierata con Israele, nei momenti della verità, quale che fosse il presidente o l’Amministrazione, discute e spesso si contraddice: regolarmente, il Congresso vota il trasferimento dell’Ambasciata degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e, regolarmente, da anni, quale ne sia il colore, l’Amministrazione ignora l‘invito.

Da una parte, c’è l’angoscia del presente; dall'altra, il peso della storia. Spesso intollerabili, l’una e l’altro. La soluzione dei due Stati, Israele e la Palestina, che vivano entrambi sicuri dentro i propri confini, in pace l’uno con l’altro, è una formula acquisita da tempo dalla diplomazia internazionale. Ma, da quando è stata sancita, la sua attuazione non è mai stata vicina. Così come non lo sono mai state le ripetute risoluzioni delle Nazioni Unite sul ritorno degli esuli alle proprie case, sul ripristino dei confini, sugli insediamenti, sull’esercizio del diritto di difesa proporzionato all’offesa subita o potenziale.

L’ambiguità è un tratto costante della diplomazia mediorientale: all’Onu, c’è chi vota per la Palestina, ma non è poi scontento quanto il veto degli Usa ‘salva’ Israele. E, quando c’è di mezzo Israele, l’Ue si spacca sempre in tre tronconi: chi sì, chi no, chi s’astiene.

Fin quando la questione palestinese era un capitolo del confronto Est-Ovest, comunismo contro capitalismo, poveri contro ricchi, le posizioni apparivano disegnate in modo più netto anche sul terreno della politica nazionale. Ma, dagli Anni Settanta, non è più così: i distinguo si sono infittiti, il peso dell’Olocausto è stato più condiviso. I partiti di sinistra sfumavano le loro posizioni pro-palestinesi, perché non volevano essere anti-israeliani; i partiti di destra che si rifacevano una verginità accentuavano l’amicizia verso Israele per allontanare il sospetto di anti-semitismo.

La geografia politica dell’Ue sulla questione palestinese riproduce un po’ gli stessi riflessi. Molti Paesi dell’Unione dal passato comunista, Polonia, Rep. Ceca, Ungheria, Bulgaria, Romania, oltre a Malta e a Cipro, hanno riconosciuto la Palestina. All’Ovest, l’ha fatto solo la sempre neutrale Svezia, campione della difesa dei diritti umani: un atto annunciato il 3 ottobre dal premier Stefan Lovfen e formalizzato il 30 ottobre, suscitando il plauso del mondo arabo e le prevedibili furiose reazioni israeliane.

In autunno, l’accelerazione è stata evidente. In Gran Bretagna –a larghissima maggioranza: solo 12 contrari, Francia –di stretta misura-, Spagna, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo, i Parlamenti nazionali hanno invitato i loro governi a riconoscere la Palestina. I governi non l’hanno ancora fatto. Analogo voto, simbolico, venne dal Parlamento europeo il 17 dicembre, con un’amplissima maggioranza: 498 sì, 88 no e 111 astenuti.

Dei Grandi dell’Ue, mancava l’Italia, che s’è oggi espressa con l’ambiguità dell’ignavia. E manca la Germania. La cancelliera Angela Merkel il 21 novembre è stata netta: "Un riconoscimento unilaterale della Palestina non ci porta avanti sulla strada della soluzione dei due Stati", che, dagli Anni Novanta, è l’opzione europea, poi condivida da Onu, Usa, Russia, per risolvere la questione palestinese.

venerdì 27 febbraio 2015

MO: Palestina, l’ambiguità dell’ignavia nel voto alla Camera

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 27/02/2015
Se c’è un popolo abituato  da decenni, ormai da oltre mezzo secolo, a non fidarsi delle dichiarazioni di istituzioni internazionali e governi nazionali sulla questione palestinese, è il popolo palestinese. E se c’è un popolo abituato da decenni, ormai da oltre mezzo secolo, a ignorare le stesse dichiarazioni quando non gli piacciono, è quello israeliano.
Né palestinesi né israeliani, quindi, si faranno soverchio cruccio, né eccessive illusioni, per quanto avvenuto oggi alla Camera, dove, con l’appoggio del governo, passano con maggioranza analoghe due testi discordi, uno del Pd favorevole al riconoscimento dello Stato palestinese, l’altro di Ncd che non vi fa riconoscimento.
Così, ciascuno, a cominciare da israeliani e palestinesi, è libero di tirare la coperta –corta- dell’Italia dalla sua parte. A patto di non crederci troppo: una spruzzata di propaganda pro o contro e basta.
Ma se c’è un popolo che dovrebbe preoccuparsi di quanto avvenuto oggi alla Camera, è proprio l’italiano. Però, noi siamo troppo abituati agli artifici della politica, alle alchimie degli accordi, e alle dichiarazioni in contraddizione con i comportamenti,  perché ne sentiamo lo scandalo. Tanto più che la questione palestinese è da sempre frutto di imbarazzo per tutti, almeno in Occidente: Stati e cittadini. Da una parte, l’angoscia del presente; dall'altra, il peso della storia. Spesso intollerabili, l’una e l’altro.
La soluzione dei due Stati, Israele e la Palestina, che vivano entrambi  sicuri dentro i propri confini, in pace l’uno con l’altro, è una formula acquisita da molti anni dalla diplomazia internazionale. Ma, da quando è stata sancita, la sua attuazione non è mai stata vicina. Così come non lo sono mai state le ripetute risoluzioni delle Nazioni Unite sul ritorno degli esuli alle proprie case, sul ripristino dei confini, sugli insediamenti, su un esercizio del diritto di difesa non sproporzionato all'offesa subita o potenziale.
L’ambiguità è un tratto costante della diplomazia mediorientale: all’Onu, ad esempio, c’è chi vota per la Palestina, ma in fondo non è scontento quanto il veto degli Usa ‘salva’ Israele. E l’Ue si spacca sempre in tre tronconi sulla questione palestinese: chi sì, chi no, chi s’astiene.
Ma l’ambiguità di oggi alla Camera è un frutto dell’ignavia. Non c’era nulla in gioco: non la tenuta del governo –la maggioranza non sarebbe mai saltata su una mozione non vincolante della Camera sulla questione palestinese-, non le relazioni con Israele, che avrebbe al massimo un po’ strepitato.
Quale occasione migliore per esprimere in libertà e con chiarezza il proprio pensiero? Ad avercelo, libero e chiaro. 

giovedì 26 febbraio 2015

Usa: Democratici; Hillary, galeotte furono le donazioni straniere alla sua Fondazione

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 26/02/2015

2015/02/26 - C’è chi getta chiodi sulla strada della nomination democratica di Hillary Rodham Clinton, per farla ‘forare’. O forse una buccia di banana, per farla cadere. La fondazione di famiglia dell’ex first lady, la ‘Clinton Foundation’, accettò milioni di dollari da sette governi stranieri, mentre l’ex senatrice dello Stato di New York ricopriva l’incarico di segretario di Stato (2009-2012). Il Washington Post lo scrive, notando che le rivelazioni rischiano di mettere in difficoltà Hillary, che in almeno un caso avrebbe violato un patto etico con il presidente Obama: la sua Fondazione si era impegnata a non accettare soldi da governi stranieri mentre lei guidava il Dipartimento di Stato. Che alcuni governi stranieri fossero tra i donatori della Fondazione era già emerso nei giorni scorsi. La novità è che quel flusso non si sarebbe interrotto, come i Clinton avevano assicurato che sarebbe successo. Secondo il WP, la maggior parte delle donazioni avrebbe rispettato una clausola dell’accordo rimasta finora segreta, che consentiva ai governi che avevano già fatto donazioni alla Fondazione di continuare a farne, con contributi simili ai precedenti. In un caso, invece, la fondazione non informò l'Amministrazione, come richiesto dal patto: nel 2010 accettò 500.000 dollari dal governo algerino per fornire assistenza ai terremotati di Haiti. Allora, l'Algeria stava cercando di rafforzare i rapporti con gli Stati Uniti e di esercitare pressioni sul Dipartimento di Stato perché non sollevasse problemi sul rispetto dei diritti dell’uomo da parte sua. Nel libro ‘Hard Choices’, pubblicato lo scorso anno, Hillary Clinton scrive che "l'Algeria è un Paese complicato, che forza gli Stati Uniti a bilanciare interessi e valori": Algeri –per Hillary- è un alleato nella lotta contro il terrorismo, ma si segnala anche per lo scarso rispetto dei diritti umani e per un'economia relativamente chiusa. La Fondazione Clinton ha pubblicato per anni la lista dei donatori (consultabile anche sul sito), ma non ha finora fornito i dettagli delle donazioni durante gli anni della Clinton a capo del Dipartimento di Stato. Donazioni in linea con l’accordo tra Hillary e Obama venivano da Kuwait, Qatar e Oman e Australia, Norvegia e Repubblica dominicana. L’attenzione sulle donazioni si accende proprio mentre si attende un annuncio formale della candidatura di Hillary alla nomination democratica 2016: gli Stati Uniti proibiscono ai cittadini stranieri di donare fondi alle campagne elettorali. Hillary Clinton, una volta lasciato l'incarico governativo a inizio 2013, è entrata formalmente a fare parte della fondazione, rinominata Bill, Hillary & Chelsea Clinton Foundation. L'organizzazione, dalla sua creazione nel 2001, ha raccolto in tutto quasi due miliardi di dollari. (fonti varie – gp)

Internet: l’Italia che non passa (ancora) dalle parole ai fatti

Scritto per gli Appunti di Media Duemila online il 26/02/2015
Ci sono le parole. E ci sono i fatti. Noi, intesi come italiani, a parole siamo bravi, magari bravissimi: è uno stereotipo, ma c’è del vero. Con i fatti, dipende. Durante il semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, s’è parlato tanto di agenda digitale: c’è stata una conferenza a Venezia, presente il premier Renzi; ci sono stati impegni e proclami, a recuperare il tempo perduto, a farci diventare un ‘popolo di navigatori’ –della rete-.
Poi, ecco uscire l’Indice europeo dell’economia e della società digitale (Desi), presentato in settimana dalla Commissione europea, in occasione del forum Digital4EU. E si scopre che tra i 28 Stati Ue l’Italia è al 25o posto per livello di digitalizzazione, fa meglio solo di Grecia, Bulgaria e Romania.
Il dato non è nuovo e non è sorprendente: classifiche del genere, settoriali o di diverse organizzazioni internazionali, sono frequenti e ne diamo spesso conto. Ma chi si fosse mai illuso che tutte le parole del semestre di presidenza avessero un qualche corrispettivo a livello di risultati concreti deve ricredersi: l’Italia "è sotto la media Ue" per l'economia digitale, è il peggiore paese Ue per copertura di internet veloce e resta sul fondo della classifica generale.
Certo, ritardi del genere non si recuperano d’un botto, da un anno all'altro. E la struttura geografica dell’Italia, con tutte le nostre montagne, la penalizza per alcuni indici. Ma i dati sono impietosi: solo il 59% degli italiani usa internet regolarmente, contro una media Ue del 75%, e il 31% degli italiani (quasi uno su tre) non va mai online –va bene che siamo un popolo d’anziani, ma i sessantenni d’oggi erano quarantenni quando arrivò la rete-. Le piccole e medie aziende italiane attive nell'e-commerce sono appena il 5,1% del totale, a fronte di una media Ue del 15% -tre volte tanto-.
La riluttanza all'uso di internet può essere in parte spiegata con la carenza delle infrastrutture: in Italia, l’ultima della classe per banda larga, la Commissione calcola che l’internet veloce è disponibile solo per poco più di una famiglia su cinque, a fronte di una copertura disponibile per il 62% delle famiglie nell’Ue.
L’Indice fornisce una fotografia del livello di digitalizzazione nell’Ue, sulla base di dati del 2014, combinando 30 indicatori e utilizzando un sistema di ponderazione per valutare le prestazioni digitali di ciascun paese. Gli indicatori utilizzati sono stati suddivisi in cinque dimensioni: connettività (costi, velocità, banda larga), competenze digitali, attività online, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali.
Dall'indagine, emerge un grande divario tra gli Stati dell’Unione, con i paesi del Nord Europa in testa per livello di digitalizzazione - Danimarca, Svezia, Olanda, Finlandia e Belgio ai primi 5 posti -, mentre i paesi del Sud Europa sono agli ultimi posti: il crinale Nord – Sud si ripete, non è solo quello dei conti pubblici.
Sebbene l’Italia sia sul fondo della classifica, rispetto al 2013 il livello di digitalizzazione del Paese è migliorato in alcuni settori. In questa analisi, ci facciamo guidare da Viola De Sando di EurActiv.it. Per quanto riguarda la dimensione ‘connettività’, l’Italia (99%) supera la media europea (97%) per la copertura garantita alle famiglie con banda larga fissa, mentre l’accesso alle reti di nuova generazione (Nga) resta tra i più bassi in Europa, con solo il 21% delle famiglie raggiunte -media europea 62%-.
Sul fronte delle competenze digitali, il numero degli italiani che usano internet è aumentato del 3%, al 59% (a fronte di una media europea del 75%), mentre la quota dei cittadini con competenze digitali di base è salita dal 43% al 47% (livello Ue 59%).
Per le attività online, invece, il numero di italiani che consultano notizie sul web è diminuito, scendendo dal 68% al 60% (media Ue 67%), mentre sono sempre di più (52%) gli italiani che utilizzano internet per visualizzare video, giocare e ascoltare musica online, oltre la media europea (49%).
Nel 2014 sono aumentate anche le imprese italiane che ricorrono a soluzioni di e-business. Le aziende che mettono informazioni online sono salite dal 27% al 37%, superando la media europea del 31%, così come il numero di imprese che ricorrono a servizi di cloud computing, il 20% (media europea 11%). Resta ancora bassa la percentuale di Pmi attive nel commercio elettronico: 5,1%, media europea 15%.

Sul fronte dell’e-government, infine, in Italia è cresciuto il numero di utenti che ricorre a questi servizi (18%), non tanto però da raggiungere la media europea (33%).

mercoledì 25 febbraio 2015

Usa: Obama pone veto su oleodotto Keystone XL, è solo il terzo

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 25/02/2015

2015/02/25 - Barack Obama ha posto il veto presidenziale alla legge, approvata dal Congresso il 13 febbraio, che approva il progetto di oleodotto Keystone Xl per portare il petrolio estratto dalle sabbie bituminose da Hardisty nello Stato dell'Alberta in Canada a Steel City nel Nebraska. L’annuncio è stato fatto dalla Casa Bianca. Il progetto Keystone Xl è contestato dagli ambientalisti anche se la bocciatura comporta che il greggio canadese continuerà ad essere trasportato alle raffinerie americani su lunghi convogli ferroviari, con rischi d’incidenti notevoli. Quello apposto martedì è solo il terzo veto – finora – della presidenza Obama, ma, a giudizio di numerosi osservatori, in primis il New York Times, dovrebbe essere il primo di un’ondata di misure del genere, che dovrebbe caratterizzare l’ultimo biennio dell’Amministrazione democratica, a fronte di un Congresso controllato dall'opposizione repubblicana. Mai nessun presidente - dai tempi di James Garfield durato in carica solo 200 giorni nel 1881 - aveva posto il veto appena tre volte. Alla fine del suo mandato George W. Bush ne contava 12, Bill Clinton 37 e Bush padre 47 –per un solo mandato-. Ma ora Obama usa la minaccia del ricorso al veto su una lunga serie di provvedimenti, dall'inasprimento delle sanzioni contro l’Iran allo svilimento della riforma sanitaria all'immigrazione. Il presidente potrà anche ricorrere più spesso agli ordini esecutivi, che fino ha usato molto poco: ne ha una media di 33 l’anno, il livello più basso dalla fine del primo mandato di Grover Cleveland nel 1889. (dispacci d’agenzia – gp)

martedì 24 febbraio 2015

Usa: omosessuali:,Obama fa avanzare ‘nuova frontiera’ con ambasciatore speciale

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 24/02/2015

2015/02/24 - Il segretario di Stato John Kerry ha annunciato la nomina d’un ambasciatore ‘at large’ per tutelare e promuovere i diritti degli omosessuali nel mondo. “La decisione –ha spiegato Kerry- rientra nella sfera d'impegno degli Stati Uniti per la diffusione dei diritti umani su scala planetaria". Barack Obama continua, dunque, a portare avanti la sua ‘nuova frontiera’ dei diritti civili, come detto nel discorso d’insediamento del secondo mandato, e muove le pedine su scacchiere scomode per l’opposizione repubblicana, che controlla il Congresso, ma pare in difficoltà nella prospettiva delle presidenziali 2016: Obama dà battaglia sugli omosessuali, l’immigrazione, la sanità, dove larga parte dell’opinione pubblica gli è favorevole. L’ambasciatore per i diritti degli omosessuali, Randy Berry, è un diplomatico di carriera apertamente gay: è stato console a Amsterdam e ha servito il Dipartimento di Stato in Nuova Zelanda, Nepal, Bangladesh, Egitto, Sudafrica, Uganda. "La difesa e la promozione dei diritti dei gay sono al centro del nostro impegno per i diritti umani, sono il cuore e la coscienza della nostra diplomazia", ha proseguito Kerry: "Ecco perché lavoriamo per far abolire leggi che criminalizzano i rapporti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso in tutti i Paesi del Mondo". L’Amministrazione democratica è anche favorevole al riconoscimento dei matrimoni omosessuali negli Stati dell’Unione –attualmente in 37 su 50, oltre che nel Distretto di Columbia, dove sorge Washington-, ma non si pronuncia su questo punto negli altri Paesi. A giugno, la Corte Suprema degli Stati Uniti deve stabilire se il matrimonio sia un diritto costituzionale per tutte le coppie, indipendentemente dal loro orientamento sessuale. A livello diplomatico, la difesa dei diritti degli omosessuali nel Mondo era già una questione prioritaria quando segretario di Stato era Hillary Clinton, nel primo mandato del presidente Obama, con sistematiche denunce di abusi e di repressioni, specie nei Paesi dell’Africa. (gp)

lunedì 23 febbraio 2015

Usa: Obama si prepara ad aprire la stagione dei veti

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 23/02/2015

2015/02/23 - A Washington, si dà per certa l’apertura, in settimana, di una stagione di veti: Barack Obama firmerà quello per bloccare il maxi oleodotto Keystone XL, che i repubblicani hanno approvato in Congresso. E sarà l'inizio –scrive Ugo Caltagirone, sull’ANSA, citando media statunitensi -di una lunga serie di 'no' che potrebbe caratterizzare l’ultimo biennio del mandato presidenziale del primo nero alla Casa Bianca, ora che l’opposizione repubblicana controlla sia la Camera che il Senato, dopo le elezioni di mid-term del novembre scorso. Il New York Times sostiene che gli americani dovranno abituarsi a vedere un presidente deciso "a brandire la sua penna a sfera - una Cross Townsend - come un'arma, una spada": per far avanzare la sua agenda a colpi di decreto, ma anche per salvaguardare i risultati raggiunti dal 2008. Primo fra tutti la riforma sanitaria firmata nel 2010, l'Obamacare profondamente osteggiata, addirittura odiata, dai conservatori. Tramontata l'idea di abrogarla, molte sono le proposte per cambiarla e, in definitiva, per annacquarla, svuotandola di alcuni dei contenuti più qualificanti. Sulla carta, è terreno di veto anche quello. E altri potrebbero seguire, se il Congresso approverà nuove sanzioni contro l'Iran o farà retromarcia sugli standard per una migliore alimentazione nelle scuole, fortemente voluti dalla first lady Michelle Obama. Terreno di scontro potrebbe pure diventare la politica estera, dove di solito è più facile constatare un consenso bipartisan: punti di frizione le armi all'Ucraina e le modalità di lotta al terrorismo, tra Iraq e Siria e in Libia. Ai repubblicani, non mancheranno i motivi per denunciare "l'arroganza" di Obama, già da tempo descritto come un "monarca assoluto". Il presidente non intende starsene a fare per due anni l' ‘anatra zoppa’ e, imboccata la via dei veti, potrebbe superare i 12 veti del suo predecessore, George W. Bush. Certo, il record assoluto resta inattaccabile: 635 veti posti da Franklin Delano Roosevelt tra il ’32 e il ‘44. E sarà pure difficile eguagliare i 37 veti di Bill Clinton, o i 44 di George Bush padre. Perché l'arma del veto è sempre stata bipartisan. (gp)

domenica 22 febbraio 2015

Usa 2016: i democratici a corto di candidati, i repubblicani ne hanno troppi

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 22/02/2015


2015/02/22 - La corsa alla nomination democratica e repubblicana per le presidenziali 2016 pare essersi rallentata a febbraio, dopo un’accelerazione a gennaio, a un anno esatto dall’inizio, nello Iowa, della stagione delle primarie. Fra i democratici, la candidatura, non ufficiale, ma estremamente probabile, di Hillary Rodham Clinton, ex first lady, ex senatore dello Stato di New York, ex segretario di Stato e, soprattutto, in questo contesto, ex candidata alla nomination nel 2008, sconfitta da Barack Obama, pare al momento senza ostacoli, perché il vice-presidente Joe Biden non sembra poterle resistere e perché la senatrice del Massachussets Elizabeth Warren fa sapere di non avere intenzione di scendere in lizza, evitando quella corsa ‘donna contro donna’ che avrebbe mediaticamente accresciuto l’interesse del confronto.  Fra i repubblicani, s’è fatto da parte Mitt Romney, organizzatore dei Giochi d’Inverno a Salt Lake City nel 2002, ex governatore del Massachusetts, candidato alla presidenza nel 2012. E, per il momento, Jeb Bush, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti, corre da battistrada, anche se, pure lui, deve ancora ufficializzare la sua candidatura. Ma quella di Bush non sarà di sicuro una corsa solitaria: Marco Rubio e Ted Cruz, Chris Christie e Ron Paul hanno già fatto mosse che indicano la volontà di scendere in campo; e Mike Huckabee, Paul Ryan e vari altri reduci delle sconfitte 2008 e 2012 non hanno ancora rinunciato. Le tensioni internazionali, dall’Ucraina alla Libia alla guerra al terrorismo, e le polemiche interne, su sanità, immigrazione, gasdotti, assorbono l’attenzione di media, politici e opinione pubblica. Ma la febbre delle primarie cova sotto la cenere. (gp)

Informazione: giornalismo e giornalisti, forze e debolezze nel 2.0

Intervista rilasciata a Luca Andrea Palmieri per Europinione.it
http://www.europinione.it/lo-stato-del-giornalismo-italiano-intervista-giampiero-gramaglia/

D - Sulla base della sua esperienza, che l’ha vista anche alla direzione dell’Ansa, quali sono i principali punti di debolezza del giornalismo italiano oggi, non solo da un punto di vista editoriale, ma anche del trattamento delle notizie da parte dei giornalisti?

R - L'informazione italiana, rispetto a quella anglosassone in generale e di altri Paesi confrontabili all'Italia per tradizione e cultura, ha elementi di debolezza indubbi, editoriali e industriali. Io, però, preferisco soffermarmi su quelli che sono gli elementi di debolezza più giornalistici: l'informazione italiana è sovente approssimativa, non di rado inattendibile, spesso dilatata, quasi sempre più preoccupata di ottenere l'approvazione della fonte più che la soddisfazione del lettore -o equivalente-, tendenzialmente incapace di tenere separati fatti e opinioni e, infine, decisamente autoreferenziale e poco incline a riconoscere -e ancor meno a correggere- i propri errori... Il declino del seguito e dell'autorevolezza dei maggiori media tradizionali va letto anche in questa ottica, al di là dell'impatto, indubbio e importante, dei new media e dell'evoluzione delle abitudini di informarsi dei fruitori.

D - Negli ultimi anni si è parlato di giornalismo partecipativo, di fine dei giornali (con qualcuno che ha persino previsto l’anno della scomparsa dei quotidiani cartacei), e di morte del giornalismo professionale. Al contrario molti dicono che il giornalismo è più vivo che mai, ed è un periodo di grandi opportunità per i professionisti. Qual è la sua visione al riguardo?

R - Senza volere per forza parafrasare Mark Twain, la notizia della morte dei media tradizionali è stata fortemente esagerata, e non solo anticipata, negli ultimi anni. Anche se l'ostinazione a continuare a fare giornali illeggibili e ingestibili per dimensione, foliazione, gerarchizzazione delle informazioni potrà far sì che la notizia risulti vera per molte testate, anche delle maggiori.

Invece, la notizia della morte del giornalismo, e quindi dei giornalisti, è una bufala e basta. Più l'informazione disponibile si dilata, sul web o altrove, più c'è la necessità che qualcuno ne verifichi l'attendibilità e ne selezioni la rilevanza: questo è il compito del giornalista oggi, compito che si somma e si integra a quello più tradizionale della ricerca della notizia. Se il singolo cittadino dovesse da solo acquisire l'informazione per lui rilevante, perderebbe molto più tempo e non sarebbe mai sufficientemente sicuro d'esserci riuscito...

Quanto, poi, ai citizens journalists, sono un mito: ciascuno di noi è testimone nella vita di fatti rilevanti, ma del tutto saltuariamente... Affidare l'informazione ai testimoni diretti la renderebbe episodica, incompleta, parcellizzata... I citizens journalists possono al più essere utilissimi complementi, o anche contrappesi, a un'informazione strutturata e organizzata.

D - Come ci si deve porre, dal punto di vista professionale, verso la piaga della manodopera giornalistica non pagata, che invade soprattutto le testate locali e progetti più piccoli? Ha ancora senso oggi avere un ordine professionale dei giornalisti?

R - Sono due punti non necessariamente collegati. Comincio dal secondo: l'Ordine ha senso se funziona bene e se adempie funzioni non svolte da altri, come la verifica della professionalità dei giornalisti, della correttezza, del rispetto dei codici etici.. Che oggi l'Ordine funzioni bene e che adempia in modo efficace quelle funzioni non mi sento di affermarlo... Che se ne possa fare a meno, a fronte dell'imbarbarimento del mondo di lavoro e delle lentezze della giustizia -solo per citare due esempi-, non mi sento neppure di affermarlo...

Per quanto riguarda il mancato pagamento, o il pagamento inadeguato, del lavoro giornalistico, il problema, purtroppo, non è giornalistico, ma universale: negli ultimi anni, è cresciuta l'accettazione sociale del fatto che il lavoro non venga pagato per nulla, o venga pagato troppo poco, ai giovani, agli stagisti, ai precari... E' totalmente ingiusto, quale che sia il lavoro... Nel settore dell'informazione, il fenomeno è aggravato dalla percezione, di cui però i giovani sono i maggiori portatori, che l'informazione sia gratuita: non ha un costo e, quindi, non va pagata... Anche questo è totalmente ingiusto: produrre buona informazione costa, e pure molto, e se uno vuole buona informazione deve pagarla... Se no, non si lamenti se gli viene servita, gratis, informazione spazzatura e di parte...

D - A proposito di tecnologie e social media: i social media stanno cambiando modo di fare giornalismo? Quanta importanza oggi ha Twitter su agenzie e news in generale?

R - I social media stanno cambiando il modo di comunicare. Ma il social media che più influenza e trasforma il modo di fare informazione è certamente twitter: la fonte fa la notizia, produce la sua dichiarazione, già sintetizzata, senza mediazioni giornalistiche... Le agenzie sono state, ovviamente, le prime a subirne l'impatto: il tweet ha già la struttura e l'efficacia di un flash o di un bulletin... Ma i tweet sono migliaia, milioni... E le vere notizie molte meno: scatta il meccanismo della selezione di ciò che è rilevante in una montagna di ciarpame...

D - Cosa pensa del boom dell'informazione via web e dell'aumento esponenziale di fonti d'informazione, spesso anche approssimative o addirittura fuorvianti, per non dire peggio. Crede che l'Unione europea, e soprattutto l'euro siano stati le prime vittima illustri di questa nuova informazione/disinformazione? Pensa che se la situazione dell'Europa odierna si fosse vissuta 30 anni fa, le cose sarebbero state diverse, dal punto di vista dei cittadini?

R - Il web facilita la circolazione dell'informazione, non della cattiva informazione: di per sé, è un elemento potenzialmente (e pure di fatto) positivo... Come, prima nel tempo, lo erano stati la tv, la radio, la stampa... L'informazione prolifica più facilmente e soprattutto più velocemente sul web che sia cattiva o che sia buona... Il problema non è il mezzo, lo strumento; il problema è la qualità dell'informazione... Così come, per l'Europa, anzi per l'Unione, il problema non è il fatto che se ne raccontino le magagne, ma che vi siano le magagne... Certo, l'approssimazione giornalistica e la velocità informatica combinate insieme fanno di un fuscello una foresta... Ma il racconto dell'Unione, anzi la narrazione come adesso si dice, è funzione soprattutto di quel che l'Unione fa e fa sapere che fa... E, poi, l'integrazione è popolare quando le cose vanno bene e diventa impopolare quando vanno male... In fondo, è anche giusto: l'integrazione la vogliamo perché le cose vadano meglio, non peggio.

sabato 21 febbraio 2015

Usa: Casa Bianca, volti nuovi a Secret Service e Comunicazioni

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu il 21/02/2014

2015/02/21 - Volti nuovi intorno al presidente Obama nell'ultimo biennio della sua presidenza. Questa settimana, Obama ha nominato Joseph Clancy capo del Secret Service, l’ente da cui dipende la sicurezza sua e della sua famiglia e della Casa Bianca, oltre che dei leader stranieri in visita negli Stati Uniti. Clancy, che era il responsabile della sicurezza personale di Barack Obama, sostituirà Julia Pierson, dopo le ripetute irruzioni di estranei alla Casa Bianca e vari scandali che hanno offuscato immagine e reputazione del Secret Service. Il presidente ha inoltre scelto la portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki direttore delle Comunicazioni della Casa Bianca. La Psaki, 36 anni, era dal 2013 portavoce del segretario di Stato Kerry e aveva lavorato con il candidato Obama nella campagna 2008. "Ho piena fiducia in Jen" afferma Obama. La Psaki si dice "onorata". Dal 1° aprile la Psaki sostituirà Jenifer Palmieri, elogiata dallo stesso Obama per il lavoro svolto e destinata a guidare ora la comunicazione dalla campagna elettorale di Hillary Clinton. (dispacci d’agenzia – gp)

Libia: è la legge del taglione, kamikaze contro raid

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/02/2015

La legge del taglione impera in Libia: dopo la cruenta offensiva egiziana di terra e aria su Derna, mercoledì, i tagliagole del sedicente Stato islamico provocano una cinquantina morti ad al Qubah, con un triplice attentato; e la strage non resta senza risposta, perché in serata aerei libici – si ignora di quale fazione – bombardano Sirte, dove è in vigore il coprifuoco, mentre unità egiziane le pongono un blocco navale.

I terroristi integralisti sono all'offensiva in Libia e in Somalia, mentre subiscono rovesci in Nigeria, dove le forze regolari da giorni stanno infliggendo pesanti perdite ai guerriglieri di Boko Haram. Attacchi aerei su diverse postazioni avrebbero causato numerose vittime tra i miliziani jihadisti.

Ieri, un attacco kamikaze degli al-Shabab, ribelli islamici in qualche modo affiliati al califfato, ha scosso Mogadiscio: un veicolo imbottito d’esplosivo è saltato in aria davanti al Central Hotel, vicino al palazzo presidenziale, e un uomo ha attraversato i cancelli e si è fatto esplodere. Almeno una ventina le vittime, secondo la Bbc, e decine i feriti. Tra i morti, il vice-sindaco della capitale, Mohamed Aden, e un deputato. Le esplosioni sono state seguite da una sparatorie.

La Libia e la Somalia, due ex colonie italiane, due Stati ‘collassati’ – abbiamo un record mondiale di ex colonie andate a male, a oltre mezzo secolo dall'indipendenza -, sono l’’epicentro di giornata del terrorismo integralista.

Ad al Qubah, che sta nell'Est del Paese, tra Derna, roccaforte del Califfato, e Beida, dove il governo di al-Thani, espressione del Parlamento di Tobruk, ha la sua sede, due kamikaze si fanno esplodere a bordo delle loro auto – davanti all'abitazione del presidente del Parlamento e vicino a una sede delle forze di sicurezza -, mentre una terza autobomba viene azionata a distanza: le vittime sono soprattutto civili in fila in auto per fare rifornimento a una stazione di servizio.

Attribuendosi la strage, lo Stato islamico proclama di volere “vendicare le famiglie dei musulmani di Derna e rivalersi sul governo di Tobruk che cospira per ucciderli": il riferimento è alle oltre 60 persone uccise nei raid aerei eseguiti da Egitto e forze libiche dopo l'esecuzione di 21 cristiani copti egiziani.

Gli attentati, condotti - pare - da un saudita e da un libico, miravano a colpire le unità del generale Khalifa Haftar, che guida le operazioni contro gli jihadisti. Il successivo bombardamento non avrebbe invece fatto vittime, secondo fonti del Califfato intercettate dal Site.

Sul fronte diplomatico, l’Occidente si dice convinto che la via del negoziato è l’unica percorribile. Ma gli islamisti che controllano Tripoli e l’Ovest del Paese escludono nuovi negoziati mediati dall'Onu. Il loro premier Omar al Hasi ritiene l’argomento chiuso, dopo i raid egiziani sulla Libia, sia pure diretti contro gli jihadisti. Al Hasi accusa i gruppi di ex gheddafiani per la presenza degli integralisti a Sirte, la città del Colonnello. Un membro del Parlamento di Tobruk, che intanto rifiuta un governo di unità nazionale, afferma che europei e occidentali avrebbero chiesto l'allontanamento del generale Haftar, la cui controversa figura ostacolerebbe il dialogo.

Infine, da Washington giunge notizia che sono 1.700 i foreign figters russi che combattono in Iraq con l’Is, il doppio rispetto allo scorso anno. E il numero globale di jihadisti stranieri sarebbe salito da 13 a 20 mila. A dirlo è il direttore dei servizi di sicurezza russi Aleksandr Bortnikov, a margine del vertice per la sicurezza: Bortnikov è colpito da sanzioni dell’Ue e del Canada, non degli Usa.

venerdì 20 febbraio 2015

Ue/Grecia: intesa sul filo nell’ennesimo ‘D-Day’

Scritto su EurActiv.it e per Metro del 19/02/2015

L’Unione europea arriva all’ennesimo ‘D-Day’ della sua storia tutta intrisa di maratone negoziali e accordi in extremis in un clima d’incertezza: l’intesa tra la Grecia e gli altri 18 Paesi della zona euro può farsi, o può saltare. Ma, se salta, non crediate alle cassandre dello sfascio: la trattativa andrà comunque avanti, dopo qualche sceneggiata, perché, almeno fino al 28 febbraio, non c’è nessuna scadenza invalicabile.

Il fatto che il presidente Jeroen Dijsselbloem, un olandese, abbia convocato l’Eurogruppo per oggi alle 15.00 è di per sé buon segno: vuol dire che intravvede un accordo. La lettera con cui Atene chiede una proroga di sei mesi degli aiuti europei è giunta a Bruxelles: i ministri devono valutarla, l’Ue apre uno spiraglio, la Germania tiene la porta chiusa.
C’è un pizzico d’Italia nello sblocco dello stallo tra Ue e Grecia, che all’inizio della settimana pareva totale dopo il nulla di fatto all’Eurogruppo di lunedì: martedì sera, c’è stata una telefonata del premier Renzi al greco Tsipras, presente il ministro dell’Economia Padoan. Si ignora se vi sia un nesso di causa effetto, ma da quel momento dalle parole (grosse) dei giorni precedenti s’è passati ai passi concreti.
Mercoledì sera, una telefonata ‘pesante’ è arrivata dagli Stati Uniti al ministro delle finanze greco Varoufakis: il segretario al Bilancio Usa Jack Lew gli spiegava, se non fosse già chiaro, che, senza un’intesa con l’Ue e l’Fmi, "ci sarebbero immediate dure conseguenze per la Grecia".
E Atene, dopo avere fatto la voce grossa, avere detto “no ai ricatti” e avere respinto come “assurde e inaccettabili” le posizioni dei partner, s’è smossa, ribadendo, però, di non volere fare marcia indietro su "linee rosse" che considera non negoziabili. Una soluzione cosmetica bisognerà trovarla, così che Tsipras possa dire ai greci di avere spuntato qualcosa meglio del governo precedente.
Le istituzioni comunitarie e la Banca centrale europea paiono comprendere l’esigenza. Berlino ancora no: insiste per una resa senza condizioni. A rischio di mandare l’intesa a incagliarsi quando l’imboccatura del porto è in vista.

Che poi Atene un risultato lo ha già acquisito: non negozia più con la troika, bensì con le istituzioni finanziari internazionali competenti, cioè la Commissione, la Bce, l’Fmi. Le tre della troika. Ma è tutto diverso.

Libia: le ambiguità del Qatar incrinano fronte arabo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/02/2015

Uno screzio tra il Qatar e l’Egitto viene a rompere l’unità di facciata del mondo arabo istituzionale e ‘moderato’ schierato a fianco dell’Occidente contro il terrorismo integralista delle milizie jihadiste. Intanto, a Washington, si consuma il rito del vertice per la sicurezza voluto dal presidente Obama: lì, le preoccupazioni per la Libia restano in secondo piano, come lo sono nell’agenda americana.

Obama sceglie il dialogo, non la minaccia: “Siamo uniti contro la piaga del terrore. Ma è falso dire che l’Occidente sia in guerra contro l’Islam”. Quasi con uno sberleffo, gli informatici del Califfo creano l’hashtag "Stiamo arrivando a Roma", intercettato dal Site che traccia i terroristi sul web.

Il delegato egiziano alla Lega araba Tariq Adel definisce il Qatar un sostenitore del terrorismo. E Doha richiama in patria per consultazioni l’ambasciatore al Cairo. L’accusa non è nuova: il Qatar avrebbe sostenuto e continuerebbe ad appoggiare, anche attraverso l’azione mediatica di al Jazira, l’estremismo integralista. Souad Sbai, giornalista e scrittrice esperta di mondo arabo, sostiene: “Dalle Primavere arabe a oggi, la mano di Doha dietro alle rivoluzioni e all’ascesa jihadista è sempre stata fortissima, non solo oggi in Libia, ma già prima in Siria, Tunisia ed Egitto".


Il Qatar –è la tesi- "controlla moschee, ufficiali e fai da te, centri culturali, organizzazioni e persino ospedali con un flusso di fondi incontrollato. Per bloccare il proliferare del radicalismo e prevenire lo jihadismo, occorre affamare la bestia bloccando chi le dà nutrimento. La guerra al terrorismo dev’essere prima di tutto di natura economica e finanziaria, perché la jihad senza denaro non si può fare".

Parole che rimbalzano a Washington, alla conferenza contro l’estremismo e il fanatismo religioso, dove la coalizione anti-terrorista appare forte d’una sessantina di Paesi. Quella contro gli jihadisti dello Stato islamico è "la terza guerra mondiale", afferma il ministro degli Esteri giordano Judeh: "Questi terroristi hanno dimostrato di non avere limiti per quanto riguarda brutalità, barbarie e ferocia. Per quanto tempo ancora il mondo permetterà loro di crescere ed espandersi?".

Per l’Alto Rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, sarebbe “questione di giorni e non di settimane”. La Mogherini si riferisce a una soluzione alla crisi libica: “E’ chiaro che dobbiamo affrontare il terrorismo dall’angolo della sicurezza interna, ma dobbiamo innanzitutto risolvere il caso della Libia”, che “sta per esplodere”.

A margine del vertice di Washington, l’Unione europea, fuori da tutti i giochi negli ultimi giorni, innesca un incontro sulla Libia con il segretario di Stato Usa Kerry, il ministro degli Esteri egiziano Shukry e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. La Mogherini vi illustra il suo progetto, che suona ottimista: “un più pieno sostegno di tutti gli attori internazionali e regionali a che il dialogo interno libico porti a un governo di unità nazionale". ".

Sul terreno, non pare ci siano i presupposti. Le Brigate di Misurata, islamiste e che si battono contro il governo legittimo del premier al-Thani, ma pure contro gli integralisti del Califfato, annunciano che Sirte "è circondata" e invitano gli abitanti della città ad "allontanarsi dai luoghi dove si concentrano" i miliziani, che sono "obiettivi di bombardamenti".

Sarebbe imminente un assalto della "Brigata 166", forte di 2.800 uomini, per liberare la località dagli jihadisti. Il che significa che, nonostante l’offensiva degli islamici, gli integralisti hanno preso il "completo controllo” della città, occupando l’Università e gli edifici pubblici che erano ancora fuori dal loro controllo.

E l'Egitto sta pianificando nuovi raid aerei contro le posizioni dello Stato islamico a Derna e a Sirte. Incntrando, mercoledì, i comandanti militari al valico di frontiera di Salloum, il presidente al Sisi, un generale, ha pianificato le ulteriori azioni. Anche nelle prossime incursioni, i caccia egiziani saranno accompagnati da quelli libici fedeli al governo rifugiato a Tobruk. La notizia del rapimento di una dozzina di egiziani a Tripoli viene diffusa dal Cairo, ma poi smentita.

Ma, Egitto a parte, il disegno di un intervento militare internazionale in Libia non suscita consensi. Il presidente tunisino Essebsi vuole favorire la stabilità della Libia e cercare una soluzione politica alla crisi, ma è contrario a un intervento armato straniero. "La Tunisia sosterrà gli sforzi per trovare una soluzione politica alla crisi libica attraverso il dialogo e il consenso fra tutte le parti".

giovedì 19 febbraio 2015

Libia: Onu, intervento armato no, armi ai libici forse

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/02/2015 

Niente Caschi Blu, almeno per ora, sul territorio libico: era già scontato, ma ora è pure ufficiale: nessuno li chiede, nessuno li vuole. Non è definitivo, perché i riti del Palazzo di Vetro sono ciclici, non hanno quasi mai la parola fine. Il consulto d’urgenza sulla Libia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è un dibattito fiume pubblico, seguito da consultazioni riservate: l’inviato in Libia Leon vi interviene in video-conferenza. In parallelo, a Washington. Si svolge un incontro internazionale contro l’estremismo islamico, cui partecipano una sessantina di Paesi.
Anche se i tempi di elaborazione delle Nazioni Unite sono lunghi, lenti e richiedono mediazioni e ‘digestioni’, è chiaro che l’intervento armato della comunità internazionale con tutti i crismi della legalità non ci sarà. L’Egitto che l’aveva inizialmente sollecitato, nelle ultime 48 ore ha fatto per conto suo, con raid aerei e incursioni terrestri contro obiettivi e postazioni delle milizie jihadiste. Tutto con l’avallo del premier libico legittimo al-Thani, la cui sintonia con il rais al-Sisi pare consolidarsi.
Almeno, così si evita di aggiungere un grano al rosario di missioni dell’Onu in cui i Caschi Blu sono stati testimoni di massacri senza saperli, o poterli, evitare: perché le Nazioni Unite possono fare con efficacia del ‘peace keeping’, ma non riescono a fare del ‘peace enforcing’, cioè a portare la pace dove c’è la guerra.
Lo dicono cinquant’anni e passa di frustrazioni e morti, spesso inutili, come i caduti di Kindu, italiani, in Congo, nel 1961. Tra Medio Oriente e Africa, i Caschi Blu sono stati l’anello debole dell’impotenza internazionale nelle maglie di conflitti intestini feroci e atavici. L’episodio più emblematico vicino all’Italia, dall’altra parte dell’Adriatico, a Srebrenica, dove soldati dell’Onu olandesi, armati, ma senza consegna a intervenire, assistettero passivi e imbelli a uno dei momenti più cruenti della guerra bosniaca, il massacro di migliaia di musulmani da parte dei serbo-bosniaci.
Al Consiglio di Sicurezza, i Paesi arabi si sono presentati proponendo una risoluzione per mettere fine all’embargo sulla vendita di armi al governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale, come se il problema in Libia fossero che mancano le armi e non che ce ne sono troppe. Il ministro degli Esteri egiziano Shukry lo ha annunciato prima dell’inizio della riunione, dopo aver incontrato rappresentanti all’Onu di altri Paesi islamici.
Dopo l’esecuzione, da parte degli jihadisti, di 21 egiziani copti, il regime del Cairo è in prima linea nella lotta contro le milizie del Califfato in Libia e dà manforte al premier al-Thani, mentre non si concretizza, per ora, l’ipotesi di un’alleanza tra gli integralisti e gli islamisti che hanno roccaforti a Tripoli e a Misurata.
La Giordania, attualmente membro del Consiglio di Sicurezza, altro Paese arabo molto esposto contro lo Stato islamico, ma sul fronte siriano-iracheno, è stato latore del testo che chiede che “l’embargo sulle armi sia rimosso per il governo legittimo, così da permettergli di combattere contro il terrorismo”. Il documento chiede, inoltre, “maggiori controlli via mare e via aria per prevenire la consegna di armi ai gruppi militanti” che si battono contro il governo riconosciuto.

L’Occidente s’era già dichiarato, praticamente unanime, per una “soluzione politica”, pure auspicata da papa Francesco: “La guerra è la tesi- aiuta il Califfato, che solo quella sa fare”. Certo, c’è l’impegno a “un cambio di passo della comunità internazionale”, ma sono parole. Quelle dell’Ue, il cui ruolo era già stato mortificato dalla vicenda ucraina, neppure si sentono.

L’Italia, dice in Parlamento il ministro Gentiloni, sa che "il tempo a disposizione non è infinito e rischia di scadere presto pregiudicando i fragili risultati raggiunti"; ed "è pronta ad assumersi responsabilità di primo piano", "a contribuire al monitoraggio del cessate il fuoco, al mantenimento della pace, all'addestramento militare", ma non vuole "né avventure né tantomeno crociate".

L’embargo sulla vendita di armi alla Libia risale al 2011, quando, nella scia delle Primavere arabe, un’insurrezione, appoggiata dai raid aerei di una coalizione internazionale che forzò il mandato dell’Onu rovescio il regime di Gheddafi; il Consiglio di Sicurezza lo impose, allora, per impedire che la Libia diventasse una polveriera. Ma già lo era e gli arsenali del Colonnello alimentano l’attuale conflitto.

Il dibattito all’Onu s’è svolto sullo sfondo delle notizie che giungono dal fronte, anzi dai fronti che attraversano la Libia: l’incursione delle forze speciali egiziane contro Derna, in Cirenaica, roccaforte dell’Is, con oltre 150 caduti e 55 jihadisti presi prigionieri; l’assedio posto dagli islamisti di Misurata alle truppe dell’Is a Sirte;  e i movimenti di integralisti, del Califfo e di Boko Haram, segnalati verso la Tunisia, non si sa con quale attendibilità, dal premier al-Thani.

mercoledì 18 febbraio 2015

Libia: l'Onu a consulto, si invoca una soluzione politica

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/02/2015

Su iniziativa dell’Egitto, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu discute di Libia in seduta pubblica, oggi, al Palazzo di Vetro di New York. Il ministro degli Esteri egiziano Shukry farà il punto sulla situazione nel Paese, dove, ieri, raid aerei di segno diverso si sono susseguiti. E, a nome del presidente al-Sisi, chiederà un intervento internazionale.

E’ improbabile che il Consiglio di Sicurezza giunga a decisioni, è escluso che ordini un intervento. L’inviato dell’Onu in Libia Bernardino Leon, che ha avuto un colloquio con Federica Mogherini, l’Alto Rappresentante della politica estera e di difesa europea, chiede “giorni” per un negoziato che non è mai iniziato. Lui e la Mogherini sono d’accordo per “intensificare gli sforzi” e, quindi, non fare nulla subito.

Fino a ieri sera, del resto, la Libia non aveva trasmesso all’Onu una richiesta di aiuto internazionale contro le milizie jihadiste dello Stato islamico, che controllano pozioni di territorio –l’ambasciatore Buccino, rientrato da Tripoli, precisa che né la Sirte né la capitale sono in mano agli integralisti-. La richiesta di aiuto è la precondizione per un’azione del Consiglio di Sicurezza.

Il ministro degli Esteri del governo che sta a Tobruk, quello legittimo per le istanze internazionali, al Dairi, parteciperà alla riunione dei Quindici. L’egiziano Shukry è già a New York, per preparare l’incontro con una serie di bilaterali. Il regime del Cairo è convinto che, nell’attuale contesto libico, l’Onu debba assumersi le sue responsabilità: "Si può creare una coalizione internazionale, una forza d’intervento. Ci sono bombardamenti contro l’Isis in Siria e in Iraq, li si può fare in Libia, un Paese in totale fallimento … L’Isis in Libia è una minaccia imminente …".

L’ambasciatore egiziano a Roma Amr Helmy in un’intervista dice : "Non penso che manderemo mai truppe di terra e di occupazione: potrebbero esserci operazioni aeree limitate contro obiettivi ben definiti. Ma i bombardamenti non bastano: potrebbero volerci una forza di peacekeeping, rifugi per le minoranze, un corridoio umanitario per i civili in fuga … una combinazione di missioni. E bisogna porre fine al sostegno militare ma anche finanziario” ai gruppi integralisti e terroristi.

Il Califfato lascia il segno dell’orrore dovunque e ogni giorno: è di ieri la notizia di 45 persone arse vive in Iraq. Mentre, in Libia, sette ondate di attacchi aerei egiziani avrebbero fatto decine di morti fra i miliziani jihadisti, accusati d’usare scudi umani a protezione delle loro postazioni. A Derna, è stato colpito il tribunale della Sharia, innescando la minaccia di una “dura ritorsione”. In 48 ore, sarebbero una sessantina i miliziani uccisi, una dozzina gli stranieri. In un’azione di segno diverso, aerei delle milizie di Tripoli, islamiste, hanno bombardato posizioni governative a Zintan.

Il fronte pro intervento in Libia è, per ora, limitato. L’Italia sollecita “un’azione diplomatica”. Il Vaticano s’attende “sagge decisioni della comunità internazionale”, mons. Parolin segnala l’urgenza di “un intervento sotto l’egida dell’Onu”. Londra vede “solo una soluzione politica” e molti Paesi occidentali, fra cui gli Usa, Francia, Germania, Spagna, in serata, si allineano su questa posizione. Algeri vuole “favorire il dialogo, ma nel rispetto della sovranità”.

Hamas fa sapere d’essere contrario "in modo categorico" a interventi della comunità internazionale in Libia, specie da parte di "Paesi come l’Italia che adducono pretesti, come la lotta al terrorismo”: "Respingiamo l’intervento e lo consideriamo una nuova crociata contro i paesi arabi e musulmani”.

L’esercito regolare libico, invece, sollecita forniture di “armi” per combattere gli jihadisti, ma non vuole saperne di truppe straniere sul proprio territorio. A ipotizzare o teorizzare interventi militari, restano gli Stranamore di casa nostra: chi progetta un’operazione di cinque anni e 80 mila uomini, chi avverte che se si va là ci s’impantana, chi invoca il ricorso alle forze libiche (ma quali?). Spicca fra tante la voce del vescovo di Tripoli, mons. Martinelli, deciso a restare, “mi taglino pure la testa”.