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martedì 30 giugno 2015

Grecia/Ue: una giornata complicata, tra speranze e docce fredde

Scritto per La Presse il 30/06/2015

Una giornata complicata, quella che potrebbe essere l’ultima della Grecia nell’euro prima del default. Perché, alla mezzanotte e un minuto, Christine Lagarde e i suoi palafrenieri dell’Fmi potrebbero bussare alla porta del governo di Atene ed esigere il pagamento della fetta di debito loro dovuta, 1,6 miliardi di eruo. Sarebbe il default: la Grecia fallita, i mercato esposti alla speculazione, l’euro scheggiato, l’Ue nel panico. E se l’Fmi ripassasse lunedì prossimo, al posto di una valigetta di euro potrebbero forse dargli una vagonata di dracme.

Ma sicuramente non succederà. In questo complicato 30 giugno, c’è stato di tutto. Anche se, alla fine, non è successo (ancora) nulla: tra Bruxelles ed Atene, tra le capitali dell’euro, s’intrecciano messaggi, inviti al negoziato, appelli alla flessibilità. Bene o male, tra risse pubbliche e telefonate riservate, la Grecia e i partner dell’Ue si parlano e si scambiano messaggi e proposte. E, male che vada, l’Ue, la Bce e l’Fmi attenderanno l’esito del referendum di domenica, prima di tirare eventualmente le somme. Non induce alla flessibilità verso Atene lo studio di un prestigioso ‘think tank’, il Bruegel che dimostra come il rimborso del debito, di gran lunga il più oneroso dell’eurozona  in percentuale del Prodotto interno lordo, costa ad Atene appena poco più del 2% l’anno del Pil, contro oltre il 4% alla Spagna e il 5% all’Italia.

Nessuno ha fretta che la Grecia vada in bancarotta, anzi nessuno vuole che ciò succeda. Anche se Atene, in questa trattativa, ha molte ragioni, ma pure moltissimi torti: ha truccato per anni i conti e continua a fare il gioco delle tre carte. Il premier Matteo Renzi dice: “Non abbiamo tagliato le baby pensioni noi per lasciarle ai greci”. Il ministro PierCarlo Padoan assicura che l’Italia è solida e che non teme il contagio, ma nessuno ha voglia di sperimentare se e quanto ciò sia vero.

Da Bruxelles e da Atene, arrivano notizie di proposte e di contorproposte ‘last minute’. Dopo il giorno dello scambio di reciproche accuse tra il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e il premier greco Alexis Tsipras sarebbe il giorno dello scambio di cartuccelle: Tsipras, che parla al telefono con Juncker e con il presidente della Bce Mario Draghi, chiede l’intervento del nuovo fondo salva Stati e una dilazione dei pagamenti.  Ma da Berlino, dove oggi sarà il premier Renzi, la cancelliera Angela Merkel blocca l‘ ‘ammoina’: “Fermi tutti fino al referendum”. Di lì si riparte, insieme o ciascuno per conto suo.

a scommessa di Tsipras di chiedere ai greci di pronunciarsi con il referendum – scelta più che legittima -, di farsi dire di no e di tornare rafforzato dal voto democratico al tavolo della trattativa potrebbe rivelarsi un azzardo mal calcolato: la vittoria dei no potrebbe semplicemente mettere la Grecia ‘fuori’, almeno dall’euro. “Se vince il no, si torna alla dracma”, dice Renzi. E il ritorno alla dracma non lo vuole nessun ad Atene, dove i cittadini, con la corsa ai bancomat, dimostrano di preferire cento euro oggi a un milione di dracme domani.

Le indiscrezioni in arrivo dalla Grecia migliorano al mattino l’umore dei mercati, che poi chiudono negativi. In Grecia le banche e la Borsa continuano a rimanere chiuse e ci sono voci di un irrigidimento sul controllo dei capitali in atto nel Paese. Ma c’è chi progetta di sfruttare la tensione e la paura di questi giorni per rilanciare l’integrazione: "Qualunque sia la soluzione –avverte Padoan- è indispensabile che l'Unione monetaria abbia un sussulto positivo di integrazione per metterla al riparo da problemi derivanti da shock … Le prime misure da prendere riguardano il completamento dell'Unione bancaria: senza la moneta comune non può funzionare bene".

Grecia/Ue: l’Fmi alla porta? Tsipras non ha più euro, e non ha ancora dracme

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 30/06/2015 e in altra versione per Metro dello 01/07/2015

Atene, mezzanotte appena passata: buio pesto fuori, dopo i tagli alla spesa pubblica. Qualcuno bussa alla porta: “Toc Toc”, senza violenza, ma con decisione; e ancora bussa: “Toc Toc”. “Chi è?”, chiedono, chiusi nella sede del Governo, Tsipras e Varoufakis. Aspettano, temono, che da un momento all’altro Christine Lagarde e i funzionari dell’Fmi, scoccate le 24.00 – ma quali?; di Atene?, o di Bruxelles?, o di Washington?- si presentino a esigere il pagamento della somma loro dovuta, che i greci non hanno. Sarebbe il default: la Grecia fallita, i mercato esposti alla speculazione, l’euro scheggiato, l’Ue nel panico. E se l’Fmi ripassasse lunedì prossimo, al posto di una valigetta di euro potranno forse dargli una vagonata di dracme.

Fiction pura, pur se verosimile. E’ altamente improbabile che qualcosa del genere accada: la mezzanotte, anche quella di Washington, che arriva alle 07.00 di Atene, passerà senza che nessuno si presenti ad esigere. Nessuno ha fretta che la Grecia vada in bancarotta, anzi nessuno vuole che ciò succeda. Anche se Atene, in questa trattativa, ha molte ragioni, ma pure moltissimi torti: ha truccato per anni i conti e continua a fare il gioco delle tre carte. Una volta tanto, il premier Renzi ci azzecca quando dice “Non abbiamo tagliato le baby pensioni noi per lasciarle ai greci”. Ma se anche il ministro Padoan assicura che l’Italia è solida e che non teme il contagio, nessuno ha voglia di sperimentare se e quanto ciò sia vero.

Bene o male, tra risse pubbliche e telefonate riservate, la Grecia e i partner dell’Ue si parlano e si scambiano messaggi e proposte. E, male che vada, l’Ue, la Bce e l’Fmi attenderanno l’esito del referendum di domenica, prima di tirare eventualmente le somme.

Ma la scommessa di Tsipras di chiedere ai greci di pronunciarsi con il referendum – scelta più che legittima -, di farsi dire di no e di tornare rafforzato dal voto democratico al tavolo della trattativa potrebbe rivelarsi un azzardo mal calcolato: la vittoria dei no potrebbe semplicemente mettere Grecia ‘fuori’, almeno dall’euro. E il ritorno alla dracma non lo vuole nessun ad Atene, dove i cittadini, con la corsa ai bancomat, dimostrano di preferire cento euro oggi a un milione di dracme domani.

Certo, non è questa l’Unione che vogliamo, dove la solidarietà non sta di casa. Ma la via per uscirne è più integrazione, non meno: Grecia contro Unione, dracma contro euro sono derby che giocare è sbagliato. Quale che sia il risultato, anche un pareggio, ci perdiamo tutti.

lunedì 29 giugno 2015

Grecia/Ue: tra risse verbali si cerca una “soluzione ponte”

Scritto per La Presse il 29/06/2015


Si lavora a una “soluzione ponte”, che consenta alla Grecia di guadare i cinque giorni tra la mezzanotte di domani, 30 giugno, quando diventerà insolvente nei confronti del Fondo monetario internazionale, e la sera del 5 luglio, quando si saprà se i greci avranno, o meno, detto sì al pacchetto di misure loro proposto dalle Istituzioni internazionali, in cambio della prosecuzione del piano di aiuti.

Un sì lascerebbe Atene nell’euro e nell’Ue. Un no la spingerebbe in default fuori dall’euro e magari pure dell’Ue. Ma perché la Grecia non affoghi nel guado, condizione essenziale è che l’Fmi non si presenti subito mercoledì ad esigere il suo credito. Fonti del Fondo lasciano sperare che ciò non avvenga.

E mentre scoppia una rissa verbale tra il premier greco Alexis Tsipras ed il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, di “soluzione ponte” parla il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. Le borse europee ci credono poco e chiudono tutte in profondo rosso, Milano addirittura a -5,17%, mentre lo spread è a 160. Anche l’Asia e New York vanno giù, mentre dollaro, yen e oro, beni rifugio, vanno su.

Se le parole di Tsipras e di Junker sono pietre, i leader dell’Eurozona in realtà lavorano sotto sotto a una soluzione, perché, afferma la cancelliera tedesca Angela Merkel, che riunisce a consulto i partiti tedeschi, “l’Ue non può abbandonare i valori della solidarietà e della responsabilità” ed è pronta “a negoziare ancora, se Tsipras lo vuole”: “Se fallisce l’euro – avverte la Merkel -, fallisce l’Ue”.

Il presidente Usa Barack Obama, che aveva ieri discusso con la cancelliera, telefona oggi al presidente francese François Hollande: l’America vuole un’Europa economicamente stabile e solida; e  teme che una Grecia slegata dall’euro e dall’Ue e disperata possa giocare la carta russa e legarsi a filo doppio, economicamente e politicamente, a Mosca. La Russia, dal canto suo, mostra una carità un po’ pelosa, esprimendo “preoccupazione” per le sorti dell’Ue. La Cina, invece, è sicura che la crisi non cambierà “lo status dell’Unione di potenza mondiale”.

Il premier italiano Matteo Renzi, che da Palazzo Chigi mantiene numerosi contatti, e che mercoledì sarà a Berlino, ‘twitta’ in inglese che il referendum non è un derby tra Esecutivo Juncker e Governo Tsipras, ma tra euro e dracma. E gli stessi greci paiono tifare euro: nella misura del possibile, dopo le restrizioni imposte dalle Autorità finanziarie, continuano a ripulire i loro conti, per non ritrovarsi il 6 luglio con montagne di svalutatissime dracme.

Se dietro le quinte qualcosa si muove, in scena è stallo, anzi scontro. Tsipras chiede tempo al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, Ue dice no a nuove proposte. Juncker replica, in conferenza stampa, agli attacchi di Tsipras, che domenica: accusava l’Ue di volere “soffocare la democrazia”.

Junker dice che il Grexit non è un’opzione, che l’eurozona deve restare a 19, che si vince o si perde tutti insieme. E, fin qui, tutto bene. Ma il presidente si sente “tradito” e ci va giù duro: “Nell’Unione, nessuna democrazia vale più delle altre … Le nostre proposte non sono uno stupido pacchetto d’austerità … Nel pacchetto non ci sono tagli delle pensioni e delle retribuzioni … Atene dica la verità e i cittadini sappiano qual è la posta in gioco … Egoismo e giochi populisti hanno prevalso … “.
Juncker così conclude: “Greci, votate sì e l’eco del vostro voto andrà oltre l’Ue”. Peccato che ci andrà pure se voteranno no, che sarebbe “un no all’Europa”.

E mentre s’avvicina la mezzanotte del 30 giugno e la domenica del referendum, lo spettro del rischio contagio torna ad aleggiare. La Bce è determinata; l’Italia è forte perché ha già fatto qualche riforma; la Grecia è appena il 3% dell’eurozona; ma, con un no greco, l’euro non apparirebbe più irreversibile e basterebbe uno scricchiolio a spaventare i mercati e scatenare la speculazione.

domenica 28 giugno 2015

Grecia: l'Ue si prepara al default, ma non è rassegnata; manovre in corso

Scritto per La Presse il 28/06/2015

L’Unione europea si prepara al default greco e al Grexit, che sarà, se ci sarà, la scossa sismica più forte mai avvertita nella sua storia, peggiore della ‘sedia vuota’ francese negli Anni 60, della ‘secessione’ della Groenlandia negli Anni 80, o della Grande Crisi del 2008. Lo fa, a Bruxelles e nelle capitali, con un apparente distacco, e senza dare l’evento per scontato, nonostante esso appaia per molti versi ineluttabile –anche se l'eurocrazia, nei momenti più difficile, sa avere impennate di fantasia almeno procedurale-.

La direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, da molti considerata la ‘cattiva’  della trattativa, è dispiaciuta per la rottura dei negoziati con Atene, ma spera di riprenderli così che la Grecia possa attuare "riforme strutturali e fiscali appropriate" con “misure di finanziamento e sostenibilità del debito".

Il ministro delle Finanze austriaco, Hans Jörg Schelling, rettifica un'intervista a Die Presse, che gli attribuisce sul web un giudizio sulla “ineluttabilità del Grexit”, cioè dell’uscita della Grecia dall’euro. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha invitato i leader dei maggiori partiti tedeschi, domani, a un consulto d’emergenza sulla Grecia. Il presidente francese François Hollande convoca un Consiglio dei Ministri. Altri Paesi progettano riunioni ad hoc sul ‘caso Grecia’. In serata, il presidente Usa Barack Obama telefona alla Merkel: “E’ importante che Atene possa proseguire sulla strada delle riforme”.

Le mosse di Atene - Il Governo di Alexis Tsipras ha indetto un referendum per il 5 luglio, così che i cittadini possano decidere se accettare o meno le condizioni di salvataggio proposte dai creditori, cui l’Esecutivo s’oppone.

Nell’attesa della consultazione, Ue, Bce ed Fmi non hanno esteso oltre il 30 giugno i programmi d’aiuto previsti: la Grecia, entro martedì, dovrebbe rimborsare un debito all’Fmi. L’Ue ha oggi pubblicato, per un esercizio di trasparenza, le proposte fatte al governo greco.

Il Consiglio greco per la stabilità finanziaria e successivamente il Governo si sono oggi riuniti e hanno discusso dello stato del sistema bancario nazionale.  Istituti di credito e borsa resteranno chiusi domani. Dopo i consulti, Tsipras accusa i partner Ue: “Vogliono soffocare la democrazia”.

L’esito della consultazione del 5 è incerto: sei greci su 10, dicono i sondaggi, appoggiano l’operato del Governo nella trattativa con l’Ue; ma sei greci su 10 paventano l’uscita dall’euro e lo sprofondare del Paese in un baratro di povertà.

Le manovre della Bce - La Banca centrale europea segue l’evolvere della situazione in Grecia, dove la gente continua a ritirare i soldi dalle banche, temendo l’effetto svalutazione con l’uscita dall’euro: la Bce ha deciso di mantenere il livello attuale di liquidità di emergenza per le banche elleniche, ma, in caso di default, fa notare Lorenzo BiniSmaghi, già membro del board della Banca, non potrà più erogare denaro agli istituti di credito.

"Continueremo a lavorare da vicino con la Banca di Grecia e sosteniamo con fermezza l'impegno degli Stati dell’Ue di agire per affrontare le fragilità delle economie della zona euro", assicura il presidente della Bce, Mario Draghi.

I commenti in Italia - In Italia, il Governo e BankItalia ostentano una certa sicurezza che l’impatto del default sarà limitato e che non vi sarà un fenomeno di contagio. Quanto al sistema bancario italiano, l’esposizione verso la Grecia è contenuta –complessivamente un miliardo di euro- e, secondo l’Abi, non dovrebbe creare difficoltà.

Nei commenti politici visioni apocalittiche da fine Ue e fine euro s’intrecciano con analisi meno drastiche. Gli euroscettici denunciano il fallimento dell’integrazione, mentre Debora Serracchiani, vice-segretaria del Pd, afferma che “il Paese è forte e non teme contagi”.

Forza Italia e altre sigle dell’opposizione chiedono al Governo di riferire in Parlamento. Dal Pd, Andrea Cozzolino, un europarlamentare, denuncia l’eccessiva durezza dell’Fmi nell'ultima fase della trattativa greca, che ha condotto allo stallo attuale con un vuoto di cinque giorni tra la fine dell’attuale programma di aiuti e il referendum. Lara Comi, eurodeputata di FI, vede il rischio dell’effetto domino.

La mossa del referendum è invece vista con favore da Sel, che alle europee sostenne la lista Tsipras e che appoggia le mosse di Syriza, il partito greco di sinistra radicale, di cui il premier è il leader. Anche l’M5S approva: "Sicuramente è giusto e corretto dare la parola ai cittadini che sono coinvolti in queste manovre autodistruttive e autolesive”.

Terrorismo: l'America è lontana dal sangue degli europei

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/06/2015

Quant’è lontana l’America dall'Europa, traversata dagli incubi del terrorismo. Il giorno dopo l’attacco d’un esaltato nel Sud della Francia, contro un impianto industriale, Parigi avverte “ci saranno altri attentati”; Londra fa sapere d’avere sventato un’azione progettata dallo Stato islamico contro una parata militare; e in Italia il ministro Alfano ammette che “nessun Paese è a rischio zero”.

Gli Stati Uniti non lesinano le dichiarazioni di fermezza e di solidarietà. Ma non si sentono direttamente minacciati e hanno la testa altrove, in questi giorni: all'avanzata dei diritti civili, dopo la sentenza della Corte Suprema che dichiara le unioni omosessuali un diritto costituzionale in tutti gli Stati dell’Unione; e ai rigurgiti di razzismo, contro cui il presidente Obama intona, con voce roca e commossa, Amazing Grace dall’ambone della Chiesa della strage di Charleston, dove si celebrano i funerali delle vittime della strage della scorsa settimana.

Eppure, la guerra al terrorismo è cosa anche loro, soprattutto loro: la coalizione dei volenterosi contro il Califfo l’hanno messa su loro; e i raid aerei dalla ridotta efficacia contro le milizie jihadiste li conducono in massima parte loro. Nonostante ciò, gli americani appaiono, in queste ore, sintonizzati su una lunghezza d’onda diversa dagli europei.

A 500 giorni esatti dall’Election Day dell’8 novembre 2016, Obama fa filotto in politica interna: dopo un tira e molla, il Congresso gli conferisce poteri speciali per condurre i negoziati con l’Ue e l’Asia verso due grandi aeree di libero scambio dell’Atlantico e del Pacifico; e la Corte Suprema prima salva la riforma della sanità, poi dà l’avallo alle unioni omosessuali, che suggellano l’avanzata dei diritti civili posta dal presidente in cima all'agenda del suo secondo mandato.

Obama fa cilecca solo sul controllo delle armi: neppure il massacro di Charleston smuove l’opinione pubblica e la politica in modo determinante. Un po’ ripiegata su se stessi, l’America, sulla scena internazionale, si limita a diligenti compitini: una telefonata di Obama a Putin tiene aperto il dialogo con la Russia; e l’arrivo a Vienna del segretario di Stato Kerry segna l’attesa dell’epilogo dei negoziati sul nucleare con l’Iran.

Anche l’odissea di Kobane, la Stalingrado dei curdi, appassiona poco gli Stati Uniti, che pure armano e foraggiano la controffensiva contro il Califfato. Ieri, i peshmerga avrebbero ripreso il pieno controllo della città al confine tra Siria e Turchia, già conquistata e perduta a più riprese dalle bande jihadiste, che, negli ultimi giorni, erano di nuovo riuscite a penetrarvi, occupando alcuni edifici. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, una fonte non sempre attendibile nei suoi resoconti, gli integralisti sono stati costretti a ritirarsi, anche se vi sarebbero ancora in città sacche di resistenza e combattimenti.

Kobane è il simbolo della resistenza dei curdi al Califfato e della loro lotta per l’indipendenza, verso uno Stato curdo nel Nord della Siria osteggiato dalla Turchia.

L’offensiva delle milizie jihadiste, lanciata giovedì scorso, avrebbe fatto oltre 200 vittime civili. L’avanzata del Califfato conosce, in questi giorni, battute d’arresto, dopo i successi di Ramadi e Palmira. Fermi sul terreno, gli integralisti hanno però lanciato un ‘Ramadan del terrore’ dal Kuwait alla Tunisia all'Europa: in questa guerra, droni e aerei sono americani, ma in prima linea ci siamo ora noi.

sabato 27 giugno 2015

Immigrazione: Ue, accordo al Vertice, ma manca 'chi' e 'quanti'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/06/2015 

Nel giorno in cui attacchi scoordinati del terrorismo integralista fanno decine di vittime in Tunisia, Kuwait e Francia, e amplificano in tutta Europa sentimenti di paura e d’insicurezza, artatamente alimentati dal vociare di chi avalla la falsa equazione “migranti = terrorismo”, suona ancora più stonato e vacuo il farfugliare dell’Unione sulla politica dell’immigrazione. A conti fatti, i leader si dichiarano ovviamente soddisfatti del risultato raggiunto, perché “anche lo scontro è positivo”.

E scontro c’è stato, nella notte tra giovedì e venerdì’, anche se il premier Renzi sostiene di non avere mai alzato la voce. E ieri le notizie degli attentati –le prime dalla Francia- hanno consigliato ai leader di mettere la sordina alle divisioni.

A lavori conclusi, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk annuncia: "Abbiamo concordato che 40 mila persone con diritto d’asilo saranno ricollocate da Grecia e Italia verso altri Stati nei prossimi due anni. I ministri degli Interni definiranno lo schema entro la fine di luglio. Altre 20 mila che attualmente sono fuori dall’Ue saranno reinsediate. In totale, fanno 60 mila persone". Tusk aggiunge: "Tutti gli Stati membri si sono impegnati" a farsi carico del problema, ma molti non intendono accettare rifugiati.

Di positivo, c’è la decisione di ricollocare 40 mila persone giunte dopo il 15 aprile da Siria ed Eritrea in Italia -24 mila- e Grecia -16 mila-. Di negativo, c’è che modi e tempi della ricollocazione restano da definire: non ci sono quote, né vincoli. Ci dovranno pensare i ministri dell’interno dei 28, che si riuniranno a Bruxelles la prossima settimana: Renzi passa così il cerino ad Alfano.

E’ improbabile che basti una riunione per risolvere il puzzle, con Paesi che non ne vogliono sapere: Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca possono chiamarsi fuori, in forza del Trattato; gli Stati dell’Europa dell’Est, dai Balcani al Baltico recalcitrano; e quelli che ci stanno, come la Germania, vogliono decidere loro quanti prenderne. Il 1° luglio, Renzi vedrà a Berlino la cancelliera Merkel.

I leader hanno concesso un’esenzione totale all’Ungheria, che al flusso di migranti via terra vuole rispondere con un muro al confine con la Serbia, e un’esenzione parziale alla Bulgaria.

Dopo la discussione sull’immigrazione protrattasi fino alle 3 del mattino di ieri, Renzi ha ammesso: “Abbiamo sostenuto che l'accordo doveva essere molto più ambizioso rispetto alla cifra di 40 mila. Tuttavia è un primo passo per potere dire che c'è finalmente una politica europea. C’era chi voleva che l'accordo fosse solo 'su base volontaria'. Sono felice che questa espressione non ci sia nel documento ufficiale".

I toni sono stati piuttosto accesi. "La discussione è stata lunga, con momenti di tensione, il che è legittimo", ha spiegato il presidente Hollande. Renzi ha puntato i piedi sui 40 mila. "Se non siamo d'accordo su 40 mila, non siete degni di chiamarvi Europa", ha detto ai suoi colleghi, aggiungendo: "Se questa e la vostra idea di Europa, tenetevela: non è possibile che ci trasformiamo nella patria degli egoismi, o c'è solidarietà, o non stiamo a perdere tempo". Litigano pure Tusk, che chiede l’unanimità, e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che vuole decidere a maggioranza.

Il negoziato sulla Grecia e i litigi sui migranti soffocano il dibattito su altri temi del contenzioso Ue: il referendum britannico prossimo venturo –per evitarlo, Londra chiede di rinegoziare le condizioni di adesione- e la necessità di rafforzare la governance europea. Se ne riparlerà quando l’Unione viaggerà in acque più tranquille, se mai uscirà dai marosi.

venerdì 26 giugno 2015

Usa 2016: - 500, sondaggi, WSJ dà Hillary vincente a mani basse

Scritto per Formiche.net e www.GpNewsUsa2016.eu il 26/06/2015 

A 500 giorni esatti dall’Election Day dell’8 novembre 2016, i sondaggi che si susseguono sono concordi: se si votasse oggi, Hillary Clinton vincerebbe a mani basse, la nomination democratica e la Casa Bianca. L’ex first lady non ha praticamente rivali per la conquista della nomination e non teme nessuno dei potenziali avversari repubblicani. Il Wall Street Journal scrive che Hillary può “dormire sonni tranquilli”. Ma la storia del 2008, quando l’ex first lady partiva già favorita, induce alla prudenza: allora fallì, battuta nelle primarie da Barack Obama. Secondo un un sondaggio WSJ/Nbc Hillary è il candidato preferito dal 75%  dei potenziali elettori democratici. Dietro di lei, al 15%, il senatore del Vermont Bernie Sanders, un indipendente che si autodefinisce socialista. Lontanissimi gli altri rivali interni, tutti fermi a percentuali a numero singolo: Martin O’Malley, ex governatore del Maryland, è al 2%; e l'ex governatore del Rhode Island, Lincoln Chafee, che non ha ancora ufficializzato la propria candidatura, è sotto l'1%. Fra i repubblicani, l’avversario più insidioso per la Clinton è Jeb Bush: in un match che avrebbe sapore di ‘dinasty’ con l’ex segretario di Stato, l'ex governatore della Florida, figlio e fratello del 41° e 43° presidente, è dato al 40% contro il 48%. Il senatore Marco Rubio perderebbe con il 40% contro il 51%; e il governatore del Wisconsin Scott Walker, che non è ufficialmente candidato, perderebbe con il 37% contro il 51%. Per la nomination repubblicana, Bush è favorito, ma di poco, con il 22% delle preferenze, è davanti a Walker (17%) e a Rubio (14%). Ma il campo repubblicano è molto frammentato con 12 candidati già dichiaratisi e altri, come Walker e anche il governatore del New Jersey Chris Christie che stanno per scendere in campo. Tutto ciò oggi: a 500 giorni, che sono però tanti, più di un anno e quattro mesi, dall’Election Day. (fonti varie – gp)

Immigrazione: Vertice, i leader decidono che decidano i ministri

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/06/2015

Una soluzione “rivoluzionaria”. Federica Mogherini non ha paura delle parole, o forse non le misura, quando tratteggia le conclusioni del Vertice dell’Ue sull’immigrazione: “Una soluzione non perfetta – riconosce -, ma comunque rivoluzionaria nell’accogliere il principio di solidarietà". E poco importa che, pochi minuti prima, nello stesso luogo, il presidente dell’incontro, il polacco Donald Tusk, abbia detto papale papale: “Non c’è consenso fra i Paesi dell’Ue sulle quote”.

L’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea mutua la tattica del suo mentore, Matteo Renzi: dà le cose per fatte e poi si vedrà. Il premier, all'arrivo al Vertice, afferma deciso: “L’Italia farà sentire la sua voce”, che, nella cacofonia tra governo e regioni, non è ben chiaro quale sia. Poi, con altrettanta sicumera, nega che la Grecia possa spodestare l’immigrazione dall'agenda della riunione.

Invece, i leader dei 28 cominciano a parlare di Grecia e, fino alle 20.00, non affrontano l’immigrazione. Dove la discussione pare spianata: c’è un documento che riconosce il principio della solidarietà –la ‘rivoluzione’ della Mogherini-, salvo poi delegare la ripartizione ai ministri degli esteri. Come dire che il lavoro più difficile resta da fare.

Sono passati due mesi abbondanti dal Vertice straordinario dell’Unione europea, dopo la sciagura nel Mediterraneo del 18 aprile, la più grave di sempre –centinaia le vittime, forse 900-. Sul tavolo del Vertice, allora, c’erano 10 misure urgenti individuate dalla Commissione di Bruxelles, che hanno poi preso la forma di una Agenda dell’Immigrazione sottoposta ai governi dei 28 e rivista e limata dopo le prime reazioni negative di numerose capitali.

Su quote d’accoglienza, interventi umanitari, missioni contro gli scafisti schiavisti, allestimento di centri di selezione nel Nord Africa degli aspiranti migranti, aiuti per lo sviluppo, a che punto siamo? Qualche passo piccolo è stato fatto: “Più solidarietà, meno tensione”, è la ricetta di Angela Merkel.

Le quote – Si tratta di ripartire fra i 28 in due anni 40 mila richiedenti asilo approdati in Italia e Grecia (rispettivamente 24 e 16 mila) dopo il 15 aprile. Ci sono Paesi che se ne chiamano fuori – Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca hanno il trattato dalla loro – e altri che non ne vogliono sapere – tutti quelli dell’Est Europa, dai Balcani al Baltico-. Poi ci sono quelli che possono starci, ma contestano le cifre o i criteri di ripartizione o eccepiscono sull'obbligatorietà. L’input dei leader dovrebbe servire ai ministri degli esteri dei 28 a chiudere la discussione a luglio, ma le riluttanze restano.

Dublino 2 – Le regole per l’asilo impongono che la richiesta avvenga nel Paese d’ingresso nell’Ue: quindi, per i migranti dei barconi, l’Italia o la Grecia, nonostante nessuno di loro, in pratica, voglia fermarsi in Italia o in Grecia. Vanno cambiate, ma non c’è, al momento, consenso per farlo.

Triton -  Qui, va meglio: i fondi sono stati triplicati, i mezzi moltiplicati, il raggio d’azione esteso. E infatti i salvataggi in mare sono aumentati e le tragedie diminuite, grazie pure ai fattori climatici. Però, tutte le navi, di qualsiasi nazionalità siano, scaricano i migranti raccolti sulle coste italiane.

Missione anti-scafisti – L’operazione è stata approvata e il comando è stato affidato all’Italia. Mancano, però, l’avallo dell’Onu, senza cui l’uso della forza è un atto di guerra, e pure le regole d’ingaggio.

Centri di smistamento – L’allestimento di centri di smistamento dei migranti in Nord Africa, dove funzionari dell’Unione le identifichino e ne accertino il diritto all’asilo, richiede una ‘pacificazione’ della Libia, con un accordo fra i belligeranti. Gli sforzi dell’Onu in tal senso sono finora falliti.

Miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi d’origine – Siamo alle affermazioni di principio. Come per la semplificazione delle concessioni di visti a chi vuole migrare per motivi economici o per ricongiungimento familiare.

giovedì 25 giugno 2015

Wikileaks: Caro Amico ti spia, quando l'America non si fida dell'Europa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/06/2015

“Caro Amico, ti spio. E poiché ti sono molto amico ti spio un poco di più. Ché non sembri che ti considero da meno di quelli che già si sapeva che spiavo un sacco, la Germania – ti ricordi, François, come s’era arrabbiata Angela per il suo cellulare intercettato?- e pure la Gran Bretagna… Noi siamo le potenze nucleari, i Grandi dell’economia occidentale: lascia che rosichino quelli che spiamo di meno, o almeno che non è ancora saltato fuori che lo facciamo. Pensa a come si sentono Mariano o Matteo, che sono fuori da tutto questo”.

“Però, sia chiaro, adesso non lo facciamo più. Perché, come tu sai, François, da quando ci sono io alla Casa Bianca e da quando ho finalmente saputo che cosa combinavamo, grazie a Wikileaks e pure a quel briccone di Snowden, che se lo prendo lo metto dentro, perché qui nessuno me le raccontava certe cose, noi non spiamo più nessuno. Cioè, nessuno degli amici. E non ci spiamo neppure più fra di noi cittadini americani, perché dal 1° giugno il Patriot Act non c’è più e ho messo al suo posto il Freedom Act, che suona molto meglio”.

Brandelli –immaginari, ma forse non troppo- della conversazione telefonica di ieri sera, con cui Barack Obama, presidente Usa, ha cercato di mettere una pezza ai rapporti con la Francia lacerati dalle rivelazioni di Wikileaks, ribadendo –questo è il linguaggio dei rendiconti ufficiali- l’impegno contro lo spionaggio ai danni degli alleati. Martedì, Wikileaks aveva divulgato documenti che provano come dal 2006 al 2001 la Nsa, la National Security Agency degli Stati Uniti, sempre lei, quella di Edward Snowden, abbia spiato tre presidenti francesi, Jacques Chirac, Nicolas Sarkozy e, ovviamente, lo stesso Hollande.

Al telefono, informa un comunicato dell’Eliseo, "il presidente Obama ha ribadito senza ambiguità l’impegno fermo a mettere fine a queste pratiche del passato, inaccettabili tra alleati". Responsabili dell'intelligence di Parigi andranno molto presto a Washington “per approfondire la collaborazione", cioè per cercare di sapere di preciso che cosa è stato loro carpito e, magari, per essere messi confidenzialmente a parte di qualche chicca, un piccolo risarcimento.

Niente di nuovo sotto il sole, in fondo. Da almeno cinque anni, Wikileaks riesce a essere una spina nel fianco dell’America e dell’Occidente, con le sue rivelazioni, alzando, volta a volta, la tensione tra Washington e capitali ‘amiche’. E l’intelligence statunitense continua ad essere appesantita e handicappata della patologica diffidenza verso gli alleati, ma anche tra i vari comparti dell’apparato di sicurezza interno Usa. Non è un segreto, del resto, che l’attacco terroristico coordinato contro l’America dell’11 Settembre 2001 non avrebbe potuto essere realizzato se le agenzie d'intelligence allora operanti –almeno 17- si fossero fidate l’una dell’altra ed avessero incrociato i propri dati.

Uscite le rivelazioni ed accertato che è tutto vero, il copione vuole che il Paese spiato alzi la voce, anche per tamponare le proteste delle opposizioni. C’è stato un consulto d'urgenza del Consiglio di Difesa: al termine, l'Eliseo ha parlato di fatti "inaccettabili tra alleati" e il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, ha convocato in serata l'ambasciatrice americana, Jane Hartley, per chiederle spiegazioni.

Il premier francese Manuel Valls ha riunito il proprio governo e ha insistito che gli Stati Uniti facciano “tutto quanto in loro potere, e velocemente, per riparare il danno provocato alle relazioni" tra i due Paesi, auspicando l’adozione di un “codice di buona condotta” a livello internazionale. La Francia, si noti, è l’unico, fra i tradizionali Grandi, cui gli Usa non hanno mai fatto guerra: era già loro alleata ai tempi del conflitto per l’indipendenza, in funzione anti-britannica.

Se il cancelliere tedesco Angela Merkel venne spiata sin dal 2000, quand’era solo leader della Cdu, per almeno 12 anni, l’Nsa, il grande 'orecchio' americano, ha intercettato per solo 6 anni i presidenti francesi e, con loro, ministri, deputati e diplomatici. Nei file di Wikileaks ci sono diversi numeri telefonici, compreso quello del presidente Hollande, ma pochi fatti nuovi e davvero scottanti. 

La mareggiata sarà forte, ma passerà. Il ministro portavoce del governo francese, Stephane Le Foll, inizia in queste ore una missione negli Usa: "Non c'è ragione" per cancellare il viaggio, ha detto. "Ci sono già abbastanza crisi". Ben più grosse di uno scandalo di spionaggio che, magari, è pure reciproco.

mercoledì 24 giugno 2015

Usa 2016: ambiente, candidati cattolici critici su Enciclica Papa

Scritto per Formiche.net e www.GpNewsUsa2016.eu il 24/06/2015 

I candidati cattolici alla nomination repubblicana non stanno con Papa Francesco sulla ‘Laudato si’, l’enciclica pubblicata la scorsa settimana sui temi dell’ambiente e del clima, ma anche dell’economia sostenibile. Sarà anche perché il  70% dei cattolici statunitensi crede al riscaldamento terrestre, ma solo il 47% lo attribuisce a cause umane, secondo il centro di ricerca Pew: la visione dei cattolici è in linea con quella dei cittadini americani nel loro complesso. "Non mi faccio dettare la politica economica dai miei vescovi, dai miei cardinali o dal mio Papa", aveva detto in modo netto, e giocando d’anticipo sull’uscita dell’enciclica, Jeb Bush. Parlando ad un evento in New Hempshire, l'ex governatore repubblicano della Florida, convertitosi al cattolicesimo 25 anni fa, ha affermato che la religione dovrebbe occuparsi "del renderci persone migliori e meno di questioni che rientrano nell'ambito politico". Nell'enciclica che richiama il Cantico delle Creature di san Francesco d'Assisi il Papa dice che "l'uomo sta distruggendo la terra". Jeb Bush contesta che i cambiamenti climatici siano spiegati da una una scienza esatta. Mesi or sono, quando il pontefice disse che non occorre procreare come conigli, a contestarlo fu l'ex senatore Rick Santorum, anche lui cattolico e in corsa per la Casa Bianca (con un sacco di figli): "Alle volte e' difficile ascoltare quello che dice il Papa", affermò. Alle critiche dei politici cattolici dagli Stati Uniti, ha risposto in modo tagliente il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e dellas Pace: “Neanche i politici dovrebbero parlare di scienza", se valesse il principio della competenza specialistica. "La scienza - ha aggiunto il porporato - è un tema di pubblico dominio, è una questione sulla quale ognuno può entrare. Parliamo tutti di materie di cui non siamo esperti, ma che hanno impatto sulle nostre vite". Quanto alle critiche della Destra americana, creazionista e non evoluzionista, Turkson vi vede "un tentativo di sminuire il legame tra religione e lo spazio pubblico, come se la religione non avesse un ruolo da giocare. Invece, come diceva Benedetto XVI, bisogna incoraggiare il dialogo tra fede e ragione, che è quel che il Papa cerca di fare nella sua enciclica, parlando in collegialità con i vescovi del mondo e dopo aver consultato alcuni scienziati pur senza essere uno scienziato". (fonti varie – gp)

martedì 23 giugno 2015

Afghanistan: maledetta primavera, i talebani colpiscono ancora

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/06/2015

La guerra più lunga che gli Stati Uniti abbiano mai combattuta, senza manco vincerla, ha avuto l’ennesimo sanguinoso sussulto: quasi 14 anni dopo il rovesciamento del regime di Kabul che proteggeva i santuari di al Qaeda, i talebani non solo controllano intere aree del Paese, montuoso enorme poco abitato – più del doppio dell’Italia e meno di 32 milioni di abitanti -, ma sono anche capaci di colpire le istituzioni nel cuore della capitale.

Certo, l’attacco al Parlamento va male: il commando talebano che prende d’assalto la Wolesi Jirga, cioè la Camera del Popolo, da non confondere con la Loya Jirga, l’Assemblea del Popolo a carattere etnico e tribale, e mette a ferro e fuoco la zona attorno all'edificio, non riesce a fare irruzione all'interno.

Sul terreno, uccisi, restano tutti i terroristi, il kamikaze che si fa saltare in aria dentro un’auto vicino al Parlamento e altri sei uomini. Tra le vittime civili, ci sono una donna e un bambino. I feriti sono una quarantina. Tutti illesi, invece, i deputati che vengono portati via e messi in sicurezza fra scene di caos.

L’audacia dell’azione dei talebani, apice dell’ormai tradizionale offensiva di primavera,  conferma quanto sia difficile il compito del governo di Kabul, dopo la conclusione della missione Nato Isaf. Cronache di sangue e di attentati sono quotidiane. Sabato, almeno 14 membri di una stessa famiglia erano stati uccisi da una bomba artigianale esplosa lungo una strada nel distretto di Marja, provincia di Helmand, feudo talebano nel sud del Paese. E proprio ieri i talebani avrebbero preso il controllo del distretto di Dasht-e-Archi nella provincia di Kunduz, a Nord, dopo essersi impossessati sabato del distretto di Chardara.

Con l’Iraq e la Nigeria, l’Afghanistan è il Paese al mondo più esposto ad attacchi terroristici. E, dopo la Siria e il Corno d’Africa, è pure il Paese da cui arrivano in Europa più richiedenti asilo.

La lunga guerra non è dunque bastata a vincere la resistenza dei talebani, che trova linfa nell’ostilità d’una parte dell’etnia pashtun, la maggioritaria in Afghanistan –oltre il 40% della popolazione-, alla presenza straniera e occidentale. Il presidente Obama s’era impegnato a porre termine alla presenza militare americana in Afghanistan a fine 2014, ma la lezione dell’Iraq lo ha poi indotto a cambiare atteggiamento.

Così, a fine 2014, la forza dell’Isaf, che era giunta a impiegare fino a 80 mila uomini, provenienti da una quarantina di Paesi, cessava d’esistere, ma veniva parzialmente rimpiazzata dalla missione Sostegno Risoluto in ambito Nato: 12500 uomini, cui l’Italia partecipa con un contingente di circa 750 unita. Le notizie da Kabul rilanciano la polemica sulla loro presenza: “La Nato ha fallito, ritiriamo il contingente italiano”, chiede il M5S.

La missione Resolute Support ha l’avallo del presidente Ashraf Ghani, eletto tra molte contestazioni l’anno scorso, dopo la controversa previdenza di Hamid Karzai, ed è stata ratificata dal Parlamento di Kabul. Ma questo non vuol dire che sia ben vista dalla popolazione, specie nel Sud e nell’Est, lungo il confine montagnoso con il Pakistan. E le milizie afghane stanno anche divenendo un fattore dello scontro fra sciiti e sunniti che si combatte tra Iraq e Siria.

L'attacco di ieri al Parlamento è iniziato quando un kamikaze al volante di un'auto s’è fatto saltare in aria vicino all'ingresso dell'edificio. Subito dopo l'esplosione, un gruppo di altri sei miliziani s’è trincerato in un edificio adiacente, sparando contro le forze di sicurezza. L'aula dell’Assemblea si riempie di fumo: il presidente, Abdul Rauf Rahimi, dice "è un problema elettrico", ma viene fatto alzare e portato via dalla sicurezza. 

Dell’offensiva di primavera, fanno le spese soprattutto i civili: oltre mille le vittime nei primi 4 mesi di quest'anno, molte di più rispetto allo scorso anno. I tentativi di avviare negoziati con i talebani, incoraggiati dal Pakistan, sono finora falliti: gli insorti pongono come condizione il ritiro preventivo dal Paese delle truppe straniere.

lunedì 22 giugno 2015

Usa 2016: colonne sonore per la Casa Bianca, Trump ‘diffidato’ da Neil Young

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 22/06/2015

Per i protagonisti delle corse alle nomination democratica e repubblicana, la Casa Bianca è anche questione di colonne sonore (e di scelte contestate). Neil Young, cantautore di fama mondiale, canadese e ‘liberal’, se la prende con Donald Trump, miliardario in corsa fra i repubblicani, mentre fa discutere la lista dei motivi di Hillary.

Neil Young non ha per nulla apprezzato che Trump abbia utilizzato una sua canzone per presentare la propria candidatura: in una dichiarazione a ‘Mother Jones’, Elliot Roberts, manager di Young, fa sapere che Young con Trump non c’entra nulla e che non aveva autorizzato l’uso della canzone.

Il musicista, nel 1989, cantò, in ‘Rockin’ in the free world’, l’America dei poveri e degli homeless, criticando con sarcasmo l’allora presidente George Bush, e sostiene la candidatura del senatore Bernie Sanders, democratico del Vermont ‘anti-Hillary’ da sinistra, l’unico politico americano che si auto-definisce ‘socialista’.

Proprio Hillary ha pubblicato una lista di 14 canzoni che intende utilizzare nella campagna: quasi tutte del XXI Secolo, forse per fare un po’ dimenticare l’età della ex first lady, che ha 67 anni. Accanto a pezzi come 'Roar' di Kate Perry, 'Brave' di Sara Bareilles e 'Stronger' di Kelly Clarkson, ci sono però anche due singoli del primo album di American Authors, la banda di New York.

Ovviamente, gli specialisti ne discutono un sacco, mentre i politologi cercano di interpretare l’assenza dalla lista di Beyonce, grande amica della famiglia Obama. Tempo fa, Mike Huckabee, candidato conservatore alla nomination repubblicana, criticò il presidente perché le sue figlie ascoltavano Beyoncé. Ma è difficile credere che la ‘pruderie’ del pastore battista, ex governatore dell’Arkansas, abbia influenzato una donna di mondo come l’ex segretario di Stato. (fonti varie - gp)

domenica 21 giugno 2015

Usa: Obama non disarma l'America, nè ammaina la bandiera dell'odio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/06/2015

Neppure dopo i morti di Charleston, gli americani depongono le armi e ammainano la bandiera dell’odio raziale, quella che Barack Obama vorrebbe riposta nei musei: la bandiera confederata evoca la Guerra di Secessione, Nord contro Sud, abolizionisti contro schiavisti, Lincoln contro Lee. Al Sud, ma non solo, è ancora spesso esibita, sempre abbinata alle note di Dixie, inno non ufficiale della Confederazione. Una bandiera che, fino a venerdì, sventolava sul Parlamento e il Governo della South Carolina, a Columbia, la capitale, nonostante il massacro mercoledì di 9 afroamericani nella storica 'Black Church' della vicina Charleston, mentre le bandiera a stelle e strisce e statale erano a mezz'asta.

Le famiglie delle vittime e le comunità dei neri attraverso l’Unione hanno percepito quello sventolio come “un insulto”. La bandiera confederata, adottata nel 1861 dagli Stati del Sud che volevano staccarsi dal Nord (tra essi, la South Carolina), è tuttora un simbolo per chi crede nella supremazia dei bianchi. E alcuni Stati del Sud ne conservano l’immagine nella loro bandiera o la innalzano ufficialmente per onorare quanti combatterono nella Guerra Civile.

Un clima ‘culturale’ che ha esaltato Dylann Roof, 21 anni, il killer di Charleston che voleva innescare proprio una Guerra Civile: su un suo sito, creato a febbraio, un 'proclama’ della supremazia bianca e decine di foto, con le armi in pugno oppure nei luoghi delle sconfitte confederate.

Fatti che testimoniano come l’America di Obama fatichi a superare i suoi pregiudizi razziali. Anzi, Le Monde rileva che il primo nero alla Casa Bianca non solo non ha attenuato le tensioni razziali, ma, per il solo fatto di essere stato eletto, le ha acuite. Così, c’è stata una scia di morti e di violenze a sfondo razziale, negli ultimi 18 mesi, senza precedenti da anni: neri inermi e per lo più giovani uccisi dalla polizia da New York al Texas, dalla Florida al Missouri.

‘Disarmato’ contro il razzismo, il presidente non è neppure riuscito a smuovere la politica e la gente sulla limitazione delle armi: il diritto a possederle si basa sul II emendamento della Costituzione, che risale addirittura al 1981, ai tempi della Guerra d’Indipendenza. Dopo numerose sentenze talora contraddittorie, nel luglio 2008 la Corte Suprema ha riaffermato tale diritto, attribuendogli un’importanza confrontabile con il diritto di voto e la libertà di espressione, bocciando una legge del Distretto di Columbia, dove sorge Washington, che vietava ai residenti il possesso.

Le regole variano da Stato a Stato e, in genere, nel Sud e nel West sono più lasse che nel Nord-Est. Non è una battuta dire che può essere più facile per un giovane acquistare una pistola che ordinare una birra al bar.

Dopo il massacro di Charleston –nove neri uccisi dal giovane supremazista bianco-, Obama dice: “Sul controllo delle armi, dobbiamo smuovere l’opinione pubblica”, ricordando che se la riforma che lui aveva in mente fosse stata adottata le stragi sarebbero meno frequenti. Il presidente non cede all’idea che Charleston sia “la nuova normalità” e crede che gli americani faranno “la cosa giusta”.

I sondaggi gli danno torto, anche se armi se ne vendono di meno. La Colt, la cui pistola è un’icona del Far West, ha appena chiesto la bancarotta controllata, sommersa dai debiti dopo 179 anni d’attività, e s’è messa in vendita. A gravare sui bilanci, più che le minori vendite ai privati, sono però state mancate commesse federali.

Difeso dalla lobby della National Rifles Association, il diritto al possesso delle armi è radicato nell’opinione pubblica. Il sito FiveThirtyEight scrive che il massacro di Charleston non avrà impatto: i repubblicani non ne vogliono sentire parlare, molti democratici sono contrari o tiepidi. Secondo i sondaggi, il sostegno anti-armi è addirittura andato calando negli ultimi 25 anni. Episodi come le stragi nel liceo di Columbine (Colorado) nel 1998 e nella scuola di Newtown (Connecticut) nel 2012 hanno provocato picchi d’indignazione e di preoccupazione di breve durata, perché dopo due a tre settimane l’attenzione si riassorbe. Fino alla strage successiva.

sabato 20 giugno 2015

Ue/Grecia: mai così ai ferri corti, mai così vicine all'intesa

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 20/06/2015

Il negoziato tra l’Ue e la Grecia non è mai stato così vicino a una conclusione positiva. Perché non è mai stato così vicino a un fragoroso fallimento. Fin quando i Paesi dell’euro e Atene negoziavano ‘pro forma’, convinti gli uni e l’altra che alla fine l’interlocutore avrebbe mollato, le posizioni sono rimaste lontane: uno stucchevole procedere ‘un passo avanti e uno indietro’, con più danni che vantaggi (fra i danni, il deteriorarsi della situazione in Grecia e la perdita di stima e di fiducia, se mai ce n’erano state, tra Yannis Varoufakis e i suoi colleghi).

Cinque mesi di manfrine e di ‘ammoina’, con il governo di Alexis Tsipras che prometteva riforme mai presentate, e tanto meno fatte, e l’Eurogruppo che ne bocciava l’una dopo l’altra le proposte, ma comunque rinviando o ammorbidendo le scadenze, mentre la Bce concedeva margini di liquidità necessari a tirare avanti. Che potesse andare avanti così a lungo s’era capito dalla furbata iniziale: dopo le elezioni greche di fine gennaio e l’ascesa al potere della forza di sinistra radicale ed euro-critica di Syriza, Atene non voleva più parlare con la troika? Pronti, d’ora in poi la trattativa sarebbe stata con le Istituzioni internazionali, la Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, cioè la troika, con un nome diverso. Ma tutti avevano lasciato credere che qualcosa fosse cambiato.

Affermazioni retoriche come quella di Valéry Giscard d’Estaing, ex presidente francese, uno dei padri dell’integrazione economica e finanziaria europea, secondo cui l’Europa senza la Grecia è come un bambino senza certificato di nascita, alimentavano da una parte e dall’altra la convinzione che alla fine le cose si sarebbero aggiustate. Il che sarà probabilmente vero –io ne resto convinto-, ma passando attraverso un negoziato reale e concessioni concrete, dall’una parte e dall’altra.

Anche le narrative della vicenda stile Davide contro Golia, o ancora Robin Hood contro lo sceriffo di Nottingham, sono assolutamente fuorvianti: la Grecia non è arrivata dov’è arrivata per colpa dell’Ue, ma per colpa di se stessa, conti truccati, riforme non attuate, un’assurda penalizzazione elettorale del partito che cercava di riparare i danni, i socialisti, a vantaggio del partito che li aveva provocati, i centristi, prima di capire che la situazione era seria e quindi di ribellarsi alla cura senza misura imposta di Bruxelles. Che ha avuto i suoi torti, e non pochi, pretendendo tutto in una volta da un Paese allo stremo quello che va fatto gradualmente e quando l’economia gira, non quando è già in panne.

L’alzarsi dei toni, negli ultimi giorni, indica che le parti hanno capito che devono davvero trattare. E l’arrivo del negoziato, come inevitabile, sul tavolo dei capi di Stato e di Governo dei 28, che lunedì si riuniranno in formazione EuroZona –una formazione da consolidare per migliorare la governance dell’euro,- non lascia spazio di ulteriore appello: bisogna creare i presupposti perché poi ministri dell’economia e tecnici chiudano davvero.

Un fallimento non avrebbe effetti economici analoghi sulle due parti. Il Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro, avrebbe conseguenze catastrofiche per i cittadini greci: “diventeremo poverissimi”, avverte il governatore della banca ellenica Yannis Stournaras; e nessuno farebbe più credito a chi dichiaratamente non paga. Né ci si può illudere che Mosca possa davvero supplire all’Unione.

Sul resto dell’EuroZona, l’impatto sarebbe molto minore: la Grecia ne rappresenta appena il 3% circa e il suo debito è ormai detenuto per l’essenziale dalla Bce e dalla Banche centrali europee. Ma il Grexit avrebbe comunque contraccolpi sull’euro, riducendone nell’immediato la forza e a termine la credibilità, e globalmente sul progetto d’integrazione. La solidarietà ne è componente essenziale: l’Unione deve dimostrarne, verso la Grecia come sul fronte dell’immigrazione.

venerdì 19 giugno 2015

Immigrazione: quando le Nazionali sfatano i luoghi comuni

Scritto con Andrea Capello per La Presse il 17/06/2015 

Gli stranieri residenti in Italia solo l’8.2% della popolazione. I cittadini stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana nel 2014 sono circa 130mila, di cui il 39.4% ha meno di 18 anni. Numeri dell'Istat che, presi al netto dell’infuocato dibattito politico e confrontati con quelli di altri Paesi Ue, mostrano che il peso dell’immigrazione sulla demografia italiana è inferiore a quello che ha in Gran Bretagna e in Germania, in Francia e in Svezia.  Ma i numeri sono aridi e, spesso, non bastano a convincere. Se, però, sono calcistici, possono avere più presa. E allora guardiamo le nazionali delle quattro grandi potenze calcistiche europee, Germania, Italia, Inghilterra, Francia, 11 titoli di campione del Mondo (più uno alla Spagna), mettiamole al confronto e ricaviamone qualche considerazione sull’integrazione e l’immigrazione.

INGHILTERRA – Con la Francia, è la potenza coloniale per antonomasia. Ed è la patria del calcio, anche se dovette attendere il 1966 per vincere il suo primo –e finora unico- titolo mondiale: allora, con calciatori tutti rigorosamente ‘made in England’. Bisognò attendere il 1979 per vedere il primo giocatore di colore con i ‘bianchi’: il difensore Viv Anderson esordì a 22 anni a Wembley contro la Cecoslovacchia. Spezzato il tabù, calciatori di colore arrivarono anche a mettersi al braccio la fascia di capitano: il primo fu il centrocampista Paul Ince (visto anche in Italia, all’Inter) nel 1993; dopo di lui, l’onore toccò a Rio Ferdinand –per entrambi, sette volte- e a Sol Campbell in tre occasioni. All’ultimo Mondiale, i giocatori dell’Inghilterra con origini extra-europee erano sei: Barkley, Johnson, Oxlade-Chamberlain, Sterling, Sturridge e Welbeck.

FRANCIA – Il primo giocatore di colore a indossare la maglia dei ‘Galletti’ fu nell’ormai lontano 1971 il difensore Marius Tresor, che nel 1976 divenne anche capitano dei ‘bleus’. E quando i transalpini si aggiudicarono il loro Mondiale, nel 1998, giocando in casa come l’Inghilterra nel ’66, erano ben 11 i giocatori nati od originari delle varie ex colonie sparse per il mondo (Boghossian, Desailly, Diomede, Djorkaeff, Henry, Karembeu, Lama, Trezeguet, Thuram, Vieira, Zidane), senza contare il ‘basco’ Lizarazu, l’ex difensore di Parma e Juventus Liliam Thuram, è il recordman di presenze nella nazionale maggiore francese con 142 gare. All’ultimo mondiale brasiliano, la Francia presentava 10 giocatori di colore o con origini extraeuropee (Benzema, Evra, Mangala, Matuidi, Mavuba, Pogba, Sagna, Sakho, Sissoko, Varane).

GERMANIA – Nella solida Germania il debutto del primo calciatore di colore in nazionale arriva solo nel 2001. A infrangere il tabù è il ghanese naturalizzato tedesco Gerald Asamoah: l’attaccante prenderà parte anche alla spedizione del Mondiale 2002 ed a quello del 2006 giocato in casa, dove insieme a lui, c’era anche un altro giocatore di origini africane, David Odonkor. Negli anni, l’inserimento di calciatori di origini extra-Ue nella ‘Nationalmannschaft’ è aumentato. Al Mondiale in Brasile, vinto proprio dalla Germania, erano in quattro, tre dei quali costituivano la spina dorsale della formazione tipo: il difensore Jerome Boateng, il centrocampista Sami Khedira, il fantasista Mesut Ozil. Con loro, pure l’ex doriano di origini albanesi Shkodran Mustafi.

ITALIA – Rispetto a quelle degli altri Paesi di punta del calcio europeo, le presenze di giocatori di colore nelle fila degli Azzurri sono decisamente minori. Nel 1996, si parlò molto del debutto nella Under 21 di Joseph Dayo Oshadogan, di padre nigeriano e madre italiana, un difensore che non arrivò mai alla Nazionale maggiore.  Il primo a raggiungere questo traguardo fu Fabio Liverani, figlio di padre italiano e madre somala venuta in Italia per sfuggire alla guerra: esordì il 25 aprile 2001, in amichevole a Perugia contro il Sudafrica. Dopo di lui toccò a Matteo Ferrari, novembre 2002 (padre italiano e madre guineana). Ai giorni nostri, la coppia Mario Balotelli (33 presenze‘azzurre’) e Stephan El Shaarawy avrebbe dovuto essere, salvo le bizze dell’uno e gli infortuni dell’altro, quella del futuro del calcio italiano. Con loro, Angelo Ogbonna, difensore nato a Cassino da genitori nigeriani.

IL CASO IBRA – In Svezia, un’intera nazione calcistica è letteralmente ai piedi di un uomo che non ha nulla di scandinavo, tranne il luogo di nascita. Zlatan Ibrahimovic da Rosengard, sobborgo di Malmoe densamente popolato da persone trapiantate in Svezia, è il testimonial del successo dell’immigrazione di seconda generazione. Suo padre Sefik è bosniaco, sua madre Jurka è croata. La sua patria è la Svezia, che lo ha lanciato nel calcio che conta, E lui non dimentica il quartiere dove è cresciuto e dove è diventato Zlatan perché, come dice lui stesso nella sua autobiografia: “Puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo”.

giovedì 18 giugno 2015

Immigrazione: il Papa, i muri, i 'fratelli migranti' e le 'pecorelle smarrite'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/06/2015

“Costruite dei ponti, non dei muri”, chiedeva domenica ai boyscout cattolici in piazza San Pietro Papa Francesco. Eccolo servito: l’Ungheria annuncia la costruzione d’una barriera alta quattro metri e lunga 175 chilometri al confine con la Serbia, per bloccare il flusso di clandestini. Come se l’Europa, proprio quella parte d’Europa, non ne avesse avuto abbastanza di cortine e di muri.

Ma il Papa non demorde e, nell’udienza del mercoledì, ieri, invita tutti a pregare “perché le persone e le istituzioni che respingono questi nostri fratelli migranti chiedano perdono", anticipando i temi della Giornata mondiale del rifugiato, indetta per sabato dall'Onu. Parole che gli costano la perdita di una pecorella già smarrita: Matteo Salvini replica da Radio Padania, "Noi non abbiamo bisogno di essere perdonati - afferma -. Il Papa dice che chi chiude la porta ai rifugiati chieda perdono ... Ma quanti ce ne sono in Vaticano di rifugiati?".

Si scatena una ridda di reazioni. Tanti stanno con il Papa. Qualcuno sta con Salvini. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano s’inventa una terza via: dopo l’incontro con gli Amministratori locali, che non va proprio bene, twitta un lapidario “bisogna smantellare i campi rom” che non c’entra nulla con l’emergenza immigrazione, ma che fa tanto rincorsa populista. E la giornata aveva già visto uno scivolone di sapore razzista di Beppe Grillo: un “Roma sommersa da topi e clandestini” poi rettificato sul blog.

Il muro anti-migranti ungherese non è una trovata originale: ce n’è uno nel triangolo tra Bulgaria, Grecia e Turchia, dove si incrociano tre etnie storicamente diffidenti – ed è un eufemismo - l’una con l’altra. E c’è quello, per lunghi tratti ‘naturale’ - il Rio Bravo - e per altri tecnologico, tra Usa e Messico dal Texas all’Arizona. Il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto spiega che, mentre l'Europa discute, "l'Ungheria non può più aspettare". In realtà, noi avevamo capito che stesse discutendo di accoglienza e di redistribuzione, ma ungheresi e altri non condividono l’approccio.

L’imbarbarimento dei toni in Italia e la radicalizzazione delle decisioni nell’Europa dell’Est fanno contrasto con la relativa distensione del dibattito europeo: c’è persino un’iniziativa congiunta d’Italia, Francia e Germania presso la Commissione europea “per uno sforzo ulteriore”, afferma il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che non esclude un accordo a luglio.

In visita all’Expo, il premier britannico David Cameron incontra Matteo Renzi e s’impegna a dare gente e mezzi per l’emergenza in Sicilia. Attenzione!, però: la Gran Bretagna, con Irlanda e Danimarca, è uno dei tre Paesi che si sono legittimamente chiamati fuori dal dibattito sulle quote, invocando una clausola del Trattato di Lisbona. In Danimarca, oggi si elegge il Parlamento: il tema dell’immigrazione si profila determinante nelle scelte degli elettori, col centro-sinistra al potere che rincorre il centro-destra, in vantaggio nei sondaggi, sul terreno del populismo.

In Francia, il governo annuncia un piano per creare 10.500 nuovi posti letti per accogliere rifugiati e richiedenti asilo. Il ministro dell'Interno Bernard Cazeneuve studia come velocizzare le procedure per i richiedenti asilo –in Italia, ci vogliono mesi -, ma insiste sul pugno duro contro gli immigrati non in regola.

E, in effetti, a Ventimiglia l'atteggiamento delle Autorità francesi non cambia. Per il quinto giorno consecutivo, sugli scogli dei Balzi Rossi, nella zona di Ponte San Ludovico, decine di migranti restano fermi nei pressi del confine, in attesa di trovare il modo d’entrare in Francia.
L’assistenza dei volontari e la generosità della gente tamponano la drammaticità della situazione. E la Crose Rossa ridimensiona l’allarme scabbia. Anche se l’imminenza del Ramadan crea altri timori per l’impatto del digiuno su persone già debilitate.

La Camera vota una risoluzione: tutti o quasi d’accordo su “equa ripartizione e risolvere il problema a monte”. Ma il dialogo tra il Governo e le Regioni resta difficile. Il governatore della Lombardia Roberto Maroni snobba Alfano (“Ci convochi Palazzo Chigi”); quello del Veneto Luca Zaia vede Alfano e sostiene che il Veneto è al collasso e non ha più posto: "Di questo passo, dovremo optare per le tendopoli, ma non è un fatto di civiltà ospitare uomini, donne e bambini sotto le tende". Se è per questo, neppure lasciarli senza assistenza, o respingerli senza accertarne il diritto a restare.

Usa 2016: repubblicani; c’è pure Trump, vestito (e promesse) da giullare

Scritto per Formiche.net e per www.GpNewsUsa2016.eu il 17/06/2015

E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un povero vada alla Casa Bianca. Se l’adattamento alla politica americana dell’aforisma evangelico funziona, Donald Trump, eccentrico miliardario, ex marito di Ivana, il protagonista di The Apprentice, e molto altro, ha buone chances di farcela: nove miliardi (di dollari), per l’esattezza. Lui se n’è vantato: "Io sono molto ricco, quindi non ho bisogno dei lobbisti". E ha aggiunto: "Sarò il più grande presidente per il lavoro che Dio abbia mai creato".

Per annunciare formalmente la sua candidatura alla nomination repubblicana a Usa 2016 –adesso, sono 12 in lizza-, Trump ha organizzato un evento a New York, nella sua Trump Tower, quasi davanti al Palazzo di Vetro dell’Onu. Introdotto dalla figlia Ivanka, ha detto che "all'America serve un grande leader", mentre l’attuale presidente, Barack Obama, non va bene neppure come ‘cheerleader”.

Trump s’è presentato come "un vincitore" in un'America "che non vince più” e che anzi perde contro la Cina, il Giappone, il Messico, il resto del Mondo. Vestito con i colori della bandiera, l’abito blu, la camicia bianca e la cravatta rossa, l’aspirante presidente, un buffone in servizio permanente effettivo, ha fatto un discorso surreale ed ha attaccato l'Amministrazione Obama su tutta la linea, ma anche i repubblicani che “fanno solo retorica e non parlano dei problemi reali dell'America”.

"Sono ufficialmente in corsa per la presidenza degli Stati Uniti e renderò il nostro Paese di nuovo grande", ha detto Trump, definendo gli attuali leader americani degli "inetti". Per lui, gli Usa “sono in guai seri”, perché non vincono più: “Quando è stata l'ultima volta che abbiamo battuto la Cina in un accordo commerciale? Io vinco contro la Cina tutti i giorni!". Per il miliardario, i suoi rivali "non sarebbero mai in grado di rendere l'America di nuovo grande” perché “sono controllati dai lobbisti, dai finanziatori, da interessi particolari”, mentre “il nostro Paese ha bisogno di un leader che abbia scritto 'The Art of the Deal'” (il suo libro, ndr) e che possa ricreare in America posti di lavoro".

Alla frontiera con il Messico, Trump vuole "costruire un grande muro", perché “i messicani non sono nostri amici". Se "l'America è come un Paese del terzo mondo", è perché i leader americani "sono stupidi". Lui, a 69 anni, è l'unico uomo in grado restaurare il "sogno" –pare quasi di sentire Briatore via Crozza-, così com’è stato in grado di accumulare ricchezza. (fonti varie – gp)

mercoledì 17 giugno 2015

Guerra Fredda: Obama e Putin ci riportano indietro di 25 anni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/06/2015

Avanti di questo passo, Obama e Putin, il Nobel per la Pace sulla fiducia del 2009 e il neo-zar di tutte le Russie, saranno davvero riusciti, prima della fine dei loro mandati, a cancellare un quarto di secolo di progressi verso relazioni Est-Ovest amichevoli ed a resuscitare la Guerra Fredda. Sperando che non si dimentichino di ripristinare la coesistenza pacifica. L’annuncio di Putin che la Russia aggiungerà quest'anno oltre 40 nuovi missili balistici al suo arsenale nucleare segna un’inversione nella tendenza al disarmo e alla riduzione degli arsenali nucleari strategici e tattici che data dal 1972, storia di Nixon e Brezhnev.

Putin ha assicurato che i nuovi missili Icbm (a testata multipla) "saranno in grado di perforare il più tecnicamente sofisticato sistema di difesa anti-missile". Certo, il presidente parlava a un forum dell’industria bellica ed i discorsi lì sono stati tutti ‘guerrafondai’: le truppe russe – s’è così saputo - hanno iniziato a ricevere i mezzi corazzati d’ultima generazione mostrati nella parata del 9 Maggio sulla Piazza Rossa per il 70° anniversario della vittoria sul nazismo.

Ma il presidente non ignorava che le due dichiarazioni arrivano in un momento di particolare tensione tra Mosca e l'Occidente per la crisi ucraina, con Washington che s’appresta a spiegare armi pesanti nell'Europa orientale, venendo incontro alle preoccupazioni della Polonia e dei Paesi Baltici che si sentono minacciati dalla Russia, dopo l’annessione della Crimea e il sostegno agli indipendentisti dell’Est dell’Ucraina.

Il confronto va al di là dello scambio di sanzioni e ritorsioni giù in atto da 18 mesi e che può inasprirsi dopo il G7: per la Casa Bianca, è un modo per ‘fidelizzare’ ulteriormente gli alleati europei più ostili alla Russia e per cercare di vincolare gli altri più dialoganti –Germania, Francia, Italia- alla linea dura.  Le notizie di incidenti militari sfiorati nel Mar Baltico tra unità navali Nato e aerei russi testimoniano una volontà di tensione e reale nervosismo: la Nato denuncia un “tintinnio di sciabole pericoloso” da parte russa.

Se la Casa Bianca dovesse dare il via all'operazione approntata dal Pentagono, ma non ancora ‘validata’ politicamente, sarebbe la prima volta dalla fine della Guerra Fredda che gli americani ammassano in Europa armamenti pesanti in tale quantità: carri armati, veicoli da trasporto truppe e altri sistemi, con l’impiego di circa 5 mila soldati Usa.

Nei Paesi Nato ex Patto di Varsavia, l’allarme è moto alto. E Obama ha sempre promesso sostegno alla loro sovranità e integrità territoriale e ora vuole mostrarsi intransigente circa le eventuali mire espansionistiche d’un Cremlino che voglia restaurare la propria influenza su parte dell'Est Europa. Altrove nel Mondo, però, dall’Iran alla Libia, il coinvolgimento di Putin è necessario per affrontare e risolvere le crisi.

Usa 2016: Hillary e Jeb sbianchettano il loro passato

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/06/2015

Sono entrambi impegnati a sbianchettare il loro passato. Lei, Hillary, per via degli anni: non tanto quelli anagrafici, 67, che ci scherza pure sopra, quanto quelli che ha passato sulla scena pubblica nazionale, almeno 23, come first lady dal 1992 al 2001, come senatrice dello Stato di New York fino al 2006, poi candidata (battuta) alla nomination 2008, quindi segretario di Stato dal 2009 al 2013, infine di nuovo candidata.

Lui, Jeb, che di anni ne ha solo 62, per via del nome. Il papà George, presidente dal 1989 al 1993, non c’entra: quella è un’eredità che il figlio porta bene. Lunedì, prima di fare il comizio di lancio della sua candidatura, gli ha telefonato e lo ha fatto sapere. Il problema è il fratello George W, presidente dal 2001 al 2009, l’uomo che mentì all'America sull'attacco a Baghdad e che è all'origine dei conflitti che si trascinano da allora in Afghanistan e in Iraq.

Hillary Rodham Clinton e Jeb Bush sembrano avviati a una riedizione 2016 dello scontro 1992 per la Casa Bianca: Clinton contro Bush, solo che allora i protagonisti erano il marito di Hillary, Bill, e il padre di Jeb. Mediaticamente, può essere una grossa storia. Ma, per la democrazia americana e occidentale, suona un mezzo flop.

I commenti negativi fioccano: “Non ci credo: sempre gli stessi nomi, dinastie, longevità politiche, pare l’Italia, non l’America”. Invece, nel dna della politica ‘made in Usa’ degli ultimi 70 anni almeno c’è anche tutto questo: le dinastie, a cominciare dai Kennedy; gli ‘a volte ritornano’, ché la ‘seconda chance’ è ingrediente essenziale del sogno americano, a iniziare da Richard Nixon, battuto nel 1960, vincitore nel ’68; e, infine, le partite rigiocate, come accadde negli Anni 50, quando i democratici mandarono due volte l’ambasciatore Adlai Stevenson contro il generale Dwight Eisenhower (e persero due volte).

Ma anche prima storie analoghe attraversano le elezioni presidenziali negli Stati Uniti: il figlio d’un presidente alla Casa Bianca lo si era già visto nel 1825, quando John Quincy Adams, figlio di John Adams, il successore di George Washington, divenne il 6° presidente. Invece, almeno finora, un fratello di presidente o una moglie di presidente alla Casa Bianca non si sono mai visti: ci poteva riuscire Robert Kennedy, fratello di John, assassinato nella campagna 1968.

Certo, verso Usa 2016 la voglia di usato sicuro e di brand conosciuti pare davvero forte, se si pensa che una possibile alternativa alla sfida Clinton-Bush è un match Kerry-Bush, quasi una riedizione tale e quale di quello 2004: Kerry è lo stesso –John, allora senatore, attualmente segretario di Stato-, Bush il fratello.

Se Hillary è al secondo tentativo, fra i candidati alla nomination repubblicana, ormai una dozzina – ieri, è sceso pure in campo l’eccentrico miliardario Donald Trump -, almeno tre sono ‘cavalli di ritorno’ e uno –oltre a Bush- è un ‘figlio di’. E, comunque, occhio alle sorprese: Hillary non ha quasi rivali, ma può inciampare nel suo passato, scandali, errori, scheletri nell’armadio; Jeb guida la corsa nei sondaggi fra i repubblicani, ma è troppo di centro per i conservatori e non è affatto sicuro di spuntarla.

Attenti poi a schernire gli americani, come se gli alfieri dell’innovazione nel Paese di Steve Jobs, di Facebook e delle startup nei garage, si limitassero a scelte politiche dal sapore antico. Clinton-Bush sa di vecchio, ma una donna alla Casa Bianca per la prima volta, dopo un nero per la prima volta, sarebbe una novità forte. E, fra 4 o 8 anni, magari toccherà ad Andrew Cuomo, altro nome da usato sicuro, figlio di Mario. Ma sarebbe il primo italo-americano. O ci sarà il primo ispanico. E continuità e innovazione andrebbero ancora a braccetto.

martedì 16 giugno 2015

Immigrazione: Renzi fa l'autarchico e litiga con tutti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/06/2015

Sull’immigrazione, stiamo litigando con tutti, in Europa. E con noi stessi, in Italia. Difficile dire se, per il Governo, sia più complicata la riunione di oggi a Lussemburgo fra i ministri dell’interno dei 28 o quella di domani a Roma con le Regioni. E il Piano B ‘minacciato’ ai partner dal premier Renzi non ha più credibilità prima ancora d’essere enunciato, tra i lazzi del M5S (“Ci siamo persi il Piano A”) e le pretese di primogenitura della Lega (“Noi l’avevamo già proposto nel 2011”). Peccato che l’Ue l’abbia pure già bocciato, nel 2011.

Saranno dieci giorni caldi sul fronte immigrazione, di qui al vertice europeo del 25 e 26 giugno. Se una burrasca in mare non li trasformerà in giorni tragici. Renzi alza il tono del confronto con la Francia, che però rifiuta giustamente l’accusa di violare gli accordi di Schengen: chi li viola è l’Italia, che non identifica gli immigrati e non separa i richiedenti asilo dagli ‘irregolari’, quasi incoraggiandone la fuga verso il Nord, là dove vogliono arrivare eritrei e siriani e quant’altri, specie in Germania e in Svezia.

Da Bruxelles, la Commissione europea mette in chiaro di non sapere nulla di un Piano B. Ma non resta passiva: il responsabile per l’immigrazione, Avramopoulos, invia ai ministri una lettera, invitandoli a incrementare la politica dei ritorni, che prevede di rimandare indietro i migranti che non hanno titolo per presentare richiesta di asilo, facendo invece spazio ai rifugiati. E insiste per una ridistribuzione dei richiedenti asilo.

Lo scontro tra Italia e Francia è acuto soprattutto a Ventimiglia: il ministro Alfano ha intenzione di mostrare ai colleghi a Lussemburgo una cartellina di foto. E il premier Renzi sembra tentato dal colpo di mano: se non si trova una soluzione all'altezza dell'Europa, dice, “faremo da soli" –ma che significa?-, parlando di "atteggiamento muscolare", che “non paga”, da parte di "alcuni Paesi amici". Però, non pagano neppure le divisioni interne, le battute vuote, la diplomazia asimmetrica di un premier che replica al ministro dell’Interno francese Cazeneuve.

La Francia viola gli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone in Europa, è la posizione dell’Italia, governo e opposizioni per una volta d’accordo. La replica di Parigi è inappuntabile, in punta di diritto: sono gli italiani a violare Schengen, perché le regole in vigore prevedono che i migranti siano identificati e registrati nel Paese d’arrivo. Se non lo sono, non possono transitare alle frontiere interne dell’Unione. Manca, certo, l’afflato della solidarietà, come manca tra le Regioni leghiste e il resto dell’Italia.

Sul tavolo di Lussemburgo, oggi, c'è la questione della redistribuzione dei richiedenti asilo tra i vari Paesi Ue: si prevede solo una discussione, in attesa di eventuali decisioni –comunque non facili- del Vertice europeo del 25 e 26 giugno. Secondo la proposta della Commissione, 24mila persone che attualmente sono in Italia dovrebbero essere accolte dagli altri Paesi (insieme ad altre 16mila dalla Grecia). Un numero giudicato "largamente insufficiente" da Renzi.

Ma l’Italia pare quasi andare già oltre, con il Piano B ventilato da Renzi domenica ed echeggiato nel “faremo da soli". Si tratterebbe di consegnare permessi temporanei ai richiedenti asilo, così che possano circolare in Europa: nel 2011, era stato l'allora ministro dell'Interno Maroni a tentare senza successo questa carta. L'Ue la bocciò e lo stoppò: l’allora responsabile europea Malmstroem sostenne che i permessi non bastavano a fare scattare la libera circolazione. E nulla induce a credere che Bruxelles e i partner abbiano oggi cambiato idea.

Usa 2016: repubblicani; Jeb si candida, verso scontro di ‘dinastie’

Scritto per La Presse e GpNewsUsa2016.eu il 15/06/2015 e per Il Fatto Quotidiano del 16/06/2015, in versioni diverse

Si sente pronto a guidare l’America, che è “su una strada sbagliata”: parlando in inglese e spagnolo, promette 19 milioni di posti di lavoro, la sicurezza energetica fra 5 anni, rapporti con Cuba ‘normalizzati’ (ma solo se il popolo sarà libero). Con un messaggio di ottimismo, e un’affermazione di leadership, Jeb Bush s’è ufficialmente candidato alla nomination repubblicana per Usa 2011: l’ex governatore della Florida, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente Usa, ne ha dato l’annuncio al Miami Dade College, dopo gli adempimenti formali alla commissione elettorale.

“Sono certo –afferma-che possiamo rendere i prossimi decenni dell’America i migliori mai vissuti in questo Mondo". Ma le proteste dei migranti a tratti lo interrompono.

Con Jeb, i candidati alla nomination repubblicana per Usa 2016 sono 11 e possono diventare subito una dozzina, con l’eccentrico miliardario Donald Trump, con la prospettiva di salire fino a 15. Quelli democratici sono solo tre: Hillary Rodham Clinton, l’ex first lady, non ha praticamente rivali nel suo campo.

Nonostante la ressa in campo repubblicano, la corsa alla Casa Bianca assume sempre più l’aspetto di uno scontro fra ‘dinastie’ americane: è infatti possibile, anzi probabile, dicono per ora i sondaggi, che il match finale sia Bush contro Clinton, come nel 1992 (allora George Bush contro Bill Clinton; oggi Jeb, il figlio, contro Hillary, la moglie).

Il terzo Bush deve però preoccuparsi della concorrenza di Marco Rubio, senatore della Florida d’origini cubane: la corsa alla nomination repubblicana potrebbe così ridursi a un derby del Sunshine State. Rubio, 44 anni, è stato molto cavalleresco con il rivale, che, a 62 anni, gli è quasi stato maestro in politica, sottolineando l’amicizia che li lega.

Il logo della campagna di Bush, con la scritta "Jeb!" in grandi lettere rosse su sfondo bianco e 2016 in piccolo con numeri blu, fa discutere per la mancanza del cognome, quasi che l’ex governatore, voglia smarcarsi da un’eredità pesante –specie quella del fratello-. Il papà, invece, non lo imbarazza: prima dell’annuncio, gli ha telefonato e lo ha fatto sapere.

Jeb, reduce da un viaggio in Europa, Germania, Polonia, Estonia, aveva lanciato domenica il conto alla rovescia del suo annuncio. Ora, s’impegna a “offrire alternative” e ad essere “concreto” e riserva un po’ d’ironia ad Hillary che fino a sabato s’era limitata ad “ascoltare” la gente d’America, prima del bagno di folla con comizio a Roosevelt Island a New York.

Lui pensa di avere le risposte e denuncia “la cappa di Washington” che pesa sull’Unione, assicurando: “Io sarò il presidente di tutti, non di un club”. Di sicuro, di una famiglia.