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domenica 27 novembre 2016

Usa 2016: Trump, il precedente di Reagan?, un parallelo azzardato

Scritto per Il Fatto Quotidiano dopo l'Election Day di Usa 2016 e non utilizzato

Un presidente che viene da un altro mondo?, estraneo alla politica e all’Amministrazione? Sai che novità! Gli Stati Uniti lo hanno già avuto. Ed è pure stato un grande presidente: Ronald Reagan, che fu alla Casa Bianca dal 1981 al 1989, aveva un passato da attore di film western di serie B. Fu capace di sconfiggere, in rapida successione, il capo indiano Tecumseh, la cui maledizione datata prima metà del XIX Secolo lo condannava a morte – lui, invece, schivò la pallottola dell’attentatore quel tanto che bastava per sopravvivere all’agguato – e la stagnazione dell’economia liberando l’energia del liberismo – con l’aiuto della sua grande amica Margaret Thacher, premier britannico – e di vincere, d’un colpo solo, la Guerra Fredda e l’Unione Sovietica, dopo averla sfidata sulla soglia di casa con gli euromissili ed avere poi fatto comunella a Reykjavik con Mikahil Gorbaciov.

Magari, fra qualche anno qualcuno occuperà questa stessa colonnina di giornale per raccontare come Donald Trump sarà stato un grande presidente, avrà sconfitto il terrorismo internazionale, ridotto a compagno di bisboccia Vladimir Putin e restituito l’America alla sua grandezza – termine di riferimento?, l’America di Reagan, ovvio -.

Ma a una qualsiasi analisi il parallelo tra Reagan e Trump appare per il momento azzardato. Perché Reagan, quando arrivò alla Casa Bianca, aveva abbandonato da parecchi anni, da quando cioè aveva appena superato i cinquanta, la colt e gli speroni da set ed aveva già esercitato un doppio mandato di governatore della California, il più popoloso Stato dell’Unione e allora la 7° economia mondiale. Eletto nel 1966, rieletto nel 1970, nel 1974 non si era più presentato perché voleva già prepararsi alla Casa Bianca: aveva fatto un tentativo da indipendente fallito, si mise in corsa nel 1976 per la nomination repubblicana, la ottenne nell’ ’80 e vinse.

Trump, che entra alla Casa Bianca più anziano di un anno di quando vi entrò Reagan la prima volta, non ha nessuna esperienza di gestione della cosa pubblica e, fino a questa campagna, non aveva mai manifestato l’interesse a farsela. Chissà se, per selezionare i ministri, userà i sistemi del boss del suo show tv The Apprentice.

giovedì 24 novembre 2016

Usa/Ue: Obama, l'ora degli addii. Trump, l'ora dell'ansia

Scritto per AffarInternazionali.it e pubblicato il 23/11/2016

Il presidente Obama è ormai entrato nel cono d’ombra della sua parabola: la sua ultima missione all’estero, in Europa per i commiati di rito e in Perù per un vertice dell’Apec, è stata un incontrarsi per dirsi addio - e per archiviare alcuni pezzi incompiuti del suo doppio mandato -.

In Perù, soprattutto: la partnership trans-pacifica, Tpp, recentemente definita, ma non ancora entrata in vigore, sarà infatti una delle prime vittime della nuova presidenza di Donald Trump, che ne mette l’abrogazione al primo posto della lista delle cose da fare nei primi cento giorni alla Casa Bianca.

Nel documento pubblicato a fine Vertice, i 21 Paesi Apec s’impegnano a continuare a lavorare verso un accordo di libero scambio ed a resistere “a tutte le forme di protezionismo". Ma Trump vuole sostituire quell’intesa regionale con accordi bilaterali, in cui gli Stati Uniti possano meglio fare valere il loro peso con i singoli interlocutori.

Mentre volava per il Perù, Obama aveva battuto un pugno sul tavolo del Congresso repubblicano, bloccando tutte le nuove trivellazioni nell’Artico, perché quell’ambiente è “unico e difficile”. Ma Trump ci metterà un rigo di penna a cancellare pure questa decisione, come a ripristinare il gasdotto Keystone dal Canada al Texas.

Arrivederci ai giardinetti della storia

In Europa, più cha addii, per Obama sono stati arrivederci: sulle panchine, ai giardinetti della storia. Perché quello di Berlino è stato il Vertice delle anatre zoppe: con la padrona di casa Angela Merkel, c’erano il presidente francese Fracois Hollande e i premier britannico Theresa May, spagnolo Mariano Rayoj e italiano Matteo Renzi, alcuni attesi a breve da appuntamenti elettorali determinanti per la loro sopravvivenza politica, altri in condizioni di governo precarie.

Espressioni d’amicizia spesso sincere, sorrisi un po’ tirati, strette di mano e pacche sulle spalle: se ne va un decano della combriccola transatlantica – solo la Merkel ha un’anzianità di servizio superiore -, si chiude una pagina lunga otto anni, se ne sta per aprire un’altra densa, per il momento, di punti interrogativi. Erano tutti lì, i leader europei, con un orecchio a Washington e con un occhio a casa loro, dove molti hanno problemi grossi - alcuni non sono neppure sicuri di avere il tempo d’incontrare il presidente Trump -.

Chi sperava che Obama spiegasse ai partner l’America che verrà è rimasto deluso (ed è ripartito preoccupato): se l’arrivo di Trump alla Casa Bianca “non è l’apocalisse”, ma solo perché “la fine del Mondo è quando il Mondo finisce”, l’analisi del presidente uscente equivale a “fin che c’è vita c’è speranza”. E l’invito a lavorare col suo successore per cercare soluzione “ai problemi comuni”, sulla base “dei valori condivisi”, suona ovvio e non troppo convinto.

Obama era seduto tra la Merkel e Matteo Renzi, nel Vertice nella Cancelleria. Dall’incontro non scaturiscono decisioni, ma piuttosto labili indicazioni: le sanzioni alla Russia per l’Ucraina restano, almeno fino a che Trump non s’insedierà alla Casa Bianca; e in Libia ci vuole un governo stabile. Di immigrazione, assicura la Merkel, non s’è parlato, perché gli europei non volevano affliggere Obama con lo spettacolo delle loro divisioni.

La nostalgia d’Obama e l’attesa di Trump

Formalmente, il 45° presidente degli Sati Uniti s’insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio, l’Inauguration Day. Ma, fin dai primi momenti dopo l’Election Day, l’8 novembre, parole e mosse di Trump sono state vagliate e scrutate per cercare di capire se, e in che misura, il presidente sarà diverso dal candidato, che aveva impressionato per il suo linguaggio più brutale che franco e per le posizioni sessiste e razziste, anti-immigrati e anti-musulmani, pro-armi e pro-vita (cioè, favorevoli alla cancellazione del diritto all’aborto, restituendo agli Stati dell’Unione il compito di legiferare in merito, com’era fino al 1973).

Una certa tendenza giornalistica ad allinearsi al potere, più forte da noi che in America, alimenta, dopo l’Election Day, l’ipotesi - e forse l’illusione - che Trump, da presidente, cambierà registro.

In realtà, quasi tutte le sue dichiarazioni e le sue prime scelte nella composizione della squadra di gestione e di governo sono state coerenti con l’immagine e i programmi della campagna elettorale: conferma dell’intenzione d’alzare e allungare la barriera tra Stati Uniti e Messico e di espellere milioni di immigrati irregolari; conferma dell’intenzione di abrogare, almeno in parte, la riforma sanitaria del suo predecessore, che non lascia i poveri senza assistenza; conferma dell’intenzione di rimettere in discussione gli accordi commerciali esistenti o in fase di negoziato – oltre al Tpp versante Pacifico, la Nafta con Messico e Canada e il Ttip versante Atlantico -.

E, mentre la scelta degli uomini dell’Amministrazione fa scorrere davanti agli occhi il film d’un’America nostalgica del segregazionismo e tutta ‘Law & Order’, ben diversa da quella d’Obama, variegata e progressista, in politica estera si profila una svolta nei rapporti con la Russia che può modificare il contesto in Europa e nel Medio Oriente. Il presidente siriano Bachar al-Assad saluta in Trump “un alleato naturale”, il premier israeliano Benyamin Netanyahu attende un rilancio dell’amicizia israelo-americana.

Gli scongiuri della cancelliera

Il viaggio di commiato di Obama in Europa – un passaggio ad Atene, prima del clou a Berlino – lascia una scia di rammarico e di preoccupazione: rammarico per l’uscita di scena di un leader carismatico e affidabile; preoccupazione per l’arrivo di un successore inesperto e inaffidabile, che, durante tutta la campagna elettorale, ha avuto poca attenzione e zero considerazione per i partner e gli alleati europei. E che, una volta eletto, si fa un baffo del protocollo e non risponde agli alleati che lo chiamano o gli scrivono.

Da un consulto a caldo fra i ministri degli Esteri europei, il 13 novembre, era già emersa grande e diffusa inquietudine, sensibile specie in Polonia e nei Baltici, timorosi dell’impatto su di loro dell’eventuale riavvicinamento Usa-Russia.

Una curiosità: non so come facciano gli scongiuri i tedeschi, ma di certo Angela Mekel li ha fatti, quando Obama ha detto che, “se fossi tedesco”, “la sosterrei” alle prossime elezioni, nel settembre 2017. Il presidente ne ha fatto un vero e proprio panegirico: “Angela ha grande credibilità ed è una donna che lotta per i valori … Non avrei potuto avere una partner più affidabile”, con buona pace di tutti gli altri che ambiscono ad essere il miglior amico europeo dell’America.

La cancelliera tedesca avrà subito pensato alle recenti sortite di Obama contro la Brexit ed a favore di Hillary Clinton e avrà mormorato fra sé e sé l’equivalente tedesco del nostro “non c’è il due senza il tre”. Vero è che, di qui a settembre, ci sono altre occasioni perché il proverbio si realizzi.

mercoledì 23 novembre 2016

Usa: Trump, il piano dei cento giorni e l'exit della California

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/11/2016

In testa alla lista delle cose da fare nei suoi primi cento giorni alla Casa Bianca, Donald Trump, che s’insedierà il 20 gennaio, mette il ritiro degli Usa dal patto commerciale con i Paesi del Pacifico, il Tpp, che sarà sostituito da una rete di accordi commerciali bilaterali. Fra le priorità, non c’è il muro anti-immigrazione lungo il confine con il Messico - Trump prevede solo "indagini su tutti gli abusi che riguardano i programmi di rilascio dei visti che danneggiano i lavoratori americani" – e neppure l'abolizione dell’Obamacare e il lancio del piano da mille miliardi di dollari per le infrastrutture. Silenzio pure sulla riapertura dell’inchiesta sulle mail di Hillary Clinton.

Impegni già dimenticati? A parte l’inchiesta su Hillary, che è accantonata, dice Kellyanne Conway, portavoce del presidente eletto, Trump spiega, in un video di due minuti, che, nei suoi primi cento giorni, intende concentrarsi sulle promesse fatte in campagna elettorale che può realizzare senza l’approvazione del Congresso.

Agli ultimi piani del suo grattacielo sulla 5° Strada, Trump lavora su più fronti: oltre al programma dei cento giorni, il completamento della squadra di governo – dove restano vuoti significativi – ed un vero e proprio regolamento di conti con i media. Che non gli danno tregua: il magnate ha appena tacitato con cospicui rimborsi le cause contro la sua Università e il WP già lo accusa di aver usato soldi della sua Fondazione a scopo personale, violando la legge.

Eppure, due settimane dopo l'Election Day, nonostante il carattere ondivago delle mosse finora fatte, una maggioranza di americani – il 53% - pensa che il presidente eletto farà un buon lavoro; e il 40% ha fiducia nella sua capacità di trattare le questioni economiche: come termine di paragone, Obama, Bush jr, Clinton, Reagan avevano, prima del loro insediamento, indici peggiori. Ma la luna di miele del magnate con il suo popolo non è generalizzata: in California, si raccolgono firme per la Calexit, la secessione dello Stato dell’Unione, da sottoporre a referendum.

I primi cento giorni – Trump ha invitato il 'transition team' a lavorare perché, fin dal primo giorno, siano restaurati “ordine e giustizia e posti di lavoro”. In un breve messaggio di due minuti e mezzo, il magnate elenca le sue priorità: 'rottamare' l'intesa commerciale con 11 Paesi asiatici e del Pacifico, alzare i dazi con la Cina, cancellare alcune norme verdi del presidente Obama e potere così tornare a incrementare la produzione di carbone e di gas naturale. Via subito pure al divieto per chi lavora nell'Amministrazione di fare attività di lobby per cinque anni dopo avere lasciato il proprio incarico.

Iniziative che richiedono un iter legislativo più complesso, e non un semplice ordine esecutivo, saranno attuate successivamente: per almeno due anni, fino alle elezioni di midterm del 2019, l’azione legislativa sarà piuttosto spedita, avendo i repubblicani il controllo del Congresso.

La squadra è ferma – Dopo le nomine fatte la scorsa settimana, la composizione della squadra pare essersi fermata: s’attendono le nomine agli Esteri, al Tesoro, alla Difesa, posti chiave, mentre torna a galla Rudolph Giuliani – se ne parla come capo dell’intelligence nazionale -.

Tra mugugni in famiglia e marette nel suo ‘cerchio magico’, Trump fa sapere con un tweet di volere il leader dell'Ukip Nigel Farage come ambasciatore britannico negli Stati Uniti. Farage, che è stato vicino al magnate in campagna elettorale, definisce il messaggio un "fulmine a ciel sereno", ma aggiunge: “Sarei utile”. Downing Street, però, fa subito sapere che “il posto non è vacante”.

Lo scontro senza fine con i media – E’di nuovo guerra fra il presidente eletto e i media americani, tv e giornali. Poche ore dopo n burrascoso incontro con le rete televisive, Trump torna ad attaccare su Twitter, prendendosela con quanti cavalcano il tema del conflitto d’interessi. "Prima del voto era ben noto che avevo interessi in tutto il mondo. Solo i media corrotti ne fanno una grande notizia".

Il presidente eletto ha pure annullato, e poi riconfermato, un incontro con il New York Times, che – altro tweet – “continua a scrivere di me in modo impreciso e con un tono maligno!".

L’incontro con i network pareva l'occasione per un reale disgelo, o almeno per una tregua. Invece, c’è stata una vera e propria giaculatoria del magnate contro la stampa, che ha ostacolato “in tutti i modi” la sua corsa alla Casa Bianca. Trump ha usato parole durissime, inveendo contro i presenti "falsi e bugiardi", “disonesti che dovrebbero vergognarsi”.

"Sembrava che gli invitati fossero davanti a un plotone di esecuzione", hanno riferito testimoni. Diversa la versione della Conway: per la portavoce è stato uno "scambio d’opinioni" eccellente.

sabato 19 novembre 2016

Usa: Obama/Trump, il giro degli addii e l'ora delle nomine

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/11/2016

Incontrarsi per dirsi addio, anzi arrivederci: sulle panchine ai giardinetti della storia. A Berlino, ieri, il Vertice delle anitre zoppe è stato soprattutto questo: l'ultimo saluto del presidente Barack Obama ai leader europei; e viceversa. Amicizia in qualche caso sincera, sorrisi un po’ tirati, strette di mano e pacche sulle spalle: se ne va un decano della combriccola transatlantica – solo Angela Merkel ha un’anzianità di servizio superiore -, si chiude una pagina lunga otto anni, se ne sta per aprire un’altra fatta di punti interrogativi.

Erano tutti a Berlino, i leader europei, con un orecchio a Washington e con l’occhio a casa loro, dove molti hanno problemi grossi - alcuni neppure sono sicuri di avere il tempo di conoscere Donald Trump, il presidente eletto degli Stati Uniti -.

Chi sperava che Obama spiegasse ai partner l’America che verrà è rimasto deluso (ed è ripartito preoccupato): se l’arrivo di Trump alla Casa Bianca “non è l’apocalisse”, ma solo perché “la fine del Mondo è quando il Mondo finisce”, l’analisi del presidente uscente equivale a “fin che c’è vita c’è speranza”. E l’invito a lavorare col suo successore per cercare soluzione “ai problemi comuni”, sulla base “dei valori condivisi”, suona ovvio e non troppo convinto.

Obama era seduto tra la Merkel e Matteo Renzi, al tavolo del Vertice nella Cancelleria; e c’erano pure François Hollande, Mariano Rayoj, Teresa May. Dall'incontro non scaturiscono decisioni, ma piuttosto labili indicazioni: le sanzioni alla Russia per l’Ucraina restano, almeno fino a che Trump non s’insedierà alla Casa Bianca; e in Libia ci vuole un governo stabile. Di immigrazione, assicura la Merkel, non s’è parlato, perché gli europei non volevano affliggere Obama con lo spettacolo delle loro divisioni.

Quando già Obama è in volo per il Perù, dove, oggi e domani, lo attende un altro rito di congedo, stavolta dai Paesi del Pacifico, da Washington giunge notizia che il presidente ha battuto un pugno sul tavolo del Congresso repubblicano: ha bloccato tutte le nuove trivellazioni nell'Artico, tenuto conto del carattere “unico e difficile” di quell'ambiente.

Trump ci metterà un rigo di penna a cancellare questa decisione, come a ripristinare il gasdotto Keystone dal Canada al Texas. Ma, intanto, il magnate e showman snocciola nomine, che vanno tutte nello stesso senso: pare di stare in un film sul razzismo aristocratico del Profondo Sud, stile l’Alabama di ‘A spasso con Daisy’ o il Mississippi di ‘The Help’.

Ieri, Trump ha indicato due personaggi molto discussi per il ministero della Giustizia e la direzione della Cia: il senatore Jeff Sessions (Alabama) e il deputato Mike Pompeo (Kansas). Prima, Trump aveva scelto, come consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale Michael T. Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall'Amministrazione Obama ed entrato nelle sue fila in campagna elettorale.

Sessions, 69 anni, è favorevole all'espulsione degli immigrati irregolari ed è contrario all'aborto ed ai matrimoni fra omosessuali. Contro di lui, venature razziste, costategli il posto di giudice federale, e una battuta sul Ku Klux Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano marijuana”.

Pompeo, 59 anni, origini italiane, è un Tea Parti vicino al vice-presidente Mike Pence: la priorità è l’abolizione dell’accordo sul nucleare con l’Iran, “disastroso” perché fatto “con lo Stato principale sostenitore del terrorismo al Mondo”.

Mancano ancora tasselli importanti, gli Esteri, la Difesa, il Tesoro. E, nel fine settimana, Trump vedrà, fra gli altri, Mitt Romney, il suo maggiore antagonista nel partito repubblicano.

venerdì 18 novembre 2016

Usa 2016: Trump, gente che va, Yellen che resta e le grane della squadra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/11/2016

Se l’obiettivo era tenere Donald Trump lontano dallo Studio Ovale, i democratici sembra l’abbiano raggiunto, almeno per un anno. Ma se l’obiettivo era tenerlo lontano dal potere, allora è un altro discorso. Per un bel pezzo del suo mandato alla Casa Bianca, il presidente eletto sarà forse costretto a trasferirsi "nel vecchio ufficio di Richard Nixon nell'Old Executive Office Building". Un riferimento non proprio incoraggiante.

Lo rivela alla Fox Karl Rove, l’ex consigliere di George W. Bush: Barack Obama non ha voluto avviare i lavori di restyling del suo ufficio – questioni di sicurezza, non solo di tappezzeria -, preferendo lasciarne le scelte al suo successore. Per Trump, che è a suo agio anche nella lussuosa casa / ufficio sulla 5° Strada a New York, non sarà un grosso problema.

A impegnare il magnate in queste ore, non sono i problemi logistici, ma la definizione della squadra da mettere in campo alla guida dell’Unione. C’è chi se ne va – il direttore dell’Intelligence James Clapper -; e chi promettere di restare, magari remando contro-corrente – la presidente della Fed Janet Yellen -.

Clapper è il primo alto dirigente dell’Amministrazione Obama a dare le dimissioni, anche se – dice, durante un’audizione in Congresso – “ho ancora 64 giorni” (lascerà il giorno dell’uscita di scena d’Obama).

Le dimissioni dei vertici delle Agenzie federali dell'Amministrazione uscente sono una prassi, dopo l'elezione presidenziale, nell'ottica di un rinnovamento degli incarichi, soprattutto per i ruoli più delicati e di fiducia, come quelli dell’intelligence. Nessun segnale finora da altri alti dirigenti, come il direttore dell'Fbi James Comey, che ha giocato un ruolo forse decisivo nell’elezione di Trump, riaprendo le indagini sull’emailgate, a carico di Hillary Clinton, a dieci giorni dall’Election Day e richiudendole dopo una settimana, a ridosso del voto. Comey, se vuole, può restare al suo posto fino a fine mandato.

Chi non ci pensa proprio ad andarsene, né può essere rimossa, è la Yellen, che dal 2014 è alla guida della Federal Reserve: “Non vedo perché non potrei servire l'intero mandato alla Fed. Ho intenzione di restare per tutti i miei quattro anni''. Trump l'ha recentemente accusata di essere politicizzata, alimentando le indiscrezioni che in caso di una sua vittoria si sarebbe dimessa. Ma la Yellen non gli darà questa soddisfazione: mette in risalto i progressi dell’economia sotto la guida di Obama (e sua) ed è cauta sulle intenzioni espresse dal presidente eletto. ''Quando le nuove politiche saranno chiare, la Fed ne terrà conto nel fare le sue valutazioni'', guardando soprattutto all'impatto sull’occupazione.

Gente che va, gente che resta. E chi arriva? Qui, dopo le nomine degli addetti alla cucina interna della Casa Bianca, Priebus e Bannon, Trump s’è un po’ arenato sullo scoglio del segretario di Stato: alla sua prima scelta, Rudolph Giuliani, l’ex sindaco di New York, la stampa ha scovato conflitti d’interesse; al candidato del partito, l’ambasciatore John Bolton, molti rimproverano rigidità e asprezze di carattere. E’ saltato fuori il nome di Nikki Haley, governatrice della South Carolina, figlia d’immigrati indiani, astro nascente della destra moderata: una bella scelta, se non fosse che Nikki, in campagna elettorale, spesso s’è esplicitamente schierata contro Trump. Che, intanto, riceve Henry Kissinger, per cominciare a capirme qualcosa di esteri, e s’appresta a incontrare il primo leader straniero, il premier giapponese Shinzo Abe.

Il presidente eletto ha ancora problemi con il team che deve gestire la transizione – i lobbisti ne escono - e con le ambizioni dei familiari, figli e genero. Inoltre, alcuni ex rivali divenuti suoi sostenitori si presentano all’incasso: a parte il cado del governatore del New Jersey Chris Christie, che non si capisce se sia caduto in disgrazia, s’è fatto avanti il guru nero, ed ex neuro-chirurgo, Ben Carson, che si propone come responsabile dell’educazione nazionale: il suo credo oscurantista è il biglietto da visita giusto per l’America fondamentalista e creazionista.

Usa/Ue: Obama lusinga Merkel prima del consulto delle 'anatre zoppe'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/11/2016

Non so come facciano gli scongiuri i tedeschi, ma di certo Angela Merkel li ha fatti, e forse li sta ancora facendo, dopo che, ieri sera, il presidente Usa Barack Obama ha detto che, “se fossi tedesco”, “la sosterrei” alle prossime elezioni, nel settembre 2017. Obama ne ha fatto un vero e proprio panegirico: “Angela ha grande credibilità ed è una donna che lotta per i valori … Non avrei potuto avere una partner più affidabile”, con buona pace di tutti gli altri che ambiscono ad essere il miglior amico europeo dell’America.

La cancelliera tedesca avrà subito pensato alle recenti sortite di Obama contro la Brexit ed a favore di Hillary Clinton e avrà mormorato fra sé e sé l’equivalente tedesco del nostro “non c’è il due senza il tre”. Vero è che, di qui a settembre, ci sono altre occasioni perché il proverbio si realizzi. Ma, per prudenza, la cancelliera ha messo i puntini sulle I: ha ribadito che annuncerà “al momento opportuno” se si ricandiderà o meno per la quarta volta nelle politiche 2017, raffreddando, quindi, indicazioni in tal senso diffusesi nelle ultime ore.

Come già ad Atene, ma ben più che ad Atene, Obama s’è rassegnato ad essere arrivato a Berlino con un compagno di viaggio immaginario, ma invadente: il suo successore Donald Trump. La Merkel ieri e i leader europei presenti, oggi, al ‘Vertice delle anatre zoppe’, Hollande, la May, Rayoj, Renzi, parlano a lui, ma perché Donald intenda. Renzi, addirittura, ha già indossato i panni dell’avvocato d’ufficio del presidente eletto, criticando le battutine “fuori luogo” del presidente della Commissione europea Juncker.

Pure Obama, però, parla agli europei pensando a Trump o mandandogli messaggi, mentre il premier francese Valls, pure a Berlino, per un convegno, avverte che l’ “Europa può morire” di populismi propri o importati – lui pensa alle presidenziali francesi del prossimo maggio -. Obama di dice “incoraggiato” dalle recenti dichiarazioni del suo successore sul rispetto degli impegni con la Nato, perché – osserva – senza L’alleanza atlantica “il mondo è un posto peggiore”; e lo invita a non farla facile alla Russia se Putin non rispetta le regole del gioco. Sul fronte interno, riconosce che Trump “è forse la maggiore scossa nella storia americana”, ma poi afferma che, se migliorerà la sua riforma sanitaria, lo sosterrà – l’obiettivo, però, è piuttosto di smantellarla -.

La Merkel assicura che la Germania e in generale l’Europa faranno di più per la sicurezza atlantica, venendo incontro alle attese di Trump, e s’impegna a darsi da fare per una buona collaborazione con la nuova Amministrazione. La cancelliera è pure certa che Usa e Ue riprenderanno a negoziare sul Ttip, la zona di libero scambio transatlantica (se, quando e su che basi, però, dipende anche, e forse soprattutto, dal nuovo presidente).

La tappa di Berlino è stata fitta di contatti fra Obama e la Merkel: una cena mercoledì al ristorante dell’Hotel Adlon, quello del film del 1932 Grand Hotel con Greta Garbo, senza giornalisti – si sa solo che nel menù c’era il currywurst, la tradizionale salsiccia berlinese con ketchup e curry -; un colloquio in cancelleria ieri pomeriggio con conferenza stampa; una cena di gala all’ottavo piano del palazzo del governo la sera, aperta a esponenti della scena politica, sociale e culturale tedesca distintisi nel rafforzamento dei legami transatlantici.

Fra gli invitati, il direttore d'orchestra Daniel Barenboim, il direttore del Museo ebraico di Berlino Michael Blumenthal, l'allenatore tedesco della nazionale di calcio Usa Juergen Klinsmann, il regista Tom Tykwer, gli astronauti Thomas Reiter e Alexander Gerst, il consigliere per la politica estera Christoph Heusgen, scienziati e politici. Più scarna la presenza Usa: con Obama, Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale, e il suo vice Benjamin Rhodes, il consigliere per l'Europa Charles Kupchan e pochi altri.


Oggi, dopo il Vertice, Obama partirà per il Perù, per il suo congedo dai Paesi del Pacifico.

giovedì 17 novembre 2016

Usa 2016: Trump presidente, un uomo senza diga al proprio potere

Pubblicato da AffarInternazionali.it e, in versione diversa, da La Voce e Il Tempo il 17/11/2016

Due anni di tempo per realizzare due programmi: quello del presidente eletto Donald Trump e quello dei repubblicani. L’agenda del magnate è più fluida, funzione dell’umore e del momento; quella del partito è più prevedibile. Ci sono punti di contatto: la revoca, almeno parziale, dell’Obamacare, la riforma sanitaria dell’Amministrazione democratica. Ci sono punti d’attrito: l’attuazione del ‘piano migranti’, l’erezione del muro e l’espulsione d’irregolari. Ci sono concessioni ai fondamentalisti: la restituzione agli Stati del potere di decisione sull'aborto, riportando indietro gli Stati Uniti di oltre quarant'anni – questo è compito della Corte Suprema, che deve correggere l’impatto di una sentenza del 1973 -.

Indicazioni che gli analisti esprimono con cautela, dopo che sondaggisti, esperti, giornalisti, tutti siamo stati persino peggio degli economisti, che non ci azzeccano mai, nel leggere l’orientamento degli americani in vista dell’Election Day l’8 Novembre: la vittoria di Hillary Clinton, largamente pronosticata, s’è tramutata in una disfatta, nonostante l’ex first lady abbia ottenuto più voti popolari del suo rivale – ma, nel sistema federale Usa, contano i Grandi Elettori -.

Stavolta, gli elettori statunitensi hanno addirittura perso il loro senso dell’equilibrio paradigmatico: Trump e i repubblicani si trovano nelle mani tutto il potere, la Casa Bianca, il Congresso - Camera e Senato -, una netta maggioranza di governatori e di parlamenti statali; e possono inoltre imprimere alla Corte Suprema un orientamento decisamente conservatore – un giudice va nominato al più presto, per riempire il vuoto lasciato dalla morte di Antonin Scalia; e un altro posto sta per rendersi disponibile -. L’unico frangiflutti alla marea repubblicana è quello rappresentato da Yanet Yellen, che guida la Federal Reserve dal febbraio 2014 e che non può essere rimossa fino a fine mandato: nominata da Barack Obama, rispettata da tutti, la Yellen non è però una democratica d’ordinanza, ma piuttosto una tecnica.

Le proteste tardive di giovani (e donne) schizzinosi

Dopo il voto, l’America anti-Trump s’è messa in marcia e non s’è ancora fermata: ci sono state manifestazioni in decine di città e università, centinaia di arresti, un fiume in piena di giovani, donne, neri, ispanici che scandiscono lo slogan ‘Not My President’: sono reduci di Occupy Wall Street e militanti di Black lives matter, sono i Millennials, la cui neghittosità nel giorno del voto, però, è stata determinante, a favore del magnate. Ora vogliono smacchiarsi la coscienza. Ma è tardi.

Se i giovani – e le donne - l’8 novembre avessero votato numerosi come nel 2008 e nel 2012, oggi Hillary sarebbe il presidente eletto e loro non sarebbero in strada. Invece, la schizzinosità di chi – certo che Trump non ce l’avrebbe fatta – non è andato alle urne perché orfano di Bernie Sanders o perché non in sintonia con l’ex first lady ha messo le sorti dell’America nella mani di baby-boomers ormai pensionati o quasi, bianchi e maschi, consegnando la vittoria allo showman e alla sua cerchia di familiari, lobbisti e razzisti.

New York e Los Angeles hanno registrato le contestazioni più numerose, Portland in Oregon quelle più virulente. Il movimento coinvolge meno il Sud, le Grandi Pianure, le Montagne Rocciose, l’America più conservatrice ed evangelica, che Trump presidente l’ha voluto o se n’è fatta subito una ragione.

In chi manifesta, e in chi ne condivide la protesta, c’è il timore che Trump possa tradurre in pratica la deriva xenofoba, razzista e sessista sventolata durante la campagna elettorale. Si teme anche che prendano ulteriore vigore i gruppi suprematisti bianchi: il Ku Klux Klan, esagerando, si attribuisce un ruolo decisivo nell’elezione del magnate e annuncia un meeting a Charlotte, North Carolina, mentre sui muri delle città compaiono scritte inquietanti, ma non sorprendenti: "Rendiamo l'America bianca grande di nuovo", versione razzista dello slogan presidenziale.

I repubblicani fanno bingo, i democratici senza leader

La stampa americana risale indietro nel tempo, anche di un secolo, chiedendosi se e quando, vi sia mai stato un tale allineamento partitico dei tre poteri, l’esecutivo, il legislativo, il giuridico. Va, però, detto che i confronti sono difficili ed aleatori: il numero degli Stati varia, le modalità elettive del Senato pure. Nel recente passato, è accaduto a tutti e tre gli ultimi presidenti di avere dalla loro, almeno per un biennio, tutto il Congresso.

Il partito repubblicano, che pareva a pezzi, condannato alla minoranza dall’evoluzione demografica e diviso al proprio interno fra moderati, Tea Party, evangelici si ritrova padrone di tutto: con Trump, che doveva esserne l’esecutore testamentario, è risorto e ha fatto bingo, raccogliendo consensi che non aveva mai avuto (e che forse non avrà mai più).

Il partito democratico, che pareva destinato a tenere la presidenza e a riprendersi almeno il Senato, si ritrova con zero potere e senza squadra dirigente, perché nessuno dei suoi leader sarà spendibile nel 2020: Hillary Clinton è bruciata, dopo i flop 2008 e 2016; John Kerry è bruciato dal 2004; Bernie Sanders sarà troppo vecchio, come Joe Biden. E, se il mantra è il cambiamento, bisogna trovare qualcuno che lo rappresenti: Elizabeth Warren ha il volto giusto, ma l’età è un handicap – avrà 71 anni, uno in più di Trump oggi -.

Il New Yorker s’interroga su come il partito democratico possa uscire da questo incubo. La riscossa non potrà venire, se verrà, prima delle elezioni di midterm del 2018, quando le carte del Congresso potrebbero rimescolarsi.

Cambio di passo tra candidato e presidente?

Altroché cambio di passo, tra il candidato e il presidente: Trump, nella terra di mezzo tra l’elezione e l’insediamento, non abbandona il populismo. E l’ipotesi di un disimpegno degli Usa dagli accordi sul clima crea ansia e panico a livello planetario, proprio quando l’Onu diffonde i dati più allarmanti sul riscaldamento globale.

Preso in un vortice di interviste e telefonate, il presidente eletto annuncia che il suo stipendio sarà d’un dollaro l’anno, mentre anche i think tank conservatori s’interrogano su fattibilità ed efficacia d’alcune sue ricette, come il muro e le espulsioni.

Nel suo dire e fare post-voto, Trump fa il pendolo tra conferma della linea anti-establishment e ricerca di compromesso con i moderati: blandisce il presidente Obama, ma vuole smantellarne l’eredità; lusinga a modo suo Bill Clinton (“Ha talento”) e tranquillizza Hillary (l’inchiesta per sbatterla in carcere, minacciata nei dibattiti, non è una priorità); sceglie una colomba come capo dello staff alla Casa Bianca - Reince Priebus, uomo del partito – e un falco come “stratega e consigliere” – John Bannon, un razzista -.


Trump esce confortato da un colloquio telefonico con Vladimir Putin: rispetto reciproco e reciproca non ingerenza negli affari interni sarebbero i punti fermi del nuovo rapporto Usa-Russia. Invece, non dà eco ai messaggi dei leader dell’Ue e della Nato e riceve a casa sua il dandy euro-scettico Nigel Farage, l’artefice della Brexit, mentre il presidente Obama trova in Europa interrogativi cui non sa rispondere e inquietudini che non può stemperare.

Usa 2016: stop al blog, mille giorni senza lieto fine

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net e pubblicato il 17/11/2016

Questo mio blog www.GpNewsUsa2016.eu si ferma qui, dopo avere raccontato i mille giorni che hanno preceduto l’Election Day dell’8 Novembre negli Stati Uniti: le elezioni di midterm del 2014, le discese in campo degli aspiranti alle nomination dalla primavera 2015, l’estate e l’autunno segnati dai dibattiti fra gli aspiranti per farsi conoscere, l’inverno e la primavera delle primarie, l’emergere come battistrada e l’affermarsi di Hillary Clinton – a fatica – e di Donald Trump – imperiosamente -, le convention e le nomination, la campagna elettorale ed i tre dibattiti televisivi fra i due candidati, le sorprese d’ottobre, il voto.

Sinceramente, se avesse vinto Hillary avrei forse avanti il blog fino all’Inauguration Day, cioè fino al 20 gennaio. Ma, così, non me la sento proprio. Certo, c’entra la delusione e la preoccupazione dopo la vittoria di Trump, che, però, giornalisticamente, fa più notizia. Il motivo di fondo è che questi post, che lascio tali e quali, con le loro imperfezioni e i loro errori, senza operazioni di sorta alla ‘1984’, sono la testimonianza che per mille giorni non ci ho capito nulla.

Per me, Trump era un fuoco di paglia che si sarebbe presto spento; un istrione che riusciva a farsi notare fra gli altri tanti aspiranti repubblicani, capace d’animare l’estate del 2015, ma nei cui confronti l’interesse del pubblico si sarebbe prima o poi logorato; un fenomeno che mobilitava elettori altrimenti renitenti al voto, ma che sarebbe stato bloccato sulla via della nomination dall’establishment repubblicano e da un antagonista credibile; un candidato alla presidenza aggressivo e sguaiato, razzista e sessista, che sarebbe stato spazzato via dal voto popolare. Non ci ho mai azzeccato.

A fronte della mia incapacità di misurare, e quindi raccontare in modo adeguato, personaggi e situazioni, che non è resa meno stridente dal fatto di essere condivisa con sondaggisti, guru, esperti e giornalisti d’America e di tutto il Mondo, a risultati noti mi sono reso conto che c’era una marea di americanisti che avevano capito tutto - e che probabilmente non l’hanno scritto prima per rispetto verso colleghi come me, quotidianamente annaspanti nell’errore -. E m’è finalmente apparso chiaro come e perché sia la vittoria del magnate showman sia la sconfitta dell’ex first lady secchiona erano, fin dall'inizio, inevitabili e scontate.

Fuor di celia, e di livore, io continuo ad attribuire importanza alla preparazione, alla competenza, all'impegno e all'onestà – tratti che Hillary, almeno per tre quarti, ha e che invece Donald, almeno per tre quarti, non ha -. E mi sembra così inverosimile che uno come Trump possa divenire presidente degli Stati Uniti che non prendo neppure in considerazione l’ipotesi, rischiando, com'è accaduto, di trascurare i segnali che vengono dalla cronaca.

In questo momento, il pessimismo prevale sull'ottimismo. E il timore che il trend Brexit – Trump s’estenda ai prossimi appuntamenti elettorali europei, a cominciare dalle presidenziali in Austria, per proseguire con le presidenziali in Francia e le politiche in Germania, è grande. Non è escluso che, da qui a 15 mesi, più o meno, mi rimetta a raccontare, cercando di prendere meno cantonate, e sempre senza prendermi troppo sul serio, i mille giorni che mancheranno a Usa 2020, ma è presto per prendere impegni.

Prima di chiudere il pezzo e il blog, che resterà comunque accessibile - testimonianza, modesta e marginale, dell’insipienza, o incompetenza, cronistica - e diventerà presto una sezione del mio nuovo blog GPNews, che vi inviterò a visitare quanto prima, desidero ringraziare tutti quanti lo hanno reso possibile e/o vi hanno mostrato interesse: prima di tutto, i visitatori; poi, in particolare, lo Studio Ahmpla, senza il quale non sarebbe mai stato realizzato, il sito Formiche.net, che ne ha accolto i post in una sua sezione ‘ad hoc’, e la @Italic Digital Editions srl, per la quale, con l’aiuto di Gabriele Rosana, ne ho ricavato e pubblicato un ebook. (gp)

mercoledì 16 novembre 2016

Usa 2016: la vittoria di Trump, i dati Stato per Stato

Pubblicato su www.GpNewsUsa2016 il 16/11/2016

http://www.gpnewsusa2016.eu/90-slide-show-gp-news-usa-2016-di-giampiero-gramaglia/913-risultati-la-vittoria-di-trump-i-dati-stato-per-stato.html

Usa 2016: in mano a Trump, squilibrio di poteri (quasi) senza precedenti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/11/2016

Questa volta, gli elettori americani hanno proprio perso il loro senso dell’equilibrio paradigmatico: Donald Trump e i repubblicani si trovano nelle mani tutto il potere, la Casa Bianca, il Congresso - , Camera e Senato, una netta maggioranza di governatori e di parlamenti statali; e possono imprimere alla Corte Suprema un orientamento decisamente conservatore – un giudice va nominato al più presto, per riempire il vuoto lasciato dalla morte di Antonin Scalia; e un altro posto sta per rendersi disponibile -. L’unico frangiflutti alla marea repubblicana è quello rappresentato da Yanet Yellen, che guida la Federal Reserve dal febbraio 2014 e che non può essere rimossa fino a fine mandato: nominata da Barack Obama, rispettata da tutti, la Yellen non è però una democratica d’ordinanza, ma piuttosto una tecnica.

La stampa americana risale indietro nel tempo, anche di un secolo, chiedendosi se e quando, vi sia mai stato un tale allineamento partitico dei tre poteri, l’esecutivo, il legislativo, il giuridico. Va, però, detto che i confronti sono difficili ed aleatori: il numero degli Stati varia, le modalità elettive del Senato pure. Nel recente passato, è accaduto a tutti e tre gli ultimi presidenti di avere dalla loro, almeno per un biennio, tutto il Congresso.

Il partito repubblicano, che pareva a pezzi, condannato alla minoranza dall’evoluzione demografica e diviso al proprio interno fra moderati, Tea Party, evangelici si ritrova padrone di tutto: con Trump, che doveva esserne l’esecutore testamentario, è risorto e ha fatto bingo, raccogliendo consensi che non aveva mai avuto (e che forse non avrà mai più).

Il partito democratico, che pareva destinato a tenere la presidenza e a riprendersi almeno il Senato, si ritrova con zero potere e senza squadra dirigente, perché nessuno dei suoi leader sarà spendibile nel 2020: Hillary Clinton è bruciata, dopo i flop 2008 e 2016; John Kerry è bruciato dal 2004; Bernie Sanders sarà troppo vecchio, come Joe Biden. E, se il mantra è il cambiamento, bisogna trovare qualcuno che lo rappresenti: Elizabeth Warren ha il volto giusto, ma l’età è un handicap – avrà 71 anni, uno in più di Trump oggi -.

Il New Yorker s’interroga su come il partito democratico possa uscire da questo incubo. La riscossa non potrà venire, se verrà, prima delle elezioni di midterm del 2018, quando le carte del Congresso potrebbero rimescolarsi. Ma, intanto, i repubblicani intendono sfruttare le carte che hanno in mano per fare subito quanto i loro elettori giudicano prioritario: la revoca, almeno parziale, della riforma sanitaria varata da Obama; l’attuazione di qualche promessa sul fronte migranti, l’erezione del muro e l’espulsione d irregolari; e, per compiacere i fondamentalisti, la restituzione agli Stati del potere di decisione sull’aborto, riportando indietro gli Stati Uniti di oltre quarant’anni – questo è compito della Corte Suprema, che deve cancellare una sentenza del 1973 -.

Trump è uscito confortato dal colloquio telefonico di lunedì con Vladimir Putin: rispetto reciproco e reciproca non ingerenza negli affari interni sarebbero i punti fermi del nuovo rapporto Usa-Russia. Ma il presidente eletto non va avanti spedito nella definizione della squadra di governo: ha problemi di famiglia – il genero Jared Kushner, marito di Ivanka, un editore ebreo, esita ad accettare un ruolo alla Casa Bianca – e ha problemi a fare accettare al partito alcuni suoi uomini.

Con il rischio di cadere dalla padella nella brace. Nell’ottica della stabilità mondiale, l’attenzione si concentra sui segretari di Stato e alla Difesa. Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, un uomo tutto ‘Law & Order’, pareva destinato alla Giustizia, ma potrebbe fare il segretario di Stato, anche se i media gli agitano contro storie di conflitti d’interesse. Il partito, però, gli preferisce un falco dell’epoca di George W. Bush, John Bolton, capace di avere pessimi rapporti con tutti i suoi interlocutori e collaboratori. Comunque vada, molti ministri degli Esteri rimpiangeranno John Kerry, un gentiluomo.

martedì 15 novembre 2016

Usa 2016: Trump persevera, nomina un razzista, telefona a Putin

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/11/2016

Altroché cambio di passo, tra il candidato e il presidente: per Donald Trump, nella terra di mezzo tra l’elezione e l’insediamento, è sempre l’ora dei populismi. E l’ipotesi di disimpegno degli Usa dagli accordi sul clima crea ansia e panico a livello planetario, poiché l’Onu diffonde dati allarmanti sul riscaldamento globale.

Preso in un vortice di interviste, il presidente eletto annuncia che il suo stipendio sarà di un dollaro l’anno: roba che i grillini in Italia ci rodono (ma Donald può permetterselo; e poi - diciamola tutta - sui 400 mila dollari che gli sarebbero toccati avrebbe dovuto pagarci le tasse).

"Credo di dovere prendere per legge almeno un dollaro e allora prenderò un dollaro l'anno”: Trump risponde così a Lesley Stahl, di 60 Minutes, che gli chiede se prenderà lo stipendio da presidente degli Stati Uniti. "La risposta è no" dice il magnate, che poi mostra di non sapere neppure quale sia la retribuzione da comandante in capo. Quando la Stahl gli fa notare che sta rinunciando a 400 mila dollari, Trump resta fermo: "Non li prenderò".

Le dichiarazioni del presidente eletto sono ad ampio raggio: dopo avere ribadito l’intenzione d’espellere tre milioni di immigrati illegali e di alzare la barriera al confine con il Messico, conferma di volere nominare alla Corte Suprema un giudice anti-aborto e insiste nel sostenere che le migliaia di manifestanti che dalla sera del 9 sfilano contro di lui sono “attivisti pagati”. Ma Trump invita pure i suoi sostenitori a cessare gli attacchi razzisti, s’impegna a eliminare i lobbisti dal suo ‘transition team’ – ma se li ha appena nominati? – e afferma che tra lui e Barack Obama c’è una buona intesa.

Anche i think tank conservatori s’interrogano sulla fattibilità del muro e sull'efficacia. Nel suo dire e fare post-elezione, Trump oscilla tra la conferma della linea anti-establishment, che lo ha portato al successo, o la ricerca di un compromesso con i moderati del partito repubblicano. Le scelte finora fatte lo confermano: una colomba come capo di gabinetto alla Casa Bianca e un falco come stratega e primo consigliere.

In un'ottica pragmatica e concreta, il presidente eletto inizia a comporre la sua squadra partendo dall'incarico più delicato: il capo di gabinetto (di fatto, una sorta di premier) sarà Reince Priebus, l’attuale presidente del partito repubblicano, tra i pochissimi esponenti dell’establishment che non gli sono stati ostili, capace di fare da ponte tra il magnate e i moderati che l’osteggiavano.

Stephen Bannon, ex patron del sito conservatore Breitbart, ex capo della campagna elettorale, sarà, invece, "capo stratega e consigliere anziano" della Casa Bianca, una carica inventata per lui, che non ha invece buoni rapporti con l’establishment repubblicano.

Bannon ha guidato per quattro anni, dopo la morte del fondatore Andrew Breitbart, il sito populista, rendendolo portavoce "della "piattaforma di alt-right", piccola ma rumorosa frangia legata all'ideologia della destra radicale, suprematista e anti-semita. Sotto la guida di Bannon, il sito è stato palestra per teorici della cospirazione anti-Obama e dell'allarmismo xenofobo: la sua nomina suscita una tempesta anti-razzista.

Mentre il presidente eletto lavora alla sua squadra, il presidente Obama è in arrivo in Europa, dove trova interrogativi cui non saprà rispondere e inquietudini che non potrà stemperare. Fermentano pure ottimismi idealistici, come quelli di Federica Mogherini, che, al neo-isolazionismo di Trump, risponde con propositi di difesa europea. Un po’ fuori dal coro il ministro Gentiloni che trova l’Ue “preoccupata”, anti “troppo preoccupata” dopo il consulto con i colleghi dei 28. Da Washington, per il momento, nessuna risposta alla lettera dei leader europei.


Terrorismo internazionale e questione siriana sono i temi della prima telefonata tra Trump e Putin, di cui danno notizia i russi. La Cina e, a sorpresa, l’Iran aprono alla cooperazione con il magnate. E il turco Erdogan, che forse un po’ come Putin si riconosce in lui, vuole invece incontrarlo presto.

lunedì 14 novembre 2016

Usa 2016: migranti, Trump conferma muro e deportazioni; protesta continua

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/11/2016

Donald Trump riceve a casa sua Nigel Farage e tiene fuori dalla porta Michael Moore, mentre almeno 15mila persone gli sfilano protestando sotto la Trump Tower sulla 5a Strada a New York, ormai militarizzata per evitare incidenti e incursioni. L’artefice della Brexit è l’unico politico straniero finora ammesso alla presenza del presidente eletto degli Stati Uniti, che non ha dato eco alle lettere dei leader dell’Unione europea e del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. L’ex premier norvegese lo avverte che neppure l’America, malgrado la sua cospicua potenza, può affrontare da sola, senza gli alleati europei, le sfide della sicurezza.

In un clima di tensione, che le dichiarazioni altalenanti di Trump non contribuiscono ad attenuare, nonostante parte della stampa si sforzi di trovarvi del buono, il presidente Barack Obama s’appresta a iniziare, domani, la sua ultima missione europea, ad Atene, dove il premier Tsipras se ne aspetta un incoraggiamento, e a Berlino, dove incontrerà il ‘club delle anatre zoppe’, leader come lui tutti o a fine mandato o indeboliti da scadenze elettorali. Gli europei lo faranno certo partecipi dei timori d’un neo-isolazionismo americano e dell’imprevedibilità del suo successore: ieri sera, a Bruxelles, c’è stato, su questo, un consulto fra i ministri degli Esteri dei 28.

Trump, che nelle dichiarazioni si direbbe alterni zuccherini e olio di ricino, conferma la linea dura sull'emigrazione della sua campagna: via subito due/tre milioni di immigrati clandestini sugli 11 milioni stimati, e su il muro al confine con il Messico (che, in certi tratti, sarà una recinzione, ma poco cambia).

Il fine settimana non ha attenuato, ma ha anzi ampliato le proteste anti-Trump, che vanno ormai avanti da quattro notti e quattro giorni. New York e Los Angeles registrano le manifestazioni più numerose, Portland in Oregon quelle più virulente. Cortei e sit-in sono, in genere, pacifici, ma ci sono stati centinaia di arresti, specie quando i manifestanti non rispettavano gli spazi loro riservati – è accaduto soprattutto a Los Angeles, al MacArthur Park -.

Il tema della protesta è ovunque ‘Not my President’, ma a Chicago, la città degli Obama e di Hillary Rodham Clinton, il messaggio è stato più articolato: "No all'odio. No alla paura. Benvenuti migranti". A New York, la marcia è partita da Union Square ed ha risalito Manhattan verso nord, verso la Trump Tower, davanti alla quale sono stati collocati blocchi di cemento anti-autobombe, mezzo blindati leggeri e transenne.

La manifestazioni proseguiranno nei prossimi giorni: una, la 'marcia di un milione di donne’, si farà a Washington il giorno dell’insediamento di Trump, il 20 gennaio. Ma c’è pure chi vuole esprimere il proprio sostegno al presidente eletto: il Ku Klux Klan lo vuole fare a Charlotte, North Carolina.

Il regista Michael Moore, che aveva predetto l’elezione di Trump, pur avendo cercato di sventarla con il docu-film ‘TrumpLand’, s’è addentrato nel grattacielo dove il magnate e la sua famiglia vivono, ma non è riuscito ad accedere ai tre ultimi piani, quelli occupati dai Trump: ha documentato tutto con un videofonino e ha lasciato un messaggio per il presidente eletto.

Il leader euro-scettico Farage non ha invece avuto nessun problema a essere ricevuto da Trump: gli è stato mentore prima dei dibattiti televisivi e ne condivide la linea sull’immigrazione; e adesso lo convince a rimettere nello Studio Ovale il busto di Winston Churchill che George W. Bush aveva e che Obama ha tolto.

Dopo 72 ore di silenzio, è tornata a farsi sentire la candidata democratica sconfitta. Hillary Clinton, in una conference call con i suoi donatori, di cui riferiscono media Usa, attribuisce la responsabilità della disfatta al direttore dell'Fbi James Comey, l’uomo che annunciò la riapertura dell’inchiesta sulle sue mail il 28 ottobre e la richiuse il 5 novembre. Entrambe le mosse ebbero effetto negativo per la Clinton, che, a fine ottobre, aveva il vento dei sondaggi in poppa, mentre Trump annaspava.

"La nostra analisi – ha detto l’ex first lady ai suoi finanziatori - è che Comey prima, seminando dubbi senza fondamento, fermò il nostro slancio e poi fece ancora più danni, rafforzando l'idea, sostenuta da Trump, che il sistema sia truccato".


Tra interviste e incontri, Trump lavora alla sua nuova squadra. E prepara i primi contatti con leader di governo esteri: in pole position, per incontrarlo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Lui e Obama non si potevano proprio sopportare.

domenica 13 novembre 2016

Usa 2016: spari a Portland, proteste ovunque; e Trump ora media

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/11/2016

Spari nella notte a Portland. E, per la prima volta, scorre il sangue, nelle manifestazioni di protesta per l’elezione di Donald Trump a 45° presidente degli Stati Uniti, che il week-end non arresta. Anzi, 10 mila persone si danno appuntamento a Manhattan per quello che dovrebbe essere il corteo più imponente finora svoltosi: “Fermiamo Trump e la sua agenda razzista”, è il tema che, postato online, ha raccolto una vaanga di adesioni. Dalle due coste e dai Grandi Laghi, le manifestazioni si sono ormai estese a Cleveland, Memphis e altre città anche dell’America repubblicana.

"Tutte le oppressioni creano uno stato di guerra", recitava uno striscione a Miami, in Florida, mentre ad Atlanta, in Georgia, i manifestanti si sono radunati davanti alla casa nacque Martin Luther King, il martire della lotta non violenta per i diritti civili. Sui social media è virale il video degli studenti d’una scuola media del Michigan che scandiscono a mo’ di sfida "Costruisci il muro".

Tre giorni e ormai quattro notti di protesta, centinaia di arresti, contusi fra i dimostranti e le forze dell’ordine. La parola d’ordine è ‘Not my President’, ma l’obiettivo resta vago. Lui, Trump, dopo avere inizialmente antagonizzato i manifestanti, essenzialmente giovani, sembra volere lasciare sbollire la rabbia. E, intanto, nelle interviste, alterna il bastone e la carota, fa il buonista e l’amicone: tattiche da imprenditore che negozia, più che da politico che media; ma, alla fine, non c’è molta differenza.

L’unico incidente grave a Portland, in Oregon: l'uomo raggiunto da una pallottola non è in pericolo di vita, lo sparatore è in fuga. Secondo la polizia, c'è stato un alterco tra i partecipanti alla marcia anti-Trump e un automobilista sul Morrison Bridge: l’autista, un afroamericano sui vent’anni, felpa con cappuccio scuro e jeans, ha urlato qualcosa, poi è sceso e ha sparato vari colpi d'arma da fuoco.

La situazione in città – un agglomerato di quasi due milioni e mezzo d’abitanti - era tesa. La polizia aveva già sparato gas lacrimogeni e granate stordenti, cercando di disperdere i manifestanti, che avevano letteralmente invaso le strade, mandando in tilt il traffico, lanciando oggetti incendiari, spruzzando graffiti sui muri e compiendo atti di vandalismo.

A New York, per prevenire incidenti, la polizia ha eretto barricate mobili e piazzato camioncini anti-bomba pieni di sabbia davanti alla Trump Tower, il quartier generale e la residenza del neo-presidente, sulla V Strada. Michael Moore, il regista ‘liberal’ che ne aveva previsto l’elezione, profetizza ora che non finirà il mandato. Bernie Sanders condivide “la rabbia” delle piazze.

In dichiarazioni televisive e al Wall Street Journal, oltre che nel contratto con gli elettori per i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca, Trump dà una virata sull’Obamacare, la riforma sanitaria fatta dal presidente Barack Obama e che pareva destinata a essere smantellata: resterà l'obbligo d’assicurare anche persone con condizioni mediche preesistenti e la possibilità per i figli d’usufruire della copertura dei genitori fino a 26 anni. "Ho seguito il consiglio" di Obama , dice Trump; e non esclude di chiedere pure quello di Bill Clinton, che “ha talento”.

Trump dice pure che l’inchiesta per mandare in prigione Hillary Clinton, minacciata in campagna, non è una priorità, mentre lo è la sicurezza dei confini (e lo stop agli accordi di Parigi sul clima). Fronte Siria, la priorità è combattere il sedicente Stato islamico e non cacciare al-Assad: cosa che conferma la sintonia con Vladimir Putin, da cui – rivela - ha ricevuto “una bellissima lettera”.

Obama ricambia l’ammorbidimento di Trump abbandonando i tentativi di varo del Tpp, controverso patto commerciale trans-Pacifico. Ma ci sono democratici che vogliono resistere. Bill DeBlasio, sindaco di New York, fa sapere che, se il presidente eletto vorrà espellere i clandestini, come annunciato in campagna, non avrà la sua collaborazione: lui non gli consegnerà liste di irregolari.

E’ intanto trapelato che la rimozione del governatore del New Jersey Chris Christie dalla direzione del ‘transition team’, affidata al vice-presidente Mike Pence e imbottito di lobbisti, sarebbe forse dovuta a una faida interna al cerchio magico di Trump: Christie, nel 2005, da procuratore federale, mandò in carcere per due anni il padre del genero del magnate Jared Kushner. Charles Kushner, imprenditore edile e figura di spicco della comunità ebraica del New Jersey, si riconobbe colpevole di frode fiscale, finanziamenti elettorali illeciti e pressioni sui testimoni.

Trump deve ora definire la composizione della sua Amministrazione: prima dell’insediamento, dovranno essere identificati almeno i ministri, almeno i principali. Quanto ai restanti incarichi pubblici da assegnare, circa 4.000, l'iter partirà dopo, anche perché alcuni richiedono il disco verde del Senato, oltre che dell'intelligence.

sabato 12 novembre 2016

Usa 2016: proteste, da Occupy Wall Street a Occupy Trump

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/11/2016

L’America anti-Trump s’è messa in marcia e non si ferma più: centinaia di migliaia di manifestanti in decine di città e università, centinaia di arresti, un fiume in piena di giovani, donne, neri, ispanici che rilanciano lo slogan ‘Not My President’: sono reduci di Occupy Wall Street e militanti di Black lives matter, sono i Millennials, la cui neghittosità nel giorno del voto è stata determinante, a favore del magnate. Ora vogliono smacchiarsi la coscienza. Ma è tardi.

Gli arresti, in genere provocati da blocchi stradali, sono stati più numerosi sulla West Coast: solo la scorsa notte, 185 a Los Angeles, in California, una trentina a Portland, in Oregon, dove ci sono pure stati atti vandalici. Cortei, sit-in, manifestazioni, cominciate la sera di mercoledì, sono proseguite per tutta la giornata e la notte di giovedì e pure ieri, che era giorno festivo, il Veteran Day, la fine della prima Guerra Mondiale.

Il presidente eletto non gradisce: "Ho appena vinto un'elezione presidenziale aperta e di successo – commenta acre su twitter la notte tra giovedì e venerdì -. Adesso contestatori di professione incitati dai media, protestano. Molto ingiusto!". Segno che ha ripreso il controllo del suo account, che gli sarebbe stato sottratto dal suo team nelle ultime battute della campagna elettorale.

Poi, qualcuno gli rammenta quel che dice la Costituzione sulla libertà di espressione. Così, Trump cambia registro, ma non social media: "Ci uniremo tutti e ne saremo orgogliosi. Mi piace che piccoli gruppi di manifestanti mostrino la loro passione per il nostro grande Paese". Lo showman, dunque, si propone in versione edulcorata, che sa di posticcio.

La mappa delle proteste parte dal New England – New York – e va ai Grandi Laghi – Chicago – e alla Bay Area di San Francisco; da Washington e va a Detroit e a Los Angeles. Coinvolge invece meno il Sud, le Grandi Pianure, le Montagne Rocciose, l’America più conservatrice ed evangelica, che Trump presidente l’ha voluto o se n’è fatta subito una ragione.

In chi manifesta, e in chi ne condivide la protesta, c’è il timore che Trump possa tradurre in pratica la deriva xenofoba, razzista e sessista sventolata durante la campagna elettorale. Si teme anche che prendano ulteriore vigore i gruppi suprematisti bianchi: se il Ku Klux Klan, esagerando, rivendica un ruolo decisivo nell’elezione del magnate, sui muri delle città compaiono scritte inquietanti, ma non sorprendenti: "Rendiamo l'America bianca grande di nuovo", versione razzista dello slogan presidenziale.

Se i Millennials martedì scorso avessero votato numerosi come nel 2008 e nel 2012, oggi Hillary sarebbe il presidente eletto e loro non sarebbero in strada. Invece, la loro pigrizia ha messo le sorti delle elezioni nelle mani dei baby-boomers ormai pensionati, consegnando la vittoria a Trump.

La protesta è fine a se stessa?, o può cambiare le cose? Teoricamente, una speranza c’è: è affidata all’ ‘elettore infedele’, cioè al Grande Elettore che tradisce il proprio mandato e ribalta il verdetto delle urne. Il sistema americano lo prevede e lo sanziona pure: 24 Stati obbligano i Grandi Elettori ad attenersi al mandato, pena il pagamento di una multa fino a mille dollari.

E’ difficile che accada, ma non è impossibile: attivisti democratici, sul web, provano a fare valere che il voto popolare è stato appannaggio della Clinton con un vantaggio su Trump di oltre 200mila preferenze, mentre il magnate ha ottenuto nove Grandi Elettori oltre la soglia fatidica di 270.

Sulla piattaforma change.org, è stata lanciata una petizione che ha già superato due milioni di firme: "Hillary ha vinto il voto popolare. Trump ha 'vinto' grazie al Collegio Elettorale che, però, può dare la Casa Bianca a qualunque candidato. Quindi, perché non usare la più antidemocratica delle nostre istituzioni per assicurare un risultato democratico?".

L'eventualità non si è mai verificata nella storia Usa. Anzi, dal 1968 i casi di elettori infedeli sono stati solo sei, di cui uno per errore, e non hanno avuto alcuna influenza sul risultato finale. E, poi, non è affatto detto che gli infedeli voterebbero per la Clinton, e non per un altro repubblicano. Se nessun candidato raggiungesse quota 270, la decisione toccherebbe alla Camera, dove i repubblicani sono maggioranza.

Usa 2016: Trump intima l'altolà a Obama, se ti muovi ti fulmino

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/11/2016

Al Vertice di Berlino del 18 novembre, il Vertice delle anatre zoppe, fra leader tutti elettoralmente malconci o attesi a breve scadenza da appuntamenti cruciali, il presidente Usa Barack Obama arriverà già impallinato dal fuoco amico del suo successore Donald Trump. Con un gesto d’arroganza politica e di scortesia istituzionale senza molti precedenti, il team del presidente eletto ammonisce quello in carica a non fare passi rilevanti in politica estera durante la transizione, che durerà 70 giorni, perché c’è il rischio di “mandare segnali contrastanti”.

Il monito, un altolà in piena regola, arriva da un consigliere di Trump per la sicurezza nazionale che parla a Politico chiedendo di non essere citato – si ipotizza che sia il generale Michael T. Flynn, ex direttore della Dia, la Defense Intelligence Agency, cui in queste ore si prestano svariati incarichi nella nuova Amministrazione, tutti nell’ambito della difesa e della sicurezza.

"Sulle grandi questioni su cui il presidente Obama e il presidente eletto Trump non sono allineati, non penso – dice la fonte a Politico - che sia nello spirito della transizione tentare di fare passare punti dell’agenda” conflittuali: "Sarebbe controproducente e manderebbe segnali contrastanti”.

Pence, e non Christie, a capo della transizione – L’avvertimento giunge mentre, a Washington e sui media, impazza il toto-nomine. Uno scossone arriva a metà giornata: Trump affida la guida del ‘transition team’ al suo vice Mike Pence, revocandola al governatore del New Jersey Chris Christie.
Secondo indicazioni raccolte dal New York Times, Trump vuole sfruttare esperienza e conoscenze di Pence a Washington – è stato per cinque mandati deputato al Congresso – per accelerare i tempi di formazione della nuova Amministrazione. Il vice-presidente eletto sarà assistito dal governatore Christie, che resta quindi nel giro, dal generale Flynn e da Rudolph Giuliani. Dentro pure tre figli del magnate: Donald jr, Eric e Ivanka.

Il viaggio di congedo di Obama - Il viaggio di congedo di Obama in Europa partirà dalla Grecia e proseguirà, il 17 e 18, in Germania, dove incontrerà fra gli altri Angela Merkel, cancelliera in crisi sul fronte interno, Francois Hollande, che già pensa alle presidenziali in primavera, Theresa May, che non sa come uscire dalle peste della Brexit, Mariano Rajoy, che ha appena uscito dallo stallo, ma che guida un governo di minoranza, e Matteo Renzi, atteso fra tre settimane dal referendum.

Per Obama, sarà l’occasione di un ‘arrivederci a presto’, magari sulla panchina ai giardinetti. Prima che Trump vincesse le elezioni, s’ipotizzava che Obama tranquillizzasse gli alleati della continuità delle relazioni con Ue e Nato – nel caso che fosse stata eletta Hillary Clinton – e cercasse, magari, di disincagliare le trattative verso la partnership commerciale transatlantica (Ttip).

Altro obiettivo del viaggio, che si concluderà in Perù, poteva essere di premere sul Congresso perché avalli l’accordo commerciale trans-pacifico (Tpp). Tutti passi oggi non più immaginabili: l’elezione di Trump significa discontinuità, non continuità; e il Tpp è a rischio rinegoziato.

L’altolà va, però, contro le consuetudini del semestre bianco delle Istituzioni americane: una ‘terra di nessuno’ rispettata da entrambe le parti e non occupata militarmente né dall’una né dall’altra. Non che tutto fili semre liscio come tra gentleman: nel 2001, i clintoniani lasciarono ai bushiani uffici spettrali, cassetti sventrati e computer non funzionanti con gli hard disk cancellati. Ma allora c’era stata di mezzo, ad esacerbare gli animi, la conta e riconta dei voti in Florida.

Trump, invece, ha solo fretta di spazzare via l'era Obama. Il presidente ripropone l’appello all’unità: "Adesso che le elezioni sono finite, cerchiamo di unirci", dice al cimitero di Arlington, commemorando i caduti in guerra. "I nostri principi sono più duraturi delle nostre posizioni politiche": oggi, è più un auspicio che una constatazione.

venerdì 11 novembre 2016

Usa 2016: Obama-Trump incontro freddo, ma fuori l'America si scalda

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/11/2016 e ripreso da www.GpNewsUsa2016,eu e Formiche.net

L’incontro alla Casa Bianca tra il presidente Barack Obama e il presidente eletto Donald Trump è stato “meno imbarazzante di quanto si poteva immaginare”: se questo è quanto di meno peggio riesce a dirne il portavoce Josh Earnest, il colloquio non dev’essere stato davvero granché.

E, intanto, le fetta d’America che non ha votato Trump, più grande di quella che l’ha votato, fatica ad adattarsi all’idea che sia presidente: decine di migliaia di persone, per lo più giovani, sono scese in piazza in tutta l’Unione, pure davanti alla Casa Bianca, scandendo lo slogan ‘Not my President’; e le proteste si sono rinnovate la notte scorsa. Certo, sarebbe stato più utile se molti di quei giovani, irriducibili ‘sanderistas’ o reduci di ‘Occupy Wall Street’, fossero andati a votare martedì, invece che starsene a casa perché delusi dall’assenza di Bernie Sanders e non convinti da Hillary Clinton.

L’incontro tra Barack e Donald - L’incontro nello Studio Ovale è stato come togliersi un dente, per i due protagonisti: s’aveva da fare ed è stato fatto. Una stretta di mano che più rapida non si può, un’ora e mezzo di colloquio, quattro battute davanti a telecamere e giornalisti, senza rispondere a domande, ma limitandosi a fare brevi dichiarazioni.

Trump aveva l’aria di quello che non è a suo agio e un po’ sbuffa, Obama aveva l’aria vagamente scanzonata di chi sta per andare in vacanza: gli sguardi che non s’incontrano quasi mai, il peso del corpo appoggiato al bracciolo della poltroncina lontano dal proprio interlocutore. Il presidente parla di una “eccellente conversazione”, assicura che farà di tutto perché il nuovo presidente riesca nel suo compito, perché “il suo successo sarà il successo del nostro Paese”. Trump dice che incontrare Obama “è stato un onore”, che il presidente è “proprio una brava persona” e che lui è pronto a lavorare insieme per la transizione, che durerà 70 giorni, fino all’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio.

Banalità assolute, acqua fresca. Del resto, fino a lunedì scorso, i due se le davano di santa ragione, sia pure a parole e a distanza: Trump attribuiva ad Obama, e alla Clinton, tutti i mali del Mondo e dell’America; Obama ripeteva di continuo che Trump “non è qualificato” per fare il presidente e ammoniva che la sua elezione sarebbe stata “un pericolo” per le istituzioni statunitensi. Su entrambi i punti, è probabile che Obama continui a pensarla allo stesso modo.

Però, il galateo istituzionale ha le sue regole e bisogna rispettarle. Magari non proprio fino in fondo: secondo il Wall Street Journal, infatti, gli Obama hanno cancellata la ‘foto di famiglia’ con Donald e Melania all’ingresso sud della Casa Bianca, Nel novembre 2008, nella loro analoga prima visita alla Casa Bianca dopo le elezioni, Barack e Michelle posarono accanto a George W. Bush e a Laura.

La demolizione dell’eredità di Obama - Nel colloquio con Obama, Trump ha evocato le difficoltà e i problemi che vede di fronte a sè. Obama lo ha pure informato dei prossimi, e ultimi, viaggi che s’appresta a fare da presidente, visitando Germania, Grecia e Perù. I due, ammette Earnest senza giri di parole, “non hanno superato le differenze”, anche se Obama giudica “rassicuranti” i toni più recenti di Trump, adottati da quando è stato eletto.

Il magnate e showman ha pure fatto togliere dal suo sito l’anatema sui musulmani, cioè il proposito di vietarne l’ingresso negli Usa. Forse, qualcuno gli ha spiegato che la discriminazione razziale e religiosa è incostituzionale e che il presidente non può violare la Costituzione.

Dalla Casa Bianca, Trump s’è poi trasferito in Congresso, per un altro incontro non proprio facile: quello con lo speaker della Camera Paul Ryan, che in campagna gli ha lesinato il consenso ed è stato invece prodigo di critiche. Operativamente, però, i due hanno subito trovato un’intesa: l’Amministrazione repubblicana si muoverà rapidamente per abolire l’Obamacare, il lascito più importante del doppio mandato di Barack Obama, e per riformare i meccanismi fiscali, riducendo, in particolare, le aliquote a carico delle aziende.

Proteste in tutta l’Unione – Superato lo shock dell’elezione di Trump e della sconfitta di Hillary, l’America democratica si mette in marcia: nelle strade di decine di città di tutta l’Unione, sfila la rabbia di chi non vuole il magnate sessista e l’elusore fiscale alla Casa Bianca.

La protesta parte da New York, dove Trump vive, e s’allarga in poche ore dall’una all’altra costa, mettendo in allarme autorità e forze dell'ordine, che temono scontri nei prossimi giorni: l’allerta è massima, in vista del fine settimana.

Lo slogan 'Not my President' unifica un movimento variegato: dalle 'donne di Hillary' ai 'sanderisti', arrivando fino ai repubblicani moderati profondamente delusi dal proprio partito. Decine di migliaia di persone hanno manifestato, tra mercoledì e giovedì, in almeno 25 città: un centinaio gli arresti; e cortei e sit-in si sono ripetuti nelle ultime ore. Le proteste più numerose a Manhattan e Los Angeles, la più violenta a Oakland, con lancio di molotov, sassi e tre agenti feriti. Cortei si sono svolti anche a Boston, Filadelfia, Chicago, Detroit, Cleveland, Seattle, San Francisco e altrove.

Su Facebook è stata aperta una pagina 'Not my President', al fine di organizzare un mega-raduno a Washington il 20 gennaio, in occasione dell'Inauguration Day, per farne l’insediamento più contestato nella storia degli Stati Uniti.

Dal punto di vista della sicurezza, la situazione più delicata è a Manhattan, sulla 5° Strada, davanti alla Trump Tower, dove il presidente eletto vive con la sua famiglia. L’edificio, letteralmente stretto d’assedio da oltre 5mila persone, è protetto da transenne, camion anti-bomba e agenti in tenuta antisommossa, mentre lo spazio aereo sopra Midtown Manhattan è stato chiuso. Le Trump Towers e gli Hotel di Trump sono divenuti bersaglio di proteste ovunque.

Si risveglia la contestazione anche nei più famosi atenei americani, a partire dalla marcia indetta dagli studenti dell’Università di Berkeley, in California, culla del movimento studentesco e pacifista degli Anni '60. La coscienza civile d’un Paese distratto sembra sussultare; 48 ore troppo tardi.