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sabato 31 ottobre 2015

Usa 2016: repubblicani in rivolta contro stampa

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 31/10/2015 

Repubblicani contro la Cnbc. Anzi, repubblicani contro i giornalisti, che – fatto salvo qualche ultra conservatore – prendono compatti le difese dei colleghi della rete televisiva che, mercoledì, gestiva il terzo dibattito in diretta fra gli aspiranti alla nomination repubblicana. Ha cominciato, già durante il dibattito, Donald Trump e hanno proseguito Ben Carson, Ted Cruz, Marco Rubio. A show finito, ha rilanciato Jeb Bush. E, alla fine, l’intero apparato repubblicano ha messo all’indice la Cnbc: “Dovrebbero vergognarsi per come hanno condotto il dibattito", ha commentato il capo del partito Reince Priebus.

I moderatori della Cnbc, durante il dibattito, avrebbero poste domande non pertinenti o tendenziose. “Se non siete in grado di rispondere a qualsiasi domanda – è la legittima risposta della stampa Usa -, come pensate di potere fare il presidente degli Stati Uniti?”.

L’unico repubblicano a tenersi fuori dal coro delle lamentazioni è stato il governatore dell’Ohio, John Kasich, forse perché i giornalisti gli hanno accreditato, inopinatamente, una buona prestazione mercoledì. Intervistato dalla Cnn, Kasick ha di nuovo criticato oggi toni e contenuti delle campagne dei suoi rivali: di alcuni, come Trump e Crason, ha bollato i piani economici come “irreali”, denunciandone la mancanza di competenza.

Per altri, mercoledì ha vinto Rubio, il senatore della Florida, che starebbe per diventare il candidato dell’establishment, scavalcando Bush, o s’è imposto Chris Christie, governatore del New Jersey. Ma, in realtà, l’unica ad avere davvero vinto è Hillary Clinton, che, a televisore spento, ha scritto via twitter: “Non possiamo permetterci uno di questi repubblicani alla Casa Bianca”. Per Rubio, lei è "una bugiarda protetta dai media";  mentre Carly Fiorina, l’unica donna del lotto repubblicano, si presenta come “il peggior incubo" della ex fist lady.

Jeb, di cui i giornalisti, invece, segnalano l’ennesimo flop, dice, parlando nel New Hampshire, "Conta la leadership, non la performance". Ma lui, finora, non ha sciorinato né l’una n’ l’altra.

Refugees: how Italy is still struggling with the crisis

Pubblicato da Europe's World il 26/10/2015 
http://europesworld.org/2015/10/26/how-italy-is-still-struggling-with-the-refugee-crisis/

The Arab spring marked for Italy the start of a migration emergency that has since been worsened by developments in Syria and Iraq, and most of all in Libya. Hundreds of thousands of people have been leaving Libya by sea to reach Italy, and of these several thousands have lost their lives.

The Italian island of Lampedusa is the closest part of Europe to Africa, and while agreements with the Qaddafi regime had greatly limited the number of migrants reaching it, the overthrown of Qaddafi in 2011 has since seen a proliferation of human trafficking from Libya.

Italy initially dealt with the problem as a seasonal emergency since the crossings are mainly undertaken in the summer months. It was nevertheless unable to organise efficient procedures for the treatment, identification and checking of asylum requests, or for the rejection of so-called economic migrants.

No less than four different Italian governments opted for different approaches: some blamed the EU for its inefficiency and failure to respond to Italy’s calls for assistance, and others looked for buffer solutions while trying to convince their EU partners that the migrant crisis was not just a passing phenomenon but a structural fact.

Meanwhile, other EU countries blame Italy for having disregarded existing agreements concerning economic migrants who should be returned to their own country, and asylum seekers who need to be assessed by the EU country they entered.

Italy’s inability to do this quickly has encouraged migrants to quit Italian refugee centres and head for their real destinations in France, Germany or Sweden. This has generated border tensions, especially with France.

The drowning tragedies that shocked public opinion in Italy saw the launch in autumn 2013 of the Mare Nostrum patrol mission in Libyan territorial waters to rescue migrants aboard unsafe ships. A year later, Mare Nostrum was replaced by the European Triton mission as part of the Frontex programme for securing the EU’s external borders.

Now, the Italian argument that all this is an European issue, not a national one, has been reinforced by the much greater number of migrants reaching not only Italy but also Greece. The result has been the European Commission’s plan for sharing the burden among all 28 EU states. But Italy, like others, still needs to manage immigration not just as an emergency but as a structural reality. And it also needs to accept the idea that immigration, even the economic kind, can be a development opportunity for countries with an ageing and shrinking population.

venerdì 30 ottobre 2015

Usa 2016: repubblicani; dibattito 3, candidato credibile ancora cercasi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/10/2015 e ripreso da www.GpNewsUsa2016.eu

Nel giorno in cui s’accordano sul nuovo speaker della Camera, i repubblicani non trovano ancora il loro candidato alla Casa Bianca per Usa 2016. Ma, forse, comincia ad allentarsi la paura dell’establishment del partito di vedere campioni dell’anti-politica, come il neuro-chirurgo nero in pensione Ben Carson o il magnate dell’immobiliare Donald Trump, conquistare la nomination.

Né Trump né Carson escono bene dal dibattito di mercoledì notte, il terzo della serie, andato in onda sulla Cnbc da Boulder, Colorado: Trump ripropone in modo persino esasperato il personaggio dello showman che le spara grosse; e Carson appare impacciato e sempre timoroso di dire qualcosa di sbagliato. Così che, alla fine, dice solo banalità.

Ma se i battistrada della campagna ‘bucano’ – la ruota, non lo schermo -, neppure i politici di professione ‘fanno bingo’. Il governatore del New Jersey Chris Christie azzecca, finalmente, una serata positiva, e l’ex ceo di Hp Carli Fiorina, l’unica donna, si conferma brava nei dibattiti (ma deve ancora imparare a non ‘sparire’ tra l’uno e l’altro). Quanto ai ‘cavalli di razza’ –presunti- della Florida, Jeb Bush e Marco Rubio, nessuno dei due esce davvero ‘presidenziabile’ da questo round.

Alla Camera, l’elezione di Ryan come speaker chiude una fase di tensioni interne al partito, aperta dalle dimissioni di John Boehner, l’uomo che invitò Papa Francesco al Congresso, oltre che, all’insaputa della Casa Bianca, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, stufatosi degli attacchi del Tea Party e degli ultra-conservatori.

Boehner regala ai suoi critici un ultimo accordo con la Casa Bianca sul bilancio 2016, bocciato come pessimo dai candidati alla Casa Bianca. Ryan, deputato del Wisconsin e già candidato alla vice-presidenza nel 2012 in coppia con Mitt Romney: Ryan, era atteso ai nastri di partenza della campagna presidenziale, ma se n’è tenuto fuori, ufficialmente per passare più tempo con moglie e figli. Ma ha tempo per provarci nel 2020.

Da Boulder, l’affollata corsa alla nomination repubblicana riparte apparentemente livellata. Il dibattito è stato noioso e relativamente poco seguito: a turno, i candidati se la sono presa con la stampa e, ovviamente, con l’Amministrazione del presidente Obama e di quel suo clone che sarebbe Hillary Clinton, la quasi certa avversaria democratica.

Il confronto è stato il terzo della serie, dopo quelli di Cleveland, Ohio, in agosto e Simi Valley, California, in settembre. Per la prima volta, però, Trump non partiva in testa: Carson l’ha infatti superato alla vigilia, in un sondaggio per conto di Cbs/NYT: 26% contro 22%. Tutti gli altri 13 aspiranti alla nomination repubblicana partivano sotto il 10% e mancano ancora riscontri del dibattito in termini di impatto sul pubblico.

In una serata senza tenori e senza dominatori, il senatore Rubio, il più giovane del gruppo, s’è limitato al minimo sindacale. Neppure quello hanno fatto i senatori del Texas Ted Cruz, forse il meno loquace, e del Kentucky Ron Paul, il libertario, verboso e poco concreto. Meglio i governatori, Christie su tutti, seguito dall’esperto ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee, un predicatore, e –a distanza- dal governatore dell’Ohio John Kasich, mentre Jeb, ex governatore della Virginia, non è proprio a suo agio con questa formula.

In palla, invece, la Fiorina, l’unica donna: questa volta, Trump non l’ha stuzzicata; e lei se l’è presa direttamente con Hillary, di cui s’è proclamata “il peggiore incubo”. Se è davvero così, le notti dell’ex first lady sono relativamente tranquille.

Tutti i candidati hanno in genere evitato di ‘spararsi addosso’ e d’esporsi al ‘fuoco amico’, scegliendo d’essere concordi su alcuni punti, come la denuncia del ‘grande governo’ e la promessa di ridurne le dimensioni e le competenze, oltre che, naturalmente, le spese e il debito. Pure la stampa è finita spesso sotto tiro: “Il mio programma non è un fumetto”, strilla Trump con il conduttore. Ma le sue maschere che vanno a ruba per Halloween paiono smentirlo.

giovedì 29 ottobre 2015

Usa 2016: repubblicani; dibattito 3, l’ora di Christie e delle seconde linee

Scritto il 29/10/2015 per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net e, in versioni diverse, per LaPresse e il blog de Il Fatto Quotidiano

Metti una sera in Colorado che i tenori steccano o sono senza voce e vengono così fuori le seconde linee. E’ successo nel terzo dibattito in diretta tv tra gli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca: Donald Trump è ricaduto nel vizietto di strafare, tanto che il moderatore l’ha persino dovuto correggere; e Ben Carson ha ecceduto nel tacere, convinto che meno dice meno sbaglia.

I due battistrada della corsa alla nomination repubblicana non hanno brillato: Trump troppo ansioso di accentrare su di sé l’attenzione; Carson senza strumenti oratori né argomenti. C’è stata, invece, la rinascita di Chris Christie, finora in ombra tra campagna e sondaggi, e l’uscita alla ribalta delle seconde linee di questa competizione.

Il confronto, a Boulder, in Colorado, è stato il terzo della serie, dopo quelli di Cleveland, Ohio, in agosto e di Simi Valley, California, in settembre. Per la prima volta, Trump, magnate dell’immobiliare e showman, non partiva in testa: Carson, ex neuro-chirurgo, l’unico nero del lotto, l’ha infatti superato, in un sondaggio condotto da Cbs/NYT: 26% contro 22% di Trump.
Tutti gli altri 13 aspiranti alla nomination repubblicana erano sotto il 10%, prima del match di cui mancano ancora riscontri in termini di impatto sul pubblico.

Il dibattito è stato trasmesso dalla Cnbc dal Coors Event Center, Università del Colorado, ed è stato moderato da giornalisti della rete: dentro il centro, un pubblico incline all’applauso –Boulder è una roccaforte repubblicana-; fuori, manifestazioni di protesta d’immigrati, sindacati ed ecologisti anti-trivellazioni.

Se questa non era stata, finora, la campagna dei governatori, la serata di Boulder è, invece, stata la migliore per il governatore del New Jersey, Christie, grintoso ed efficace; e spazio hanno anche trovato l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee, un predicatore, il più assiduo nelle corse alla nomination, e –meno- il governatore dell’Ohio John Kasich, mentre l’ex governatore della Virginia
Jeb Bush ha confermato di non essere a suo agio con questa formula.

In una serata senza tenori e senza dominatori, il senatore della Florida Marco Rubio, il più giovane del gruppo e uno dei favoriti, s’è limitato a fare i minimo sindacale. Neppure quello hanno fatto i senatori del Texas Ted Cruz, forse il meno loquace, e del Kentucky Ron Paul, il libertario, verboso e poco concreto.

In palla, invece, come già nel secondo dibattito, Carli Fiorina, l’unica donna, ex ceo dell’Hp: questa volta, Trump non l’ha stuzzicata; e lei se l’è presa direttamente con Hillary, di cui s’è proclamata “il peggiore incubo”. Bisogna, però, che la Fiorina non esca di scena tra un dibattito e l’altro.

La politica interna e l’economia hanno dominato la discussione, al termine di una giornata che aveva visto confermarsi l’accordo sul bilancio 2016 tra l’Amministrazione democratica e l’opposizione repubblicana che è maggioritaria nel Congresso – l’intesa è stata negoziata da John Boehner, speaker uscente della Camera - e delinearsi la designazione - per la sostituzione di Boehner - di  Paul Ryan, deputato del Wisconsin e già candidato alla vice-presidenza nel 2012 in ticket con Mitt Romney. La nomina di Ryan sarà oggi ufficializzata.

Su alcuni punti, tutti i candidati, che hanno in genere evitato di ‘spararsi addosso’ e d’esporsi al ‘fuoco amico’, sono stati concordi: nella denuncia del ‘grande governo’ federale e nelle promesse di ridurne le dimensioni e le competenze, oltre che, naturalmente, le spese e il debito. Raffiche di critiche sono state indirizzate al presidente Barack Obama e alla candidata democratica Hillary Rodham Clinton, specie sulla riforma della sanità (l’Obamacare) e sulle loro politiche e i loro programmi sociali ed economici. E pure la stampa è finita sotto tiro: “Le vostre domande fanno capire perché il pubblico non ha fiducia in voi”, è stata l’unica battuta non banale di Cruz.

Gli attacchi reciproci sono invece stati pochi e più ironici che aspri, come quando Huckabee ha mostrato la sua cravatta a Trump dicendogli “E’ una delle tue”; e Bush, nell’unico momento efficace della sua serata, come al solito opaca, è intervenuto chiedendogli “Fatta in Cina?, o magari in Messico?”, dopo che Trump s’era impegnato a riportare negli Usa posti di lavoro cinesi e messicani. (gp)

mercoledì 28 ottobre 2015

Usa 2016: repubblicani; dibattito 3, Carson parte in pole position

Scritto per La Presse e, in altra versione, per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 28/10/2015

Il sorpasso di Carson su Trump è il fatto nuovo nel campo repubblicano, nell’imminenza del dibattito televisivo di questa sera da Boulder, Colorado, fra gli aspiranti alla nomination. Il confronto è il terzo della serie, dopo quelli da Cleveland, Ohio, in agosto e di Simi Valley, California, in settembre.

Anche Boulder è un bastione repubblicano. Il dibattito andrà in onda sulla Cnbc dal Coors Event Center dell’Università del Colorado, e sarà moderato da tre giornalisti della rete, John Harwood, Becky Quick e Carl Quintanilla, così da soddisfare la diversità di genere e di etnia. Fuori, ci saranno manifestazioni di immigrati, sindacati ed ecologisti anti-trivellazioni.

Fra i democratici, le ultime settimane hanno cementato la leadership di Hillary, ormai quasi blindata. Fra i repubblicani, la corsa è apertissima, anche se Ben Carson e Donald Trump hanno un vantaggio molto netto nella media dei sondaggi nazionali sugli altri 13 aspiranti alla nomination, nessuno dei quali va in doppia cifra: secondo la media dei sondaggi disponibili, i senatori Marco Rubio, Florida, e Ted Cruz, Texas, entrambi ispanici, sono al 10%; l’ex governatore della Florida Jeb Bush è all’8%; e l’ex ceo di Hp Carly Fiorina al 6%.

Il fatto nuovo delle ultime ore è stato un rilevamento Cbs/NYT, per il quale Carson supera Trump per la prima volta su scala nazionale, 26% contro il 22%. Era da giugno che l’imprenditore miliardario faceva la corsa in testa. Dietro vengono Rubio all’8%, davanti a Bush e alla Fiorina al 7%. Il sorpasso di Carson su trump s’era già delineato ieri, ma solo nello Iowa, lo Stato che, il 1° febbraio, inaugurerà la stagione delle primarie.

Rem Rieder, su USAToday, scrive che Carson e Trump s’erano fin qui comportati come se avessero un patto di non aggressione. Ma ora il magnate dell’immobiliare “s’è tolto i guanti” e l’ex neuro-chirurgo nero dai modi educati s’è adeguato: c’è attesa per vedere come i due, che saranno al centro dello schieramento, si affronteranno.

Nelle ultime sortite, Carson e Trump si sono punzecchiati. E Trump ha pure posto domande sulla religione di Carson, che è un avventista del settimo giorno, denunciandone la “debolezza” sul fronte dell’immigrazione e la scarsa energia. Accusa che da sempre accompagna, nella narrativa di Trump, ma pure in quella dei media, la campagna di Jeb, che arriva, però, al dibattito rivitalizzato da due giorni di lavori a porte chiuse a Houston.

Il conclave dei ‘bushiani’, un rito trimestrale, doveva rilanciare la corsa di Jeb e rinvigorire la fiducia nei donatori: erano presenti il padre George e il fratelli George W., entrambi ex presidenti; le ex first ladies Barbara e Laura; e Colomba, la moglie ispanica del candidato. Rebecca Elliott sullo Houston Chronicle ricava dall’evento testimonianze ottimistiche, ma un po’ di maniera.

Il dibattito di Boulder dirà pure se Rubio continuerà ad attaccare Trump e se può essere lui la carta di riserva dell’establishment del partito se Jeb non riesce davvero a decollare. E potrebbe fornire qualche indicazione sulla Fiorina, un oggetto misterioso, la cui campagna sembrava lanciata dal secondo dibattito, dove aveva tenuto testa al maschilista Trump. Ma l’ex ceo è poi sparita dalla scena e s’è di nuovo lasciata assorbire dal gruppo anonimo degli altri aspiranti.

Da cui non è mai uscito finora un altro potenziale protagonista, Chris Christie, governatore del New Jersey –questa, finora, non è stata la campagna dei governatori-.

martedì 27 ottobre 2015

Iraq: i mea culpa tardivi di Obama e Blair (e le colpe del Califfo)

Scritto per Metro del 27/10/2015 

Parziali, e tardivi, arrivano i mea culpa dei leader di allora e di adesso per la situazione tra Iraq e Siria, dove avanza il sedicente Stato islamico. Barack Obama ha ammesso che il ritiro, avvenuto alla fine del 2011, di tutti i soldati americani dall’Iraq, senza lasciare un presidio nel Paese, è stato, a conti fatti, un errore: un’ammissione utile a giustificare la decisione di non completare il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, dove, dopo oltre 14 anni di massiccia presenza militare americana e alleata, la situazione è lungi dall’essere stabilizzata.

E, ora, Toni Blair, premier britannico all’epoca dell’invasione dell’Iraq nel 2003 e sponsor e mente di tutta quella operazione insieme al presidente Usa George W. Bush, riconosce che la gestione del dopo Saddam fu sbagliata. In attesa che anche Bush ammetta le sue responsabilità e che lui e Blair rendano una confessione completa –non solo la gestione del dopo Saddam fu un errore, ma l’invasione stessa si basava su presupposti deliberatamente falsi-, le dichiarazioni di Obama e Blair sono una prova in più del fatto inoppugnabile che le radici dell’Isis e del suo successo stanno nell’invasione dell’Iraq e nella sua gestione.

Il rovesciamento di Saddam Hussein –certo un dittatore, ma come molti altri su questa Terra, spesso tollerati e blanditi- e la disgregazione dell’Iraq, dove gli Stati Uniti e i loro alleati non vollero mantenere le strutture esistenti, a partire dall’esercito; la scelta di leader locali assolutamente inadeguati e partigiani, come il premier al-Maliki, fautore della rivincita degli sciiti sui sunniti, invece che della riconciliazione nazionale; l’incapacità d’individuare i nemici più temibili (proprio l’attuale Califfo, catturato dagli americani a Falluja nel 2004,, venne liberato poco dopo); e, infine, il ritiro di tutte le truppe americane, complice anche l’ostinata presunzione del governo iracheno; tutti questi elementi hanno contribuito ad alimentare l’ostilità e l’esasperazione dei sunniti contro gli sciiti e a risvegliare e a coagulare sotto le bandiere del Califfato le cellule di al Qaida e i resti militarmente preparati dell’esercito di Saddam, mentre il corrotto e friabile esercito iracheno non riusciva a opporre resistenza.

Intendiamoci, le responsabilità non vanno tutte poste sullo stesso piano: più gravi quelle di Bush e Blair di quelle di Obama. E gli errori occidentali non cancellano né giustificano gli orrori compiuti dalle milizie jihadiste, che ne restano responsabili. Ma esserne consci ed ammetterli aiuterà a non ripeterli, come è di recente successo in Libia.

Usa 2016: sondaggi, Hillary vola, duello Trump/Carson

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 27/10/2015

Regalo di compleanno per Hillary Rodham Clinton, che lunedì 26 ha festeggiato i 68 anni: un sondaggio della Cbs la dà in testa nello Iowa e nel New Hampshire, i due Stati dove, fra meno di cento giorni, si inaugurerà la stagione delle primarie. Il rilevamento è lo stesso che un mese fa dava il suo rivale Bernie Sanders avanti di 10 punti nello Iowa: ora la vede avanti 46 a 43% nello Iowa e addirittura 54 a 39% nel New Hampshire.

Hillary, che ha avuto gli auguri di compleanno dal marito Bill Clinton via twitter, allunga così una stagione felice della sua campagna, iniziata con il successo nel primo dibattito televisivo democratico, proseguita con il no di Biden alla candidatura e culminata infine nella testimonianza davanti alla commissione d’inchiesta sul dramma di Bengasi dell’11 Settembre 2012 .

Un altro sondaggio, fra i repubblicani, mostra invece che gaffes e frasi shock non fermano l'ascesa di Ben Carson, ai danni di Donald Trump, che, adesso, nello Iowa, è scavalcato e distaccato: il terreno di confronto scelto, quello delle provocazioni, porta i suoi frutti. Secondo il rilevamento della Monmouth University, l’ex neurochirurgo nero ha ora il 32% delle preferenze, contro il 18% dello showman miliardario, che accusa il colpo e attacca: "Carson è un candidato moscio, più moscio addirittura di Jeb Bush".

Che, dal canto suo, raccoglie solo l'8% delle preferenze, dietro Marco Rubio e Ted Cruz, al 10%, e davanti a carly Fiorina al 6%, ma mette nel mirino della sua campagna proprio Iowa e New Hampshire. La speranza è di sfruttare lo scontro in atto tra i suoi avversari e quindi emergere dalle secche dove è finora rimasto impantanato.

Così, dopo i tagli allo staff e agli stipendi al quartier generale di Miami, i suoi finanziatori da decine di milioni di dollari - dai principali donatori individuali al Super Pac chiamato "Right to Rise Usa" – riuniti a Houston, in Texas, hanno deciso di rafforzare la loro presenza nei due Stati il cui voto indirizza spesso l’andamento delle primarie.

Alcuni dipingono lo scontro tra Trump e Carson come “un duello a chi la spara più grossa”: “Due 'maestri' della provocazione estrema –scrive sull’ANSA Ugo Caltagirone- che per ora hanno eclissato il moderato Jeb Bush, l'uomo dell'establishment del partito, Jeb, però, spera in un effetto boomerang, cioè che i toni da ‘ultra’ utilizzati dai suoi due antagonisti alla lunga li brucino”.

Ma i sondaggi sembrano premiare solo chi ha deciso di andare sopra le righe, di puntare su un linguaggio diretto quanto politicamente scorretto. Carson è protagonista in ascesa, nonostante che negli ultimi giorni abbia infilato una gaffe dopo l'altra: così, ha paragonato le donne che abortiscono ai proprietari di schiavi, che si sentivano in diritto di fare ciò che volevano di quelle vite umane; e, per giustificare il no alla stretta sulle armi da fuoco, sostiene che non ci sarebbe stato l'Olocausto se Hitler non avesse disarmato gli ebrei.

Non basta; Carson afferma che Hillary dovrebbe finire in galera per le sue responsabilità nell'attacco al consolato Usa di Bengasi. E definisce la riforma sanitaria voluta da Obama "la cosa peggiore in America dall'epoca della schiavitù". E se la prende con una vittima della strage all'università dell'Oregon: "Invece di stare lì fermo e farsi colpire poteva affrontare il killer ed evitare la strage".

Il magnate dell’immobiliare avverte la pressione e rilancia, ribadendo che, "se dittatori come Saddam e Gheddafi fossero ancora in vita, il mondo sarebbe migliore". (ANSA - fonti vv - gp)

lunedì 26 ottobre 2015

Usa 2016: fondi; NYT, da 158 famiglie la metà delle donazioni

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 26/10/2015 

Mentre i media fanno polemica perché il Comitato nazionale repubblicano vuole fare loro pagare la copertura della convention di Cleveland, 150 dollari a posto, alla Quicken Loans Arena, il NYT rivela che il fiume di denaro che foraggia i candidati alle nominations proviene, per quasi la metà, da appena 158 famiglie, principalmente bianchi, ovviamente ricchi, uomini e anziani, spesso vicini di casa e compagni di golf.

L’inchiesta del NYT si ferma al secondo trimestre 2015, quando ciascuna delle 158 famiglie aveva già donato almeno 250 mila dollari, mentre altre 200 famiglie avevano superato i 100 mila: somme, in maggioranza, andate ai repubblicani, mentre i democratici ricevono donazioni più diffuse, ma di minore entità.

Non accadeva da prima del Watergate, cioè almeno dalla campagna 1972, sostiene il quotidiano, che i contributi alla campagna fossero così concentrati. L’analisi del giornale mette anche in luce un cambiamento nella composizione dell’élite economica degli Stati Uniti: sono relativamente pochi, fra i 158 ‘paperoni’ di Usa 2016, quelli che lavorano nell’economia tradizionale o sono eredi di grandi fortune; molti lavorano nella new economy o sono nuovi ricchi o ‘avventurieri’ della finanza; e vi sono anche una decina di immigrati, da Cuba come dall’ex Urss, da India e Pakistan come da Israele. (NYT - gp)

domenica 25 ottobre 2015

Usa 2016: primarie - 100, tutti con Hillary, tutti contro Trump

Scritto per AffarInternazionali il 25/10/2015 e postato pure su www.GpNewsUsa2016.eu 

A cento giorni dall’inizio delle primarie, con le assemblee dello Iowa il 1° febbraio, e a poco più d’un anno dall’Election Day, l’8 novembre 2016, le campagna democratica e repubblicana vivono due momenti totalmente diversi. Fra i democratici, Hillary Rodham Clinton ha straordinariamente rafforzato, nel giro di dieci giorni, il suo ruolo di favorita, al punto da figurare ora quasi come ‘candidata unica’. Fra i repubblicani, invece, il plotone degli aspiranti alla nomination resta nutrito – sono ben15 -, nell’imminenza del terzo dibattito televisivo, pur se molto sgranato nei sondaggi. E comincia a delinearsi una mobilitazione di partito per frenare la corsa in testa di Donald Trump, dato come sicuro perdente nel voto per la Casa Bianca: lo showman, e magnate dell’immobiliare continua a inimicarsi fette dell’elettorato non indifferenti, come donne e ispanici, compiacendo qualunquisti e populisti (quelli che alle urne poi non ci vanno).

Democratici: la candidata c’è - La posizione di Hillary, che pareva vacillante, è stata successivamente rafforzata da tre fatti. Primo. la sua prestazione nel dibattito televisivo democratico, da cui è uscita vincitrice, anche grazie all’onestà intellettuale del suo principale rivale, il senatore del Vermont Bernie Sanders, un indipendente ‘socialista’, che ha smontato le polemiche contro l’ex first lady agitate dai repubblicani (“Basta con ‘sta storia delle email –ha detto-: parliamo di ciò che interessa gli americani, parliamo dei 27 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà”).

Secondo: la decisione del vice-presidente Joe Biden, forse pure influenzata dalla sua performance televisiva, di non scendere in lizza. Terzo: la calma e convincente testimonianza resa per 11 ore, giovedì 22, davanti alla Commissione d’Inchiesta del Senato sui fatti che l’11 settembre 2011, quando lei era segretario di Stato, costarono la vita a Bengasi all’ambasciatore Usa in Libia e a tre altri cittadini americani.

Sia nel dibattito che di fronte alla Commissione d’Inchiesta, Hillary è parsa molto presidenziale, fugando alcuni dubbi sulla sua tenuta insinuatisi durante l’estate. In lizza con lei, oltre a Sanders, troppo a sinistra per essere candidabile, resta solo un comprimario, l’ex governatore del Maryland Thomas O’Malley: l’ex governatore di Rhode Island Lincoln Chaffee e l’ex senatore della Virginia Jim Webb si sono ritirati. Con una punta d’invidia, il politologo repubblicano Fergus Cullen constata: “In due settimane, Hillary s’è trasformata da incerta battistrada in candidata quasi sicura”, da ‘ferro vecchio’ usurata dalla politica e dalle polemiche a indomita combattente.

La situazione non è però senza rischi, per la Clinton e per i democratici: senza Biden in campo, Hillary dovrà continuare a logorarsi facendo la corsa in testa, unico bersaglio di tutti gli attacchi; e se lei ‘fora’, o inciampa in qualche scheletro nell’armadio o in quella nemica perfida che è l’antipatia che suscita in parte dell’elettorato, i democratici non hanno una ruota di scorta pronta.

La sensazione, però, è che, dopo questi dieci giorni, la nomination e anche la Casa Bianca siano più vicine per l’ex first lady, che potrebbe ora permettersi di non spendere troppo nelle primarie, tenendosi soldi e carte da giocare per la campagna presidenziale vera e propria, dopo le convention dell’estate prossima. “Vai a casa e riposati un po’”, le hanno detto a Seattle le sue sostenitrici, dove lei ripartiva subito in campagna venerdì dopo la testimonianza fiume.

La linea politica è chiara e gliel’ha pure avallata Biden nel discorso della rinuncia: raccogliere l’eredità di Obama e fare avanzare l’America sulla via dei diritti civili. Anche se lei, orgogliosa, precisa: “Non sono candidata al terzo mandato di Barack Obama, né di Bill Clinton. Sono candidata al mio primo mandato”.  Per il quale le fioccano gli appoggi, l’ultimo, quello del sindacato che rappresenta i dipendenti pubblici degli Stati, delle Contee e dei Comuni, 1,6 milioni di iscritti: ancora un regalo per i suoi 68 anni, che compie lunedì 26.

 Repubblicani: candidato cercasi – Diversa, se non opposta, la situazione fra i repubblicani: c’è una pletora di aspiranti alla nomination e, in testa alla corsa, ci sono i campioni dell’anti-politica che il partito giudica votati alla sconfitta nelle elezioni. Intanto, al Congresso i deputati gettano benzina sul rogo del qualunquismo, non riuscendo a decidere chi debba essere il nuovo speaker, dopo le brusche dimissioni di John Boehner, esasperato dalle divisioni intestine e dagli attacchi degli iper-conservatori e del Tea Party.

Le difficoltà non solo nei sondaggi ma anche economiche di Jeb Bush, il candidato preferito dall’establishment, indeboliscono la convinzione che alla fine l’ex governatore della Florida riesca ad emergere come vincitore: gli ci vuole un colpo d’ala alla Clinton – il terzo dibattito televisivo gliene offre l’opportunità a breve -.

E così c’è chi si mobilita per organizzare almeno una campagna anti-Trump, nel tentativo d’evitare che i danni fatti da ‘pel di carota’ Danny diventino irreparabili. Secondo The Club for Growth, influente gruppo conservatore basato a Washington, che ha speso un milione di dollari in annunci contro Trump, recenti sondaggi nello Iowa mostrano che la leadership dello showman s’indebolisce. E molti pensano che la sua ascesa sia in stallo, che la sua corsa si sia fermata. Anche qui, il dibattito sarà una cartina di tornasole.

Secondo Fred Malek, un donatore repubblicano citato dall’Ap, “a questo punto non c’è un’alternativa singola a Donald Trump”: nessuno dei presunti tenori repubblicani, come i senatori Marco Rubio e Ted Cruz o il governatore Chris Christie, senza dimenticare Bush, va in doppia cifra nei sondaggi. Ci vorrebbe il balzo in avanti di qualcuno, magari al prossimo dibattito. Perché, se no, l’avversario di Trump è Ben Carson, un ex neuro-chirurgo nero, iper-conservatore e senza esperienza politica, che nei sondaggi sta intorno al 20% e che è capace d’attirare fondi. Un po’ come saltare dalla padella sulla brace.

sabato 24 ottobre 2015

Usa 2016: Jeb, staff ridotto e stipendi ‘tagliati’

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 24/10/2015 

Jeb Bush dà una sforbiciata alle spese della sua campagna per Usa 2016: l’ex governatore della Florida, partito con i favori dei pronostici, è in difficoltà nei sondaggi e, nonostante continui ad attirare donazioni in misura ingente, ha da sempre patito i costi d’una campagna molto dispendiosa. Non saltano solo figure di secondo piano, ma anche alcuni dirigenti e diversi consulenti; realizzando –si dice- riduzioni della spesa dell’ordine di un milione di dollari al mese.

Secondo un documento la cui esistenza è stata divulgata dalle agenzie di stampa, Bush, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti, s’appresta a ridurre d’un quarto lo staff del suo quartier generale a Miami e a ‘tagliare’ i compensi di chi resta, per ottenere risparmi dell’ordine del 40% -c’è chi calcola del 45%-. Le somme così recuperate saranno reinvestite negli Stati che, nel prossimo febbraio, apriranno la stagione delle primarie.

Mettere mano ai conti e riorganizzare la campagna è un modo per rassicurare i finanziatori, ormai sul chi vive. Ma Bush deve pure scrollarsi di dosso un certo grigiore, quasi un’apatia, a cominciare già dal prossimo dibattito televisivo, il terzo, fra i 15 aspiranti alla nomination repubblicana. Jeb,  che ha già apportato aggiustamenti in corsa alla propria campagna, ha davanti a sé nei sondaggi tre ‘cani sciolti’, Donald Trump, Ben Carson e Carly Fiorina, ma pure professionisti della politica come il senatore della Florida Marco Rubio, che gli contende lo Stato e l’elettorato ispanico. (fonti varie - gp)

venerdì 23 ottobre 2015

Media: pubblicità e cultura, connubio senza tempo

Scritto per il blog di Media Duemila il 22/10/2015

E’ l’ennesima diatriba del tipo ‘l’uovo e la gallina’: è il mecenatismo, la sponsorizzazione, la pubblicità, a fare bene alla cultura?, o è la cultura a giovare ai mecenate, agli sponsor e a chi la usa come veicolo di pubblicità? Quel che pare chiaro, dalla notte dei tempi, o almeno dall’alba dei tempi, cioè da quando l’uomo ha raggiunto un livello di civiltà adeguato, da quando –per intenderci- comincia la storia, è che la pubblicità, nell'evoluzione delle sue forme, e la cultura vanno di conserva e si tengono l’un l’altra sottobraccio, senza che l’una sorregga l’altra. Edoardo Bennato direbbe in musica che “sono in società”, come il gatto e la volpe.

Certo, il flusso di denaro è spesso univoco. Come il flusso di prestigio è univoco e va, ovviamente, in direzione contraria: mica andate a visitare il Colosseo perché l’ha ripulito da smog e piogge acide l’azienda tal dei tali, né andate a vedere la Cappella Sistina perché un’altra azienda ha contribuito a restituire brillantezza ai suoi colori. Però, una volta che ci siete, un pensiero a chi vi consente di fruire meglio di un monumento o di un’opera d’arte ce lo fate. E magari ve ne ricordate, quando dovete fare una scelta d’acquisto che non ha nulla di culturale.

La cultura, poi, è pure fonte d’ispirazione inesauribile per i pubblicitari, che hanno spesso l’estro dei poeti. Quanti spot o campagne citano in modo esplicito opere d’arte e letterarie, film e spettacoli; e quanti li citano in modo meno esplicito, con ammiccamenti talora difficili da cogliere per il grande pubblico. Senza contare il traino che l’uomo di cultura evidentemente assicura al prodotto: uomini di cultura, non di spettacolo. I nostri spot sono, dall’epoca di Carosello, fitti di riferimenti culturali e di personaggi come Dante e Leonardo, senz’altro il più sfruttato nei messaggi pubblicitari, forse perché –oggi si direbbe- ‘multitasking’.

Una riprova del fatto che il rapporto pubblicità / cultura è vicendevolmente proficuo è che lo ritroviamo in tutti i tempi e sotto tutte le latitudini, in tutti i regimi: anche quelli totalitari, che magari lo riducono a un più terra terra ‘panem et circenses’; e persino quelli che, negando l’iniziativa economica individuale, riservano allo Stato il mecenatismo, che però praticano a gloria dei potenti.

Del resto, i mecenati del passato, i committenti dei Grandi, re e principi, banchieri e uomini d’arme, mica erano mediamente migliori di quelli attuali: spesso, l’opera d’arte incoraggiata era un ‘trompe l’oeil’ della storia, dietro cui nascondere magagne e misfatti.

Usa 2016: Hillary; Bengasi ed email, 11 ore sotto torchio, ne esce bene

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 23/10/2015

E’ proprio in forma, Hillary Rodham Clinton, candidata (quasi) unica alla nomination democratica per la Casa Bianca: dopo essere stata bravissima nel dibattito televisivo del 14 ottobre e dopo essersi liberata senza colpo ferire del rivale interno più insidioso, il vice-presidente Joe Biden, che ha deciso di non sfidarla, è uscita sostanzialmente vincitrice da 11 ore di estenuante 'interrogatorio' da parte della commissione parlamentare d'inchiesta sull'attacco al consolato Usa di Bengasi. L'11 settembre 2012, vi persero la vita l'ambasciatore Chris Stevens e altri tre cittadini americani.

La Clinton, all'epoca segretario di Stato, non s’è mai fatta mettere nell’angolo dalla commissione, composta da sette repubblicani e cinque democratici: se gli ‘inquisitori’ repubblicani volevano metterla in difficoltà, più ancora che accertare le cause della morte di Stevens, non ci sono riusciti, a giudizio di quanti hanno seguito tutta la seduta.

L’ex first lady ha ostentato calma e sicurezza, che a tratti sconfinava nella sicumera, e ha rintuzzato le accuse sulla gestione della crisi. Dell’episodio, Hillary s’è assunta la responsabilità oggettiva come capo della diplomazia Usa, senza ammettere di avere commesso errori; né i repubblicani hanno dimostrato che lo abbia fatto.

Lo stesso presidente della commissione, il repubblicano Trey Gowdy, ammette che non sono venuti fuori elementi nuovi. E il democratico Elijah Cummings si prende un applauso sbottando: “Attenti ad usare i soldi dei contribuenti per distruggere una campagna elettorale, L’America non è questo”.

Nella testimonianza fiume, protrattasi nella notte statunitense, Clinton ha negato di avere trascurato le richieste dell'ambasciatore Stevens d’un rafforzamento delle misure di sicurezza e d’avere tentato di sviare l’opinione pubblica sull'origine dell'assalto al consolato di Bengasi.

La candidata democratica ha anche contrattaccato: "Abbiamo bisogno di una leadership interna che corrisponda a quella all'estero, una leadership che ponga gli interessi della sicurezza nazionale davanti a quelli politici ed ideologici", ha detto, riferendosi alla strumentalizzazione dell’episodio, con 17 mesi e 14,3 milioni di dollari spesi per la commissione d'inchiesta. Il rapporto ufficiale ha già attribuito al dipartimento di Stato la responsabilità di avere fornito una livello di sicurezza "largamente" insufficiente a Bengasi nonostante le richieste di rafforzamento da parte di Stevens e altri.

"L'America deve svolgere un ruolo guida in un mondo pericoloso – ha detto in apertura la Clinton - e i nostri diplomatici devono continuare a rappresentarci in posti pericolosi", anche perché, "quando l'America è assente, specie da teatri instabili, ci sono conseguenze": "Non possiamo impedire tutti gli attacchi terroristici o ottenere la sicurezza perfetta e dobbiamo accettare un livello di rischio".

L'ex segretario di Stato ha anche risposto sul cosiddetto ‘emailgate’, lo scandalo scoppiato perché utilizzò un account di posta elettronica privato invece di quello ufficiale mentre era al Dipartimento di Stato: "Non voglio che abbiate un'impressione sbagliata … La maggior parte del mio lavoro non avveniva tramite email con i miei collaboratori più stretti, con funzionari del dipartimento di Stato o del resto dell’Amministrazione". (fonti vv - gp)

giovedì 22 ottobre 2015

Siria: la famiglia Assad va in missione, lui a Mosca, lei dai feriti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/10/2015

Il marito a Mosca, forse a concordare una ‘exit strategy’, se non proprio a farsi “dare i sei mesi” dall’amico Putin, come ipotizza la stampa turca. Lei a compiere il giro dei villaggi della provincia di Latakia, la roccaforte del regime, per placare il malcontento delle famiglie.

Dell’esito della missione a Mosca del presidente siriano Bashar al-Assad - prima all'estero dal 2011- trapela che, dopo l’offensiva militare a guida russa contro le milizie jihadiste e le bande di al-Nusra, sarà avviato quello che viene definito “un processo politico”, cioè una fase di transizione.

Putin ne informa al telefono i leader turco ed egiziano e il re saudita; e riceve un avallo da Teheran; domani, ne parleranno a Vienna, i ministri degli esteri russo e americano Lavrov e Kerry.

Il regime, dunque, s’avvicina a fine corsa. Anche la missione di Asmaa al-Assad, la fist lady siriana - in veste “da crocerossina”, si sarebbe detto in altri tempi e ad altre latitudini -, ne è un sintomo: una visita svoltasi nei giorni scorsi, riferisce la stampa araba, tenuta segreta fino all’ultimo, perché muoversi in Siria è rischioso, e senza fronzoli né cerimonie di benvenuto – così da evitare pericoli e contestazioni -.

Le sortite pubbliche della moglie ddi Bashar sono molto rare da quando è scoppiata la rivolta: oltre quattro anni e mezzo di guerra civile, il territorio del Paese ridotto a chiazze di colore diverso sotto il controllo di bande e potentati, quasi un terzo della popolazione in fuga fuori dai confini nazionali.

In questo periodo, la percezione di Asmaa, da parte della popolazione, è profondamente cambiata: 40 anni, nata a Londra, è figlia d’un noto cardiologo siriano, Fawaz Akhras. Pure il marito è medico e studiava oftalmologia a Londra: nel suo futuro, non dovevano esserci il potere e la politica, cui era invece destinato il fratello maggiore Basil, morto in un incidente d’auto nel ’94-. La futura first lady siriana è laureata in informatica e letteratura francese, ha lavorato come analista finanziaria a Londra alla Deutsche Bank e alla J.P:Morgan fino al matrimonio.

Presentata come testimonial del cambiamento della donna siriana e icona glamour per i suoi vestiti e le sue acconciature, Asmaa ha tenuto, fino allo scoppio dell’insurrezione, un alto profilo, nonostante i tre figli nel frattempo avuti: s’è occupata di beneficienza e d’educazione femminile e infantile, ma anche di politica e diplomazia e ha avviato progetti per la sviluppo rurale sostenibile siriano e per la diffusione dell’informatica. La sua attività storica e culturale le valse una laurea honoris causa in archeologia dell’Università La Sapienza di Roma: una laurea dal suono beffardo, oggi che in Siria gli archeologi vengono uccisi se cercano di difendere la memoria del passato.

L’ascesa e la caduta di Asmaa è raccontata anche da al Arabiya, una delle tv ‘all news’ arabe. E molti media fanno coincidere l’inizio del crollo con la pubblicazione, su Vogue, nel marzo 2011, d’un articolo positivo sulla fist lady siriana: di lì a poco, mentre la Siria s’insanguinava, il pezzo venne rimosso. A deteriorarne la percezione, le cronache delle sue spese ostentate e stravaganti, che hanno resa sfocata l’immagine di donna moderna capace d’infondere moderazione al marito e hanno invece messo a fuoco una sorta di Imelda Marcos mediorientale.

Nel marzo 2012, un anno dopo la ‘marchetta’ di Vogue, l’Ue congelava i beni di famiglia e limitava la libertà di movimento degli al-Assad in Europa. Ma Asmaa, cittadina britannica, può ancora recarsi nel Regno Unito.

La visita nell’area di Latakia, il 'serbatoio umano’ del regime di Damasco, lungo la striscia litoranea alauita da cui provengono gli al-Assad, è stata decisa dopo che le famiglie locali avevano lamentato "l'indifferenza" delle autorità rispetto alle loro perdite: la first lady ha reso visita ai feriti al fronte, che si sentono trattati come "ferri vecchi", e ai loro familiari. I caduti tra i soldati governativi sarebbero aumentati, soprattutto dopo l'inizio delle operazioni dei russi: segno che i combattimenti si sono intensificati, dopo che, da tempo, le forze lealiste cercavano di ridurre al minimo gli scontri.

La popolazione avrebbe investito Asmaa "con una tempesta di critiche", chiedendole di "riferire” qual è la drammatica situazione di soldati "invalidi a vita dopo aver combattuto per suo marito".

Usa 2016: democratici senza alternativa, Biden resta fuori, Hillary niente frangiflutti

Scritto, in forme diverse, per LaPresse il 21/05/2015 e per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 22/10/2015

Joe Biden, vice-presidente degli Stati Uniti, uomo sorridente, politico esperto, rinuncia a scendere in campo per la nomination democratica a Usa 2016: era un rivale in grado d’impensierire Hillary Rodham Clinton, la battistrada, la cui marcia s’è un po’ appesantita in estate tra scandali montati e antipatia naturale; ma sarebbe pure stato un frangiflutti per l’ex first lady, da mesi l’unico bersaglio di tutti gli attacchi repubblicani, e una ruota di scorta per i democratici. Che restano ora senza alternativa, se qualcosa dovesse andare storto alla loro ‘candidata unica’.

Gli indizi che Biden, 73 anni, potesse scendere in campo si andavano accumulando da mesi: i media segnalavano vertici familiari, incontri preparatori, consulti preliminari e non solo la Fox aveva dato per sicura la candidatura. Ma i castelli in aria sono evaporati ieri, quando s’è saputo che Biden avrebbe fatto una dichiarazione dalla Casa Bianca, con accanto il presidente Obama e la moglie Jill: la partecipazione alle primarie non sarebbe mai stata annunciata lì, tanto meno con il presidente come testimonial – Obama ha i suoi debiti verso la famiglia Clinton e s’è sempre mantenuto neutrale sulla scelta del suo vice -.

"Siamo fuori tempo massimo per allestire una campagna elettorale di successo", ha spiegato Biden, dicendo una cosa non del tutto vera. E ha aggiunto: "Non sarò candidato, ma non starò in silenzio", ammettendo che il figlio Beau l’aveva esortato a puntare alla Casa Bianca prima di morire d’un cancro al cervello, nel maggio scorso. Biden conferma lealtà al presidente, che “ha guidato la ripresa del nostro Paese” e invita i democratici ad “abbracciarne l’eredità” (la Clinton l’ha già fatto, ponendosi in una linea di continuità con l’Amministrazione uscente).

Per la nomination democratica, restano dunque in lizza, insieme a Hillary, il senatore del Vermont indipendente e 'socialista' Bernie Sanders, che va meglio del previsto nei sondaggi, ma che non ha chances di successo e, ai margini dei giochi, gli ex governatori Martin O’Malley, del Maryland, e Lincoln Chafee, di Rhode Island. S’è appena ritirato l’ex senatore della Virginia Jim Webb.
Rispetto a tutti questi, Biden offriva un’alternativa a Hillary ben più affidabile e credibile: figura nota e ‘di garanzia’ per l’elettorato democratico tradizionale e per quello centrista, né decisionista né impulsivo –lo indicano pure i tentennamenti sulla candidatura, che sarebbero stati sciolti solo martedì sera-.

I sondaggi – ultimo quello di Nbc e Wall Street Journal – gli davano già una quota di intenzioni di voto buona, con uno zoccolo duro intorno al 15%, prima ancora di scendere in lizza. A dissuaderlo dal correre, secondo alcuni osservatori, potrebbe avere contribuito l’ottima prestazione nel dibattito televisivo fra candidati democratici della scorsa settimana dell’ex first lady: il rilevamento Nbc/WSJ la dà ora al 49% e in crescita, contro il 29% in calo di Sanders.

Un po’ scontate le reazioni al suo ‘no’. Hillary lo definisce “un buon amico” e “una fonte d’ispirazione”. E il battistrada repubblicano Donald Trump fa finta di tirare un sospiro di sollievo: “Meglio contro Hillary che contro Biden” (tanto lui alla nomination non ci arriva). (fonti varie - gp)

mercoledì 21 ottobre 2015

MO: Alta Tensione, l'alba di una nuova Intifada

Sorgente di vita, RaiDue del 19/10/2015

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-85d1c33a-c780-430f-8d6c-8f26030882d1.html

Abstract - Cresce il clima di tensione in Israele: i disordini sulla Spianata delle Moschee e gli attacchi ai civili un po' ovunque, a Gerusalemme, Tel Aviv, in CisGiordania. E' l'inizio di una nuova Intifada? Le opinioni di Giampiero Gramaglia, dell'Istituto Affari Internazionali, e di Antonio Polito, vice-direttore del Corriere della Sera

Canada/Svizzera: 'figlio di' è bello e vince

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/10/2015

‘Figlio del leader che fu’ è bello e vince. Non solo in Corea del Nord, dove i Kim sono dinastia già da tre generazioni; o nelle satrapie dell’ex Urss. Vale pure nelle più radicate democrazie occidentali. E, in Canada, Justin Trudeau smentisce la sensazione il ‘figlio di’ sia fenomeno di destra: nel solco del padre, il mitico Pierre Trudeau, che fu a del governo dal 1968 al ’79 e poi dal 1980 all’ ’84, Justin strappa il Paese al conservatore ‘bushiano’ Stephen Harper e riconduce la politica canadese nel suo alveo moderatamente progressista.

Il successo di Justin in Canada, più netto nei risultati che nelle previsioni, segue di un giorno quello in Svizzera di Magdalena Martullo-Blocher, la 'Marine Le Pen svizzera', per analogie politiche, ma anche perché entrambe ‘figlie di’. Le legislative di domenica in Svizzera hanno visto la vittoria della destra populista e anti immigrazione dell’ Svp/Udc: Magdalena, battendo i pronostici, è stata eletta per la prima volta nel Consiglio nazionale per il cantone dei Grigioni.

Canada, Svizzera, Francia. Ma il ‘figlio di’ va di moda anche negli Stati Uniti, dove due aspiranti alla nomination repubblicana sono ‘figli d’arte’: Jeb Bush, figlio del 41° presidente (e fratello del 43°, per fare buon peso) e Rand Paul, figlio di Ron, più volte in lizza per la Casa Bianca (senza mai spuntarla). Aria di famiglia tira anche fra i democratici: la favorita alla nomination Hillary Rodham Clinton, ex segretario di Stato, è la moglie di Bill Clinton, 42o presidente dal 1993 –quando battè Papà Bush- al 2001.

Il successo di Justin sana un’anomalia, perché era sorprendente che il Canada, un pezzo d'Europa trapiantato nel Nord America, che i cittadini statunitensi hanno usato come terra rifugio ai tempi della Guerra del Vietnam e cui guardano con diffidenza per certe sue inclinazioni 'socialiste', come, ad esempio, il sistema sanitario, con le sue stranezze, dal bilinguismo alle pulsioni indipendentiste, oggi molto attenuate, del Quebec, fosse governato così a lungo da un ‘neo-cons’ come Harper. Prima di lui, la storia dei primi ministri canadesi nel secondo dopoguerra è un'alternanza, molto anglo-sassone, tra liberal e conservatori sì, ma progressisti fin dal nome del loro partito.

Justin è nel solco del padre, che fu leader di spessore mondiale, più in sintonia con Jimmy Carter che con Ronald Reagan. Justin, 43 anni, ha pure una madre importante: Margareth Joan Sinclair, è donna di cultura e di mondo; e i Trudeau furono coppia da gossip 'ante litteram' (lei ebbe una storia con Ted Kennedy, prima di frequentare i Rolling Stones, pare anche Mick Jagger).

La vittoria dei liberali sui conservatori è netta: 184 seggi da 34, maggioranza assoluta dei 338 seggi, eleggendo deputati in tutte le 10 province e i tre territori; contro 99 seggi (da 154). Trudeau vuole ristabilire buoni rapporti con l'amministrazione Obama, ma vuole ritirare il Canada dalla missione di combattimento contro il sedicente Stato islamico, concentrando l'azione internazionale su temi genuinamente canadesi come aiuti umanitari e cambiamento climatico.

Diverso spessore hanno in Svizzera Magdalena e suo padre Christophe Blocher, fondatore e leader dell'Svp/Udc. Come in Francia Marine è figlia del fondatore e leader del Fn, Jean.Marie Le Pen. Se le analogie politiche vanno oltre -entrambi i movimenti sono anti-immigrazione-, quelle personali si fermano lì: Marine ebbe una vocazione politica precoce, mentre Magdalena l’ha scoperta a 46 anni, dopo tre figli e una carriera da manager e imprenditrice; e Marine catalizza più attenzioni del padre, mentre Magdalena non ne ha il carisma. Nazionalista, populista, ultra-conservatore nel sociale e liberale in economia, l'Svp/Udc giudica "di sinistra" il programma del Fn perché "favorevole all'influenza dello Stato in economia".

Usa 2016: democratici, aspettando Biden se ne va Jim Webb

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net

Aspettando l’annuncio della decisione del vice-presidente Joe Biden, se scendere in lizza o meno, gli aspiranti alla nomination democratica per Usa 2016 restano in quattro –contro i 15 repubblicani- (anche se, in realtà, sono solo due): l’ex senatore della Virginia Jim Webb, costantemente in coda nei sondaggi da quando era molto discretamente sceso in campo nel luglio scorso, s’è ritirato, adducendo “una incompatibilità di visione” con il partito. Webb non ha però escluso di poterci provare da indipendente: “Il nostro processo politico è bloccato, c’è bisogno di un uomo onesto”, che sarebbe ovviamente lui, ha detto, rendendo ufficiale il ritiro.

Webb, 69 anni, lascia senza che la stragrande maggioranza dei cittadini americani si sia accorto della sua presenza: è stato quasi invisibile per tutta la campagna e il dibattito in diretta televisiva della scorsa settimana non gli aveva dato più spessore (lui s’era poi lamentato del trattamento non equo riservatogli dal moderatore, il giornalista della Cnn Anderson Cooper).

Si perpetra così la maledizione che non vuole un ex combattente del Vietnam alla Casa Bianca: non ci sono riusciti neppure John Kerry e John McCain, arrivati alla sfida decisiva, mentre gli imboscati Bill Clinton e George W. Bush sono stati presidenti. Ex segretario alla Marina, Jim Webb era stato il primo, nel novembre scorso, un anno fa, a creare un comitato preparatorio della sua candidatura.


Adesso restano in lizza fra i democratici Hillary Rodham Clinton e Bernie Sanders, gli unici due ben quotati nei sondaggi, oltre agli ex governatori del Maryland Thomas O’Malley, che fu pure sindaco di Baltimora, e di Rhode Island Lincoln Chafee, che è stato pure senatore. Aspettando, naturalmente, le decisioni di Biden. (fonti vv - gp)

martedì 20 ottobre 2015

Canada: Trudeau figlio batte i conservatori e riporta al potere i liberali

Scritto per La Presse il 20/10/2015

Per molti versi, il Canada è un pezzo d'Europa trapiantato nel Nord America. I cittadini statunitensi lo hanno usato come terra rifugio ai tempi della Guerra del Vietnam - ci andavano per sottrarsi all'arruolamento - e lo guardano spesso con diffidenza per certe sue inclinazioni 'socialiste', come, ad esempio, il sistema sanitario, molto più simile ai nostri europei che a quello Usa (lo raccontava bene un bel film sull'eutanasia di Denys Arcand, Le invasioni barbariche, premio  Oscar 2003).

Con tutte le sue stranezze, a partire dal bilinguismo e dalle pulsioni indipendentiste, oggi molto attenuate, del Quebec, appariva sorprendente che il Canada fosse governato da nove anni da un conservatore 'alla Bush', fuori tempo, come Stephen Harper. A confermare il loro sfalsamento rispetto agli Stati Uniti, con cui hanno un rapporto simile a quello dei belgi verso la Francia, i canadesi elessero Harper nel 2006, quando ormai gli americani si erano stancati di Bush, e lo rielessero - dandogli pure la maggioranza assoluta - nel 2011, quando alla Casa Bianca c'era già, e da tempo, Barack Obama.

Prima di Harper, la storia dei primi ministri canadesi nel secondo dopoguerra è un'alternanza, molto anglo-sassone, tra liberal e conservatori sì, ma progressisti fin dal nome del loro partito. La vittoria, nelle politiche di lunedì, del Partito liberale di Justin Trudeau riporta, quindi, la politica canadese nel suo alveo tradizionale: Justin si muove nel solco del padre, quel Pierre Trudeau che fu a capo del governo del Paese a due riprese, dal 1968 al 1979 e di nuovo dal 1980 all' '84.

Ma non solo del padre Pierre è figlio Justin, 43 anni, cui il quasi coetaneo Matteo Renzi ha subito 'twittato' gli auguri: sua madre, Margareth Joan Sinclair, è donna di cultura e di mondo; e i Trudeau furono coppia da gossip 'ante litteram' (lei ebbe una storia con Ted Kennedy, prima di frequentare i Rolling Stones, pare anche Mick Jagger).

La vittoria dei liberali sui conservatori, pronosticata nei sondaggi, nonostante una partenza lenta nella campagna elettorale, è stata netta a spoglio ultimato. I iberali hanno ottenuto 184 seggi, la maggioranza assoluta nel nuovo Parlamento di 338 seggi, eleggendo deputati in tutte le 10 province e i tre territori canadesi e riscattando la disfatta del 2011 -appena 34 seggi-. I conservatori scendono da 159 a 99 seggi. Il New Democratic Party, che all'inizio della campagna era il favorito, ottiene 44 seggi, 50 in meno di quelli che aveva. Alla fine, Harper, 56 anni, ha ammesso la sconfitta.

Il programma di governo dei liberali prevede investimenti in infrastrutture per stimolare la crescita economica, cercando nel contempo di ridurre il debito. Sul fronte estero, Trudeau intende ristabilire buoni rapporti con l'amministrazione Obama, ma vuole ritirare il Canada dalla missione di combattimento contro il sedicente Stato islamico, concentrando l'azione internazionale su temi genuinamente canadesi come aiuti umanitari e cambiamento climatico.

Nelle ultime battute della campagna elettorale, Harper ha cercato di spaventare l'elettorato, dicendo che il ritorno al potere dei liberali avrebbe comportato un ritorno alla corruzione del passato, dopo gli scandali che li travolsero nel 2005. Ma la mossa è stata un boomerang: anche i conservatori oggi devono fare i conti con una serie di scandali. Pure la decisione di trasformare in una questione elettorale l'uso del velo islamico ha screditato i conservatori, condannandoli alla sconfitta.

Usa 2016: democratici; Biden, scelta fatta, ora annuncio vicina

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 20/10/2015

La Casa Bianca non si sbilancia, anche se concede al vice-presidente il minimo sindacale: Joe Biden sarebbe un presidente “capace” ed “efficace”, dice il portavoce Josh Earnest. E ci mancherebbe altro!, non dirlo significherebbe che Barack Obama s’è scelto come ‘numero due’ un politico inetto ed inefficiente. Però, da lì non viene nulla che lasci trapelare se Biden ha già deciso e –soprattutto- che cosa ha deciso, se candidarsi o meno.

La decisione sarebbe già stata presa, secondo la Fox, e sarà annunciata entro mercoledì, secondo la Nbc. Tre fonti anonime avrebbero confermato al corrispondente Fox dalla Casa Bianca, Ed Henry, l’intenzione del vice di Obama di scendere in campo.

Il presidente è sempre parso ‘camminare sulle uova’, quando si tratta della candidatura di Biden. Ancora venerdì, in conferenza stampa, aveva detto che Joe "prenderà la sua decisione e io voterò come ogni altro cittadino, con un voto segreto. Non ritengo al momento di dovere divulgare la mia preferenza".

Nessun endorsement, quindi: una scelta di neutralità in cui molti leggono un segno della riconoscenza che Obama deve ai Clinton per il loro appoggio durante la sua presidenza e, ancor più, nella campagna 2012.

Della possibilità e, progressivamente, dell’imminenza della decisione di Biden si parla dall’estate. I media hanno segnalato vertici di famiglia dei Biden sia il week-end del 10 e 11 ottobre che l’ultimo. E la Cnn sostiene che Biden avrebbe "personalmente" fatto una serie di telefonate a strateghi del partito di Iowa, New Hempshire e Carolina del Sud –i tre Stati che aprono la stagione delle primarie- "chiedendo come, e non se", lanciare la campagna per le presidenziali del 2016.

Il vice presidente avrebbe inoltre fatto sapere che i suoi familiari sostengono la sua candidatura a Usa 2016. "La sua famiglia è con lui e lui lo vuole fare", dice alla Cnn un democratico di alto profilo che gli ha parlato. La decisione di correre per la presidenza è spesso collegata a una richiesta in tal senso che gli avrebbe fatto il figlio Beau, prima di morire di cancro la scorsa primavera.

A indurre Biden a stringere i tempi, avrebbe contribuito l'ottima performance di Hillary Clinton nel primo dibattito televisivo democratico: se l’ex first lady riprende slancio, le chances di Biden si riducono. (fonti vv - gp)

Usa 2016: sondaggi per Hillary contraddittori dopo dibattito, crescita o stallo

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 20/10/2015

I sondaggi concordano sul fatto che Hillary Rodham Clinton abbia vinto il primo dibattito televisivo fra i candidati democratici alla Casa Bianca, ma sono contraddittori sull'impatto della prestazione. Secondo un rilevamento Cnn/Orc, non è servita a Hillary per rilanciare la sua popolarità; secondo uno Reuters/Ipsos, sì.

Per Cnn/Orc, il 62% degli spettatori ha giudicato l’ex first lady vincitrice del confronto televisivo, ma il suo sostegno fra i potenziali elettori democratici resta al 45%, contro il 29% del suo rivale Bernie Sanders (che ha invece guadagnato 5 punti). Il vice-presidente Joe Biden, che non ha ancora annunciato la sua candidatura, gode di un 18% di favori, Gli altri candidati non superano l’1% .

Ma il sostegno a una candidatura di Biden appare in calo rispetto all’estate: ad agosto, più della metà degli intervistati auspicavano che scendesse in campo, ora sono solo il 47%. E se Biden non corresse, Hillary amplierebbe il suo vantaggio di Sanders, portandolo a 23 punti.

Per Reuters/Ipsos, Hillary fa un balzo in avanti di 10 punti al 51% e Sanders resta al 27%. Biden, invece, perde sei punti, dal 19 al 13%. La differenza molto netta può dipendere dal campione o anche dalle modalità di raccolta dei dati.

Il sondaggio Cnn/Orc dice che Hillary, Biden e Sanders batterebbero tutti Donald Trump, attuale battistrada repubblicano, in una eventuale sfida per la Casa Bianca. Ma solo il vice presidente riuscirebbe a battere un altro potenziale rivale repubblicano, l’ex neuro-chirurgo Ben Carson.

Trump perderebbe di 5 punti con la Clinton, di 9 con Sanders e di 10 con  Biden. Contro Carson, invece, la Clinton è dietro di un punto e Sanders di due, mentre Biden lo supera di 8 punti.

Giorni fa, un rilevamento della Quinnipiac University, antecedente aò dibattito democratico, confermava il momento difficile dei candidati ‘istituzionali’ di questa campagna, Hillary Clinton e Jeb Bush. Per quel sondaggio, Biden se la caverebbe meglio della Clinton contro tutti i principali potenziali candidati repubblicani (ma anche la Clinton li batterebbe tutti), mentre fra i repubblicani la quota di Jeb resta sotto al 7%, costantemente dietro il trio dell’anti-politica, Trump, Carson e l’ex ceo di Hp Carly Fiorina. (fonti vv - gp)

lunedì 19 ottobre 2015

Usa 2016: i conti in tasca ai candidati, Wall Street sostiene gli anti-Trump

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 19/10/2015

Uno dei dilemmi delle campagne elettorali negli Stati Uniti è se contano più i favori nei sondaggi o i soldi in cassa. E’ n po’ la storia dell’uovo e della gallina: se non sei su nei sondaggi, non attiri finanziamenti; e se non attiri finanziamenti, non hai modo di andare su nei sondaggi. Però, se non c’è dubbio che alla fine si contano i voti, e non i soldi spesi o che restano in cassa, è altrettanto vero che ci sono fasi della campagna in cui attirare i donatori pesa forse più che attirare gli elettori.

E’ quello che sta avvenendo a un anno abbondante dal voto dell’8 novembre 2016 e che continuerà ad avvenire almeno fin quando, con le primarie nello Iowa il 1° febbraio e nel New Hampshire il 9, si cominceranno a contare i voti e i delegati alle conventions.

I dati appena resi pubblici dalla Federal Electoral Commission (Fec) confermano l’impressione che Wall Street è sempre più preoccupata dall’eventualità che Donald Trump ottenga la nomination: l’avanzata del magnate del mattone, inizialmente considerata un fuoco di paglia, è un incendio, che la finanza americana cerca di spegnere foraggiando i suoi rivali.

"Ho avuto quattro pranzi con alcuni investitori ad agosto - ha raccontato tempo fa a Politico il vice-presidente di Blackstone Byron Wien -. Al primo, tutti pensavano che Trump sarebbe crollato, ma entro l’ultimo hanno iniziato a prendere la situazione sul serio", perché la campagna dello showman “tocca frustrazioni molto reali” e lui “è un manipolatore dei media". Con Trump, succede quello che in Italia succedeva con la Dc e più tardi con Berlusconi: nessuno diceva di votarli e nessuno conosceva qualcuno che li votasse, ma loro vincevano le elezioni.

A Wall Street – riferiva un’altra fonte, sempre a Politico – c’è “un misto di shock e smarrimento”: la sicurezza che alla fine la spunterà un candidato dell’establishment vacilla. E Trump non fa nulla per rasserenare la finanza, che sa nemica. A ‘Face the Nation’ sulla Cbs, s’impegna ad appesantire le tasse ai “ragazzi degli hedge funds”, che sono i ‘cocchi’ dei suoi rivali: con le loro donazioni, “loro hanno il pieno controllo di Hillary, di Jeb e di altri candidati … La mia campagna elettorale è autofinanziata: le uniche persone che hanno il controllo su di me sono i cittadini americani".

Ma un esperto di presidenziali suggerisce: "Quelli che sono preparati per correre una maratona beneficeranno del ritiro di Trump al 35o chilometro". Tradotto in termini di campagna, vuol dire che fino ad aprile Donald sarà in lizza; e che, poi, magari, potrebbe decidere di correre da solo. Come Ross Perot. Che non vinse, ma fece perdere George Bush.

La situazione si riflette bene nei dati trasmessi da tutti i candidati alla Fec entro il 15 ottobre: ne emerge proprio che i grandi donatori continuano a puntare sui candidati ‘istituzionali’ ed a sperare in un loro successo.

In campo democratico, Hillary Clinton e il suo rivale Bernie Sanders, di cui si direbbe che nessuno potrebbe scommettere un penny sulla sua elezione a presidente Usa, sono davanti a tutti gli aspiranti alla nomination repubblicana, nella classifica delle donazioni avute nel trimestre luglio/settembre. Una ragione -aritmetica, non politica- c'é: i democratici in lizza sono, di fatto, solo loro due, mentre i repubblicani sono ancora 15 e le donazioni sono, quindi, molto più distribuite.

Hillary è, in assoluto, quella che incassa di più, ma pure quella che spende di più, intorno ai 30 milioni di dollari in entrata e oltre i 26 in uscita, mentre l'altro democratico, Sanders, incassa un po' meno e spende molto meno. Un'eventuale discesa in campo del vice-presidente Joe Biden ri-orienterebbe i flussi di denaro.

In campo repubblicano, Trump – lo abbiamo già visto - sta spendendo del suo e non sollecita fondi: la sua campagna è quasi in pareggio, avendo raccolto 5,8 milioni di dollari e avendone spesi 5,6 (però nella sua dichiarazione non figurano spese per lo staff, che di solito sono la voce più grossa). Nel terzo trimestre 2015, Trump ha ricevuto quasi 4 milioni: donazioni non sollecitate da circa 75 mila persone.

Lo showman non ha bisogno di pagarsi pubblicità perché radio e tv gliene fanno ampiamente, dando grande rilievo alle sue sortite, che sono veri e propri spettacoli. Per cui, le voci di spesa maggiori sono i cappelli e le magliette con il suo logo che regala ai suoi comizi (825 mila dollari) e i viaggi co il suo jet privato (725 mila dollari). Difficile però dire, da questo quadro se la campagna di Trump stia davvero 'stallando', come molti sostengono, o se abbia ancora margini di crescita.

I dati della raccolta dei fondi riportano decisamente in primo piano Jeb Bush. L'ex governatore della Florida, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti, va sempre male nei sondaggi, ma di soldi continua a metterne un sacco in cassa.

Nell'estate, Jeb era un po' sparito dai radar dell'informazione, offuscato dalle mediocri prestazioni nei dibattiti televisivi e dagli alfieri dell'anti-politica repubblicani, Trump, Ben Carson il nero e Carly Fiorina la donna. I dati ora pubblicati lo confermano come uno degli aspiranti alla nomination più credibile, agli occhi dei domatori.

Bush ha raccolto 13,4 milioni di dollari nel terzo trimestre: fra i candidati repubblicani, è secondo solo a Carson (l'ex neurochirurgo iper-conservatore è arrivato a 20 milioni). Il senatore del Texas Ted Cruz ha raccolto 12,2 milioni, l'ex ceo della Hp, la Fiorina, 6,8 milioni; il senatore della Florida Marco Rubio 6 milioni, il senatore del Kentucky Rand Paul 2,5.

Un'altra prospettiva è quella dei soldi in tasca ai candidati, che misura il rapporto tra quanto raccolgono e quanto spendono. Bush, che ha una campagna molto dispendiosa, e che partì in giugno con una dote di 114 milioni, ha 10,3 milioni, meno di Rubio (11), Carson (11,5), la Fiorina (13,5).
Una terza prospettiva è quella dei sondaggi. Qui Trump è stabile oltre il 20%, Carson sopra il 19%, Rubio intorno al 10%, la Fiorina, lanciata dal dibattito di settembre, all'8,3%, Jeb al 7,3%, gli altri più giù.

Ma i dati del terzo trimestre significano che il partito e i suoi sostenitori finanziari tradizionali non si riconoscono di certo nel 'trio dell'anti-politica', anzi lo temono; e continuano ad aggrapparsi a Bush. Per arrivare alla Casa Bianca, o almeno per evitare l'8 novembre 2016 una sconfitta rovinosa. (fonti varie - gp)