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giovedì 31 dicembre 2015

Accadde domani: 2015/2016, ansie di sempre, certezze degli anni bisestili

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 31/12/2015

Gli anni bisestili portano due certezze, anzi tre: hanno un giorno in più, vi si svolgono le Olimpiadi e c’è l’Election Day, il giorno in cui ogni quattro anni gli americani scelgono il loro presidente. Che è generalmente ritenuto l’uomo più potente al Mondo, anche se vanno a votarlo più o meno la metà degli elettori di un Paese di circa 330 milioni di abitanti, cioè un centinaio di milioni di persone, mentre il Pianeta ha sette miliardi.

Facendo il bilancio del 2015, il presidente Usa Barack Obama, che ha ancora un anno di mandato, ha inserito fra gli obiettivi raggiunti alcuni che sono ‘universali’, come la crescita economica – più forte negli Usa che nell’Ue e in particolare in Italia, che dell’Ue è il fanalino di coda -, l’accordo contro il riscaldamento globale raggiunto a Parigi e la lotta contro il terrorismo – i cui risultati vanno però verificati di ora in ora in questi giorni densi di minacce e di allarmi, e dove gli smacchi, come le carneficine di Parigi il 13 novembre o la strage di San Bernardino il 2 dicembre, sono tragicamente incombenti.

Nella sua lista delle cose fatte, Obama ha inserito altri temi di politica internazionale, come l’intesa con l’Iran sul nucleare e il disgelo con Cuba e l’accordo di libero scambio fra i Paesi del Pacifico, nell’attesa che si concretizzi quello tra Usa e Ue; oltre, ovviamente, a questioni interne, come l’intesa bipartisan fatta sul bilancio – noi diremmo la legge finanziaria -, gli incoraggianti progressi della riforma sanitaria e l’ok della Corte Suprema alle nozze omosessuali in tutta l’Unione.

Tutti risultati che contribuiscono a fare di Obama – ci dice un rituale sondaggio Gallup – l’uomo più ammirato dagli americani, davanti a papa Francesco e – ahiloro!, e pure ahinoi!- Donald Trump, mentre Hillary Rodham Clinton è la donna più ammirata.

Ma se il presidente avesse fatto l’elenco degli obiettivi mancati la lista sarebbe stata inevitabilmente molto più lunga. Le previsioni del 2016 sono incise sulla roccia dei temi ineludibili che hanno già segnato l’anno trascorso: il persistere della minaccia del terrorismo alla sicurezza, che in Italia si legge soprattutto in chiave Giubileo – l’Anno della Misericordia finirà a novembre -; la lotta contro il sedicente Stato islamico tra Iraq e Siria e la transizione a Damasco dal regime di Bachar al-Assad a un nuovo assetto stabile e condiviso; la ‘normalizzazione’ della Libia, senza avventurismi militari; l’ ‘Intifada dei Coltelli’ tra Israele e i Territori; gli effetti sanguinosi dell’infatuazione per le armi negli Stati Uniti, che – scrive il Los Angelese Times - “confina con l’impulso suicida della società”, mentre il New York Times si chiede se l’orrore non stia diventando normalità negli Usa. Senza dimenticare, più vicina a noi, la crisi ucraina: le mosse della Nato - l’invito al Montenegro a entrare nell’Alleanza -  e dell’Ue - la proroga delle sanzioni alla Russia – rischiano di allontanare invece che di avvicinare una soluzione.

Nessuno s’immagina che tutti questi problemi escano, nel 2016, dall’agenda internazionale: se ne risolvesse uno, sarebbe già un successo. E pochi sperano nell’impatto dei tradizionali appuntamenti dei Vertici internazionali, che, Consigli europei a parte, si svolgeranno tutti sul Pacifico: il G7 in Giappone a maggio, il G20 in Cina a ottobre, l’Apec in Perù a novembre

All’orgia elettorale negli Stati Uniti – la stagione delle primarie dal 1° febbraio, le due conventions di luglio, il voto l’8 novembre -, l’anno che inizia contrappone una sorta di tregua elettorale nell’Unione europea: nessuno dei Grandi dell’Ue andrà alle urne, o almeno nessuno dovrebbe andarci. In Spagna, s’è appena votato – si rischia, però, un bis a breve -; Francia e Germania avranno nel 2017 le loro consultazioni più importanti; la Gran Bretagna prevede il referendum sull’uscita dall’Unione pure nel 2017; l’Italia ha in calendario solo nel 2018 le prossime politiche (l’autunno porterà il referendum sulle riforme istituzionali); e le istituzioni europee, che sono state rinnovate nel 2014, resteranno operative fino al 2019.

Si prospettano, quindi, condizioni sulla carta favorevoli ad affrontare senza pressioni i problemi dell’integrazione, anche se le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue che si alterneranno non sono ideali: l’Olanda è sperimentata ma ha un approccio esclusivamente prammatico ai problemi europei; la Slovacchia è all’esordio è ha l’impostazione neo-nazionalista comune a molti Paesi usciti dall’esperienza comunista.

Fra i temi da affrontare nell’anno, vi sono: il negoziato con Londra per evitare, nel 2017, il Brexit, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea; il completamento dell’Unione bancaria; l’avanzamento verso l’Unione energetica; la riforma della governance, soprattutto in questa fase la questione immigrazione, dove si tratta di attuare decisioni già prese e di rivedere i criteri dell’asilo.

La bonaccia elettorale dà una chance all’Unione di riconquistare la fiducia dei cittadini. Sempre che i leader dei 28, moderni don Chisciotte, non continuino a scaricare sull’Europa tensioni e responsabilità loro proprie.

Usa 2016: repubblicani, lascia pure Pataki, ne restano 12

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 31/12/2015

Se ne va un altro della cui presenza, nella campagna per la nomination repubblicana, molti elettori americani non s’erano mai accorti: l’ex governatore di New York George Pataki, l’uomo in carica l’11 Settembre 2001, si ritira. L’annuncio l’ha dato lui stesso il 30 dicembre, con uno spot diffuso dalla Nbc nello Iowa e nel New Hampshire e pubblicato sui ‘social media’, dopo avere anticipato l’intenzione ai suoi sostenitori: “Sono sicuro – ha detto – che sapremo eleggere la persona giusta, che sappia tenerci uniti e che capisca che i politici sono al servizio del popolo”.

Pataki è il quinto candidato repubblicano a uscire di scena prima dell’avvio delle primarie. Ne restano 12. Prima di lui, hanno abbandonato nell’ordine l’ex governatore del Texas Rick Perry, già candidato alla nomination nel 2012 senza successo; i governatori del Michigan Scott Walker e della Louisiana Bobby Jindal; il senatore della South Carolina Lindsey Graham.

Governatore repubblicano per tre mandati dello Stato più popoloso dell’Unione – e uno dei più democratici -, dal 1995 al 2006, Pataki, 70 anni, centrista, in corsa da maggio, era in difficoltà nella raccolta di fondi e non è mai riuscito a qualificarsi per uno dei dibattiti fra candidati repubblicani in diretta televisiva.

Della sua campagna, resteranno affermazioni largamente condivise dai repubblicani moderati: “Donald Trump non è qualificato per essere presidente degli Stati Uniti”, “è il candidato NonSoNulla del XXI Secolo” e “non può ottenere la nostra nomination”  - il che non gli impedisce di essere, per ora, in resta alla corsa  -. L’impatto del ritiro di Pataki dovrebbe però essere limitato: ha ben poco sostegno da ridistribuire, né ha dato appoggio a un altro candidato. John Kasich, governatore dell’Ohio, si sarebbe già fatto avanti – riferisce l’Ap – per ottenere sostegno da uomini dello staff di Pataki nel New Hampshire. (fonti vv – gp)

mercoledì 30 dicembre 2015

Usa 2016: Trump vs 'i Clinton', il sessista contro il donnaiolo

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 30/12/2015

C’era da scommetterci: l’annuncio che Hillary Clinton giocherà in campagna la carta del marito, l’ex presidente Bill, per opporre un frangiflutti alla dialettica aggressiva e volgare di Donald Trump, alza i toni dello scontro. E l’iniziativa la prende, ovviamente, il battistrada repubblicano, che ritiene "corretto" attaccare Bill sul suo lato debole, quello femminile, se Hillary lo accusa di “sessismo”.

In un tweet, Trump evoca il “passato terribile di abusi" sulle donne dell’ex presidente: "Ce ne sono stati molti. Se si considerano Monica Lewinsky e Paula Jones o una delle altre", ha poi spiegato lo showman intervistato dalla Nbc, riferendosi alle avventure di Bill ‘il donnaiolo’.

La virulenza di Trump non intacca, però, i risultati di un sondaggio annuale della Gallup, secondo cui Barack Obama e Hillary Clinton sono le persone più ammirate dagli americani. La sorpresa, però, è che, al secondo posto, a pari merito, ci sono proprio Trump e papa Francesco. Obama domina la classifica da otto anni, la Clinton da 14 anni consecutivi e vi è comparsa 20 volte in tutto. Trump, invece, c’è per la seconda volta –la prima fu nel 2011-.

I toni fra i due battistrada nelle corse alle nomination democratica e repubblicana si sono degradati dopo che il magnate dell’immobiliare ha usato un’espressione pesantemente volgare e sessualmente allusiva nei confronti dell’ex first lady, che lo aveva definito un “reclutatore del Califfo”, per le sue sortite anti-Islam.

A chi gli ricordava un’intervista alla Cnn, nella quale difendeva Bill per lo scandalo Lewinsky, Trump ha risposto: "Sono un imprenditore, devo andare d'accordo con tutti nel mondo politico". E, ha ricordato che l'ex presidente "fallì miseramente" nell'intento di sostenere la moglie nel 2008, quando Hillary perse la corsa alla nomination con Obama. Lo showman e i Clinton hanno spesso avuto rapporti anche pubblici in passato: dalle partite a golf agli inviti ai matrimoni.

La mossa dell’ex first lady, a un mese dal via alle primarie nello Iowa il 1° febbraio, pare il titolo d’un film: ‘Il ritorno di Bill’. Presidente dal 1993 al 2001, Clinton è ancora popolare negli Usa: se potesse candidarsi e lo facesse, non partirebbe battuto. Nella campagna, Bill s’è finora visto poco, dando a Hillary consigli in privato e contribuendo alla raccolta di fondi (in eventi a porte chiuse).

Ora, è invece previsto il suo intervento in eventi pubblici nello Iowa e nel New Hampshire, Stati dove Hillary e Bernie Sanders, il suo principale rivale democratico, sono relativamente vicini.

I precedenti non sono però incoraggianti. Se, nel 2008, l’ex presidente non bastò a mettere la moglie al riparo dall’allora rivale Obama, Hillary, nel 2000, divenne senatore dello Stato di New York senza l’aiuto del marito, che stava alla Casa Bianca.

Tra i due, il rapporto è sempre stato intenso e controverso. Durante il primo mandato, Hillary fu l’artefice d’una riforma della sanità che il Congresso non approvò. E lo ‘scandalo Lewinski’ segnò il secondo mandato: la vicenda della stagista con cui il presidente ebbe “un rapporto inappropriato” portò Bill vicino all’impeachment e la coppia sull’orlo della rottura – si seppe che Monica non era la prima -.

Adesso, però, Bill potrebbe rivelarsi un buon antidoto al mix letale di Trump, insulti, menzogne, volgarità. Tra Hillary e Donald, è scontro frontale, come se fossero già avversari per la Casa Bianca. (fonti vv – gp)

Terrorismo: Capodanno a rischio d'attentato, Bruxelles arresta due jihadisti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/12/2015

Arrivano ancora da Bruxelles allarmi che angosciano l’Europa alla vigilia del Capodanno: arresti che sventano attentati, spari dopo un rocambolesco inseguimento. Ed è macabra l’eco delle parole del Califfo, che sul terreno subisce smacchi, in Iraq a Ramadi e in Siria, dove gli jihadisti perdono una diga, ma che proclama: “I raid non ci indeboliscono”, non crediate di averci neutralizzato.

L’audio-messaggio di Santo Stefano è un invito all’azione ai soldati della Jihad isolati in Europa o altrove: cellule autonome o guerrieri solitari possono passare all’azione, senza un coordinamento e senza seguire disposizioni precise.

Intanto, il Pentagono annuncia che dieci leader del sedicente Stato islamico, almeno due dei quali collegati alle carneficine del 13 novembre a Parigi, sono stati uccisi in raid aerei negli ultimi giorni. Tra essi, c'è Charaffe al Mouadan, noto come ‘Souleyman’, in rapporto con la mente degli attacchi del mese scorso Abdelhamid Abaaoud. Moudan, ucciso in un raid sulla Siria il 24 dicembre, stava progettando, secondo le fonti, nuovi attacchi.  Mouadan, 26 anni, cresciuto in un sobborgo di Parigi, era stato arrestato nell'ottobre 2012, quando voleva partire con due amici per lo Yemen o l'Afghanistan, passando per la Somalia. Nonostante fosse in libertà vigilata, nel 2013 riuscì a recarsi in Siria. Era amico di uno dei kamikaze del Bataclan, Samy Amimour.

Un altro capo jihadista coinvolto nei fatti di Parigi e ora eliminato è Abdul Qader Hakim, vittima d’un bombardamento su Mosul il 26 dicembre. Pure ucciso Siful Haq Sujen, un bengalese che studiò in Gran Bretagna, uno degli hacker del Califfo. "Stiamo colpendo la testa del serpente, ma non l’abbiamo ancora spezzata e può ancora mordere", commenta il Pentagono.

Sul terreno e qui da noi. L’allarme che arriva da Bruxelles echeggia quello diramato dopo Natale dalla polizia austriaca, messa sul chi vive da “una intelligence amica” su possibili attacchi entro l’anno in diverse capitali europee.

I presunti terroristi arrestati a Bruxelles volevano colpire "luoghi emblematici" della capitale belga, nonostante lo stato di allerta elevato dopo le stragi di Parigi -3 su 4, significa attacco “possibile”-  e la caccia all’uomo a Molenbeek che ne seguì. Le autorità lamentano scarsa collaborazione da parte della popolazione musulmana.

Nelle perquisizioni tra domenica e lunedì a Bruxelles e dintorni, nel Brabante fiammingo e a Liegi, sono stati sequestrati materiale informatico e di propaganda dell’Is e da addestramento militare. Sei i fermati; due sono poi stati arrestati –i loro nomi non sono stati diffusi-: sono accusati di minaccia d’attentati e reclutamento di terroristi.

Per i media belgi, nel mirino c'era il quartier generale della polizia belga vicino alla Grand Place: è stato deciso d’aumentare la sorveglianza, di cambiare gli orari d’apertura e d’alzare lo stato d’allerta dei militari che presidiano le strade.

Non aveva invece rapporto col terrorismo l’inseguimento con sparatoria, sempre a Bruxelles: un’auto francese che cercava di sottrarsi a un posto di blocco s’è schiantata contro una barriera; feriti e arrestati i due occupanti.

Fra i segnali di allarme, una notizia positiva: una cantante di 31 anni, Laura Croix, colpita sei volte al Bataclan il 13 novembre, sottoposta a dieci interventi chirurgici, rimasta in coma per un mese, s’è risvegliata e ha ripreso a comunicare e a parlare: lo ha rivelato il fratello Sebastien, “fa domande, ha terribili incubi”.

martedì 29 dicembre 2015

Usa 2016: il ritorno di Bill, al fianco di Hillary contro 'super-Trump'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/12/2015

‘Il ritorno di Bill’: pare il titolo d’un film; è la mossa di Hillary, a un mese dal via alle primarie nello Iowa il 1° febbraio e mentre, di sondaggio in sondaggio, e di insulto in insulto, Donald Trump è sempre più nettamente avanti fra i candidati repubblicani, con il doppio o il triplo delle preferenze dell’inseguitore più prossimo, il senatore texano Ted Cruz. Bill Clinton, presidente dal 1993 al 2001, è ancora popolare negli Stati Uniti: se potesse candidarsi e lo facesse, non partirebbe battuto.

E’ lui l’ ‘arma segreta’ della moglie, ed ex first lady, contro Trump, magnate dell’immobiliare e showman. La figlia Chelsea doveva pure scendere in campo, ma ha appena annunciato la seconda gravidanza e dovrà spendersi con cautela nei prossimi mesi.

Nella campagna, Bill ha finora tenuto un basso profilo, dando a Hillary consigli in privato e contribuendo alla raccolta di fondi (in eventi a porte chiuse). Nei prossimi giorni, è invece previsto il suo intervento in eventi pubblici nello Iowa e nel New Hampshire, due Stati dove Hillary e Bernie Sanders, il suo principale rivale democratico, sono relativamente vicini nei sondaggi.

La discesa di Bill in campagna prepara un innalzamento della retorica contro Trump, che da giorni prende di mira Hillary con battute sessiste e volgari. Ma, nel 2008, l’ex presidente non bastò a mettere la moglie al riparo dall’allora rivale Barack Obama; e, nel 2000, Hillary si aggiudicò il seggio di senatore dello Stato di New York senza l’aiuto del marito, che stava alla Casa Bianca.

Tra i due, il rapporto è sempre stato intenso e controverso. Durante il primo mandato, Hillary fu l’artefice d’una riforma della sanità che il Congresso non approvò. Lo ‘scandalo Lewinski’ segnò il secondo mandato: la vicenda della stagista con cui il presidente ammise di avere avuto “un rapporto inappropriato” portò Bill vicino all’impeachment e la coppia sull’orlo della rottura – si seppe che Monica non era la prima -.


Adesso, però, Bill potrebbe rivelarsi un buon antidoto al mix letale di Trump, insulti, menzogne, volgarità. Hillary è stata oggetto d’espressioni triviali: un gioco di parole che in yiddish richiama un organo maschile di grosse dimensioni. Tra i due, è scontro frontale, come se fossero già avversari per la Casa Bianca, dopo che Hillary ha definito lo showman il “reclutatore del Califfo”, per le sue sortite anti-Islam.

Libia: da B. a Renzi, italiani sempre amiconi dei rais di turno

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/12/2015

Torna buono il Trattato di amicizia e cooperazione tra Italia e Libia: negoziato dal governo Prodi, attivato dall’ultimo governo Berlusconi, ‘ibernato’ di fatto dopo il crollo del regime di Gheddafi e la ‘somalizzazione’ della Libia, il Trattato serve da leva di riattivazione del ‘rapporto speciale’ tra Italia e Libia.

"Stiamo lavorando per riavviarlo”, afferma una nota della delegazione libica guidata dal premier designato Fayez Al-Serraj che ieri mattina ha incontrato a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il Trattato –si legge ancora- “contribuirà alle nostre riforme economiche e al ritorno degli investimenti stranieri".

L’incontro con Al-Serraj e lo scambio d’impegni sono altri tasselli dell’attivismo diplomatico volto a rendere l’Italia protagonista nella nuova Libia. Ma quel Trattato, va ricordato, nel momento in cui lo si ‘scongela’, era di fatto un baratto tra una serie di aiuti e di azioni economiche e imprenditoriali e l’impegno di Tripoli ad evitare esodi di migranti verso Lampedusa, l’Italia, l’Europa.

Senza che Roma si sia mai preoccupata di che cosa accadeva ai disgraziati che giungevano in Libia dall’Eritrea e dall’Africa subsahariana per passare il Mediterraneo e approdare alla Terra Promessa: tenuti prigionieri nel deserto in condizioni estreme, senza rispetto dei loro più elementari diritti, o ricacciati indietro, senza curarsi della sorte che li attendeva.

L’Italia armò pure con tre motovedette la guardia costiera libica, che se n’è servita, non molto tempo fa, per sparare contro pescherecci italiani in acque reclamate dalla Libia. Ma ambizioni e interessi politico-economici, come la presenza dell’Eni nel Paese, aiutano a dimenticare tutto.

Per al-Serraj, la visita di ieri a Roma è stata la prima missione europea dopo l’accordo raggiunto, sotto l’egida dell’Onu, il 17 dicembre, in Marocco, tra esponenti dei parlamenti libici di Tobruk, quello riconosciuto dalla comunità internazionale, e di Tripoli, d’ispirazione islamista, puntando alla formazione di un governo di unità nazionale.

Al premier designato, Renzi ha espresso "la piena fiducia nella capacità delle nuove autorità libiche di fare fronte alle imminenti sfide che le attendono”, cominciando “dalla formazione del governo e dal completamento del quadro istituzionale nel segno dell'inclusività e della riconciliazione".

Le due parti auspicano che l'ambasciata d'Italia e il consolato tornino a Tripoli il più presto possibile e che i voli diretti tra Italia e Libia siano ripristinati. Insomma, l’Italia si propone come protagonista della ‘rinascita’ libica, in attesa che la comunità internazionale le riconosca un ruolo del genere e che la Libia lo chieda e mentre la Francia pensa, invece, ad azioni militari contro i capisaldi jihadisti alla Sirte e altrove sul territorio libico.

Il comunicato della delegazione di Al-Serraj è un peana “al grande contributo dato dall'Italia dopo la rivoluzione e durante il dialogo politico”: “a partire dalle storiche relazioni tra i due Paesi – l’esperienza coloniale viene così rivalutata -, cercheremo di incrementare la nostra cooperazione, soprattutto nell'ottica di contrasto al terrorismo, all'immigrazione illegale, al crimine organizzato".

L'Italia si candida a protagonista del percorso libico di stabilizzazione e ricostruzione del Paese, dalle infrastrutture alla sicurezza, con l'invio d’istruttori per addestrare le milizie del futuro governo di unità nazionale.

lunedì 28 dicembre 2015

Usa: la polizia fa mille (morti ammazzati in un solo anno)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/12/2015

Due afroamericani uccisi da un poliziotto a Chicago, a Santo Stefano: non sarebbe neppure notizia, in un anno che, di episodi simili, ne ha registrati a bizzeffe in tutta l’Unione, da New York al Texas, dalla Florida alle Montagne Rocciose. Ma i due morti nella città del presidente Barack Obama –una è una madre di famiglia di 55 anni, vittima di una pallottola vagante- fanno salire a mille il numero dei cittadini uccisi dalla polizia quest’anno negli Usa. Una soglia d’allarme che rinfocola le proteste e le polemiche e che desta preoccupazioni sull'addestramento e la preparazione degli agenti.

A Chicago il poliziotto, il cui nome non è stato rivelato e sul cui conto non sono stati forniti dettagli come anzianità e stato di servizio, è intervenuto di buon mattino in un edificio dove era stata segnalata una lite domestica e s’è trovato di fronte “un soggetto combattivo”, Quintonio Legrier, studente di 19 anni, che brandiva una mazza da baseball con cui avrebbe minacciato il padre che stava al secondo piano.

Per ridurre alla ragione Legrier, l’agente ha sparato vari colpi. L’altra vittima è una vicina di casa, Bettie Jones, madre di cinque figli, colpita da una pallottola che ha bucato la porta del suo alloggio al primo piano. Sia il giovane che la donna sono deceduti all’ospedale.

La stampa americana dedica molto spazio alla vicenda. Janet Cooksey, madre dello studente, che non era presente ai fatti, ha raccontato che Quintonio faceva ingegneria alla Northern Illinois University e soffriva di problemi mentali. La Jones viveva con il suo compagno: i figli sono tutti grandi.

Uno studio pubblicato dal Washington Post, in coincidenza con la sparatoria di Chicago, rivela che gli agenti di polizia statunitensi hanno ucciso, a colpi di arma da fuoco, 1.000 civili quest'anno. L’analisi dei dati indica che solo il 4% delle sparatorie letali riguarda poliziotti bianchi che sparano a neri e li ammazzano. La maggioranza delle persone uccise dalla polizia avevano un'arma, soffrivano di tendenze suicide o disturbi mentali o cercavano di scappare dopo che era stato loro intimato l’alt.

Ma in almeno due casi, in primavera a North Charleston in South Carolina e recentemente a Lynwood, nei pressi di Los Angeles, ha fatto scalpore che gli agenti abbiano colpito alle spalle e ripetutamente uomini in fuga, apparentemente non minacciosi.

L’altra faccia della medaglia è il numero dei poliziotti morti in servizio in un anno negli Stati Uniti: oscilla, negli ultimi dieci anni, tra i 192 e i 107; quelli uccisi da armi da fuoco tra i 70 e i 43; l’andamento è irregolare e i numeri tendono piuttosto a decrescere. Recentemente, Donald Trump, battistrada nella corsa alla nomination repubblicana per la Casa Bianca, ha chiesto la pena di morte per chiunque uccida un agente.

La ‘pistola facile’ delle forze dell’ordine è un problema apparentato alla ‘pistola facile’ dei cittadini d’un Paese dove procurarsi un’arma per un minorenne è più facile che comprarsi una birra. Ci sono problemi di addestramento e anche di equipaggiamento, perché la polizia non ha istruzioni adeguate né dotazioni utili per il normale mantenimento dell’ordine pubblico.

La polizia di Chicago è già oggetto di un’inchiesta federale avviata per accertare il rispetto, o meno, da parte degli agenti dei diritti civili, sia per il ricorso eccessivo alla forza letale che per il rispetto della disciplina e l’applicazione delle norme. Nella terza più grande città dell’Unione, con forze dell’ordine seconde per dimensione solo a New York, ci sono state manifestazioni di protesta dopo la diffusione del video dell’uccisione d’un ragazzo nero ad opera d’un poliziotto bianco: 16 colpi per abbattere Laquan McDonald, 17 anni (l’episodio risale al 2014, ma il video era stato tenuto celato). Sono state pure chiese le dimissioni del sindaco, Rahm Emanuel, capo dello staff di Obama alla Casa Bianca all’inizio della presidenza. E il sindaco ora promette piena luce sui due morti ammazzato di Santo Stefano.

domenica 27 dicembre 2015

Usa 2016: Hillary gioca Bill l’arma segreta contro ‘super-Trump’

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 27/12/2015

Hillary Clinton non ha finora utilizzato in campagna elettorale le sue ‘armi (fino a un certo punto) segrete’, cioè il marito Bill Clinton e la figlia Chelsea. Ora, a poco più di un mese dall’inizio delle primarie, e mentre Donald Trump continua a dominare i sondaggi repubblicani, pare venuto il momento di giocarsi Bill, specie in funzione ‘anti-showman’, mentre Chelsea, si cui è stata appena annunciata la seconda gravidanza, sarà spendibile con cautela nei prossimi mesi, in attesa dell’arrivo del fratellino, o della sorellina, di Charlotte.

L'ex presidente ha finora tenuto un basso profilo, offrendo a Hillary consigli dietro le quinte e contribuendo alla raccolta di fondi (ma in eventi a porte chiuse). Nei prossimi giorni, è però prevista la sua partecipazione in eventi pubblici nello Iowa e nel New Hampshire, i due Stati che apriranno la serie dei voti per la scelta dei delegati alla convention democratica, rispettivamente il 1° febbraio con assemblee di partito e il 9 febbraio. Lì Hillary e Bernie Sanders, il suo principale rivale per la nomination democratica, sono relativamente vicini nei sondaggi.

L’ingresso di Bill nella campagna prelude a un innalzamento della retorica contro Trump. Ma c’è chi ricorda che, nel 2008, l’ex presidente non bastò a tenere la moglie al riparo dall’allora rivale Barack Obama: Bill suggerì che la vittoria di Obama in South Carolina non fosse molto significativa per l'elevato numero d’elettori afro-americani in quello Stato, che invece si rivelò il trampolino di lancio per la nomination.

Intanto, di sondaggio in sondaggio Trump è sempre più avanti tra i candidati repubblicani: la Reuters gli dà il 39,3% delle preferenze, tre volte più di quelle di Ted Cruz (12,8%) e quattro volte quelle di Ben Carson (9,6%). Tutti più indietro gli altri 10 contendenti. (fonti vv - gp)

sabato 26 dicembre 2015

Perché ho lasciato La Presse

Scritto il 26/12/2015

Molti colleghi e amici, bene informati, da buoni giornalisti, mi chiedono se sia vero che ho lasciato La Presse e perché. Lo confermo: è vero. Quella conclusasi il 21 dicembre è stata un’esperienza di lavoro breve – poco più di otto mesi -, in un’Azienda molto dinamica e con una redazione che ha nella rapidità e nella flessibilità, oltre che nella freschezza e nell'entusiasmo, punti di forza importanti.

La mia uscita non è frutto di recriminazioni: sono riconoscente all’Azienda e al direttore Antonio Di Rosa, collega ed amico dagli esordi professionali, per la fiducia accordatami.

Ho deciso di interrompere l’esperienza in anticipo sul previsto per una somma di motivi: hanno certamente pesato la sensazione d’essere fuori luogo –io pensionato- occupando una posizione potenziale da “posto fisso”, quando moltissimi giovani colleghi s’arrabattano in avvilenti precariati; e pure il desiderio d’essere più padrone del mio tempo e di potermi dedicare con maggiore continuità ai temi che più mi appassionano e dove sono meno incompetente. Ma il punto cruciale è che non sono mai riuscito a rendermi e a sentirmi utile, non avendo mai trovato la giusta sintonia con l’Azienda e con il prodotto.

Di qui, la decisione di lasciare.

venerdì 25 dicembre 2015

Sondaggi: Trump, raddoppio di Natale su Cruz e moniti a Hillary

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 24/12/2015

L’insulto, la menzogna, la beceraggine pagano: sono solo in tv e in Italia. Donald Trump inanella gaffes e battute infelici, s’attira critiche e reprimende, ma continua a volare nei sondaggi rispetto agli altri aspiranti alla nomination repubblicana per la Casa Bianca. Nell'ultimo rilevamento Orc, per conto di Cnn, il magnate dell’immobiliare doppia nelle intenzioni di voto il secondo, il senatore del Texas Ted Cruz: 39%, due punti in più rispetto a novembre, contro 18%.

Seguono al 10% il senatore della Florida Marco Rubio e l’ex neuro-chirurgo nero Ben Carson, l’unico nero del lotto di 13 candidati e l’unico a essere riuscito a scalzare Trump dalla leadership per qualche giorno tra ottobre e novembre. Quinto è il governatore del New Jersey Chris Christie, con il 5%. Nessuno dei rimanenti otto aspiranti supera il 4%, compreso Jeb Bush, che era il favorito ai nastri di partenza.

Il sondaggio Orc ha un margine di errore alto, del 4,5%: è stato fatto dopo il dibattito di dicembre fra i candidati repubblicani, a sei settimane dalle assemblee di partito che il 1° febbraio apriranno nello Iowa la stagione delle primarie e della scelta dei delegati per la convention repubblicana.
Il sito di analisi politiche 'RealClearPolitics’ attribuisce al magnate una media di preferenze nei sondaggi del 35,1%, con Cruz, un beniamino del Tea Party, al 18,1%.

Probabilmente incoraggiato dai dati, Trump persiste e torna ad attaccare la battistrada democratica Hillary Clinton, che lo ha accusato di essere “incline al sessismo” dopo essere stata oggetto d’espressioni triviali e volgari. "Stai attenta Hillary", twitta minaccioso ‘Donald il rosso’, "a giocare la carta della donna o della donna degradata e a lamentarti di un'inclinazione al sessismo. Io ho grande rispetto per le donne. Stai attenta!". (fonti vv - gp)

giovedì 24 dicembre 2015

Libia: Hollande l'interventista vuole prendersi la scena e il comando

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/12/2015

Cambiano i presidenti, ma la tentazione (francese) resta la stessa: dopo Sarkozy 2011, anche Hollande 2015 cerca di prendersi la scena sulla Libia e di rubare il primato dell’operazione, che deve ancora essere decisa, all’Italia, che già lo sbandiera come acquisito. E poco importa che l’intervento in Libia nel 2011 sia risultato nei fatti una forzatura, rispetto al mandato dell’Onu, e nei risultati un fallimento, con la trasformazione d’uno Stato sotto dittatura in una pericolosa anarchia dove nessun comanda e tutti usano le armi: Hollande l’interventista, che nel marzo 2014 andò da solo in Mali e che a settembre decise di bombardare in Siria, agisce da comandante in capo di un  esercito dell’Ue che non c’è, come se fosse convinto che contro l’integralismo e il terrorismo non ci sia alternativa al ricorso alla forza. Anche se i rischi di conseguenze sono palesi, come le carneficine a Parigi del 13 novembre stanno a ricordare.

Le intenzioni della Francia sulla Libia emergono mentre il governo decide di estendere e inasprire le misure anti-terrorismo prese dopo le stragi: l’inserimento nella Costituzione dello stato d’emergenza e la revoca della cittadinanza per terrorismo a chi ha la doppia nazionalità.

Intanto all’Onu il Consiglio di Sicurezza perfeziona la risoluzione che crea i presupposti per una missione in Libia a sostegno del governo di unità nazionale che dovrebbe scaturire dagli accordi firmati in Marocco la scorsa settimana, sotto l’egida dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, il tedesco Kobler, tra esponenti del governo ‘legittimo’ di Tobruk e di quello ‘islamista’ di Tripoli.

A squarciare il velo sulle intenzioni di Hollande in Libia è il quotidiano dell’opposizione Le Figaro, le cui indicazioni vanno quindi prese con prudenza. In prima pagin,a il giornale scrive che la Francia “prepara i piani di intervento e tenta di mettere in piedi una coalizione internazionale” contro il sedicente Stato islamico in Libia. Per “sradicare” gli jihadisti dalla Sirte, “un’azione militare nei prossimi sei mesi se non prima della primavera viene considerata indispensabile”, prosegue Le Figaro, citando fonti del ministero della Difesa.

Nello stesso contesto, il giornale dedica un articolo al ruolo guida dell’Italia in questo dossier. E fa sapere che, a fine novembre, la Francia ha già effettuato voli di ricognizione dalla sua portaerei nel Mediterraneo, la Charles De Gaulle, sulla Sirte controllata dal Califfato, che s’è pure spinto fino a Sabrata a Ovest e a Derna a Est, e prevede di effettuarne altre.

Dunque, l’obiettivo dell’iniziativa francese sarebbe arrestare la propagazione in Libia del contagio jihadista: una missione che potrebbe essere complementare e non alternativa a quella ispirata dall’Ou a sostegno del governo di unità nazionale.

mercoledì 23 dicembre 2015

Usa 2016: Trump, attacco sessista alla sua arci-nemica ‘nonna bis’ Hillary

Scritto per www.GpNewsUsa20126.eu e Formiche.net il 23/12/2015

E’ scontro frontale tra Donald Trump e Hillary Clinton, come se fossero già loro la coppia d’avversari per la Casa Bianca: dopo che Hillary l’ha definito il “reclutatore del Califfo”, con le sue sortite anti-Islam, lo showman prima le ha dato della “bugiarda”, poi l’ha attaccata con linguaggio sessista e volgare. Intanto, Politifact gli assegna il ‘Pinocchio d’oro’ di questa campagna e un sondaggio rivela che sei donne d’America su 10 si sentirebbero imbarazzate se lui fosse il presidente. L’ex fist lady, invece, pensa alla famiglia: sarà nanna per la seconda volta, prima dell’Election Day, perché la figlia Chelsea è di nuovo incinta.

Parlando a Gran Rapids, nel Michigan, davanti a 7.500 persone, il magnate dell’immobiliare, battistrada nella corsa alla nomination repubblicana, ha preso in giro la Clinton perché sabato scorso, s’è presentata con un lieve ritardo alla ripresa di uno dei dibattiti televisivi con gli altri candidati democratici , "Non vedendola, ho pensato che avesse rinunciato", ha commentato. "Dov'era andata? Dove se n'era andata Hillary? Hanno dovuto cominciare senza di lei. E io so dov'era andata. E' disgustoso, nemmeno ne voglio parlare".

E l'ha pure derisa rievocando la batosta che nel 2008 subì da Barack Obama nelle primarie democratiche: "E’ una che non ha mai vinto nulla… Lei doveva battere Obama, lo doveva sconfiggere, era la favorita per la vittoria, e invece se l'è preso in ... Ha perso! Ha perso!", ha gigioneggiato lo showman, giocando pure su un termine che in lingua yiddish indica un organo maschile di cospicue dimensioni.

Dopo avere messo alla berlina alcuni contestatori incitando il servizio d'ordine a "narcotizzarli e cacciarli via" e altri "troppo flaccidi" per opporsi ai buttafuori, s’è calmato: ormai, il suo spettacolo l’aveva fatto.

Il ‘Pinocchio d’oro’ a ‘Donald il rosso’ - L'universo Trump e' un luogo dove tra realtà e fiction c'è poca differenza e dove, scriveva ieri il servizio di controllo dei fatti Politifact, vincitore del Premio Pulitzer, “più grossa è la bugia, o più bugie uno dice, e più la gente gli crede”. Politifact assegna allo showman il ‘Pinocchio d’oro’ per la bugia dell’anno: tale è la mole di falsità accumulate dal battistrada repubblicano che Politifact, dopo avere documentato che il 76 per cento delle sue affermazioni non sono corrette, non ne ha neppure scelto una in particolare.

L’imbarazzo delle donne d’America - Trump ha già usato in campagna un linguaggio sessista verso una donna, come quando accusò una giornalista di essere troppo aggressiva con lui perché nel periodo delle mestruazioni. Sempre a Grand Rapids, se l’è presa con Caroline Kennedy, che sarebbe inadeguata come ambasciatrice in Giappone, e con Angela Merkel che Time gli ha preferito come Persona dell'Anno.

Ma Hillary è il suo bersaglio preferito: la sbeffeggia per i suoi completi pantaloni, per l'assenza dell’energia e della forza necessarie per essere presidente. E lo showman sostiene che l'ex first lady è troppo vecchia, anche se tra lui, 69 anni, è più vecchio di lei di un anno.

Tutto ciò contribuisce a spiegare perché, se Trump diventasse presidente, sei americane su dieci si sentirebbero "in imbarazzo" a essere rappresentate da un individuo abituato a deriderle e insultarle e che, della rivale repubblicana Carly Fiorina, disse “Guardate che faccia ha, chi mai la voterebbe”: lo indica un sondaggio della Quinnipiac.

Hillary ‘nonna bis’ - Hillary sarà di nuovo nonna: la figlia Chelsea ha annunciato di essere incinta e che un fratellino o una sorellina della piccola Charlotte nascerà in estate, senza indicare una data precisa – la convention democratica si terrà a Filadelfia a fine luglio -. "Charlotte diventerà sorella maggiore. Ci sentiamo benedetti e felici", ha scritto su Twitter l’ex ‘prima figlia’. Chelsea e suo padre Bill si sono finora tenuti relativamente in disparte nella campagna di Hillary, ma entrambi hanno espresso l'intenzione di far di più dopo Capodanno quando le primarie saranno vicine. (fonti vv - gp)

martedì 22 dicembre 2015

Siria: toh!, i moderati che ammazzano... Ma forse è solo farsi belli

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/12/2015

Molti erano convinti che l’ ‘opposizione moderata siriana’, contro il regime di Assad e gli sgherri del Califfo, fosse una sorta di luogo mitico della diplomazia occidentale, inconsistente sul terreno ed attiva solo con qualche comunicato da Londra del loro Osservatorio in esilio. Ed ecco che salta fuori, di colpo, la Brigata della Missione segreta, a rivendicare l'omicidio di Samir Qantar, dirigente di Hezbollah eliminato due notti fa con un raid missilistico su Damasco – un assassinio subito attribuito dal movimento sciita libanese a Israele -.

Vatti a fidare delle apparenze, ma pure delle dichiarazioni ufficiali: in Siria, nulla, o quasi, è come appare e le alleanze sono giochi di specchi. La rivendicazione della Brigata va presa con beneficio d’inventario, ma non va neppure scartata a priori. Potrebbe essere che tutti hanno un po’ di ragione: la Brigata potrebbe avere agito, magari inconsapevolmente, perché infiltrata, su input israeliano.

Così come va riferita con distacco l’assicurazione del portavoce di Putin, Dmitri Peskov, secondo cui le operazioni militari russe n Siria sono condotte nel rispetto del diritto internazionale, "incluse le parti che regolano o vietano l'uso di tipi di armi specifici": i russi, cioè, smentiscono i rapporti delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, che denunciano il ricorso a bombe a grappolo durante i raid.

Non ci sono elementi oggettivi e indipendenti che avallino le illazioni dell’Osservatorio o inficino quelle di Peskov. Ma lo stesso Putin ha evocato, a due riprese, il possibile impiego dell’atomica in Siria: Mosca è pronta ad andare per le spicce, se necessario, per liquidare il Califfo e i suoi jihadisti. Né tranquillizza l’assicurazione del presidente Obama che il sedicente Stato islamico non è in grado di distruggere gli Stati Uniti: resta piuttosto da vedere se è vero il contrario, cioè che gli Stati Uniti e i loro alleati possono distruggere lo Stato islamico.

Ma torniamo a Damasco. La Brigata è una delle tante formazioni che formano il Libero Esercito Siriano, braccio armato dell'opposizione sunnita non jihadista al regime di Assad. In un video, il gruppo afferma di aver ucciso Qantar e la sua scorta con una "operazione mirata" condotta insieme a un'altra fazione insurrezionale, la 'Brigata dei Cavalieri di Horan'.

Un portavoce anonimo, circondato da miliziani in quella che sarebbe una sala operativa, smentisce “quanto sostenuto da Hezbollah, secondo cui sarebbe stato un bombardamento aereo sionista" ad eliminare Qantar. "Le affermazioni del Partito di Satana", prosegue il portavoce, giocando sul nome di Hezbollah, 'Partito di Dio', "sono solo un tentativo d'indebolire lo spirito dei nostri combattenti".

A Beirut, dove si celebravano i funerali di Qantar, Sayyed Hashem Safeieddin, numero due di fatto del movimento sciita libanese alleato del regime di Assad, non ha però dato credito alla Brigata e s’è rivolto allo Stato ebraico, che “pagherà caro l'omicidio”: "Se gli israeliani pensano di avere chiuso il conto con noi si sbagliano di grosso", perché “ne hanno invece aperti parecchi di più". Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha detto che gli israeliani hanno colpito con missili lanciati da aerei.

A Mosca, è intanto risultato "illeggibile" il contenuto della scatola nera del caccia russo Sukhoi24M abbattuto da due F16 turchi il 24 novembre lungo il confine con la Siria: già si sapeva che la scheda di memoria estratta venerdì dall'apparecchiatura era danneggiata, ma un'analisi più approfondita ha ora rivelato che estrarne i dati di volo è impossibile. Il che non contribuisce a smorzare le tensioni tra Russia e Turchia. Il governo di Ankara ha cattivi rapporti nella Regione, oltre che con la Russia, con i curdi ovunque siano, con il regime di Assad e con il governo di Baghdad, che dovrebbero essere tutti suoi alleati contro gli jihadisti. Si direbbe che tutto fili liscio solo con il Califfato, che dovrebbe essere il nemico, ma che, invece, sarebbe partner d’affari.

Ieri, il ministro degli Esteri turco, in una nota, ha informato che la Turchia "continua a muovere forze militari nella provincia di Ninive", nel Nord Iraq, nonostante "problemi di comunicazione" con il governo di Baghdad, che ne ha espressamente chiesto il ritiro. Le truppe turche sono lì, ufficialmente, per addestrare reparti iracheni a combattere contro le milizie jihadiste. Ma l’11 dicembre l'Iraq s’è rivolto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere il ritiro “immediato e incondizionato” di tutte le truppe turche dal suo territorio.

Usa 2016: repubblicani; fuori anche Graham il falco, ne restano 13

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 22/12/2015 

Fuori un altro, ancor prima dell’inizio delle primarie: Lindsey Graham, senatore della South Carolina, specialista della difesa e della sicurezza, abbandona la corsa alla nomination repubblicana alla Casa Bianca. La notizia l’ha data lui stesso sul proprio sito internet, ringraziando quanti –pochi- lo hanno appoggiato e promettendo loro che continuerà a dedicarsi alla sicurezza dell’America.

A questo punto, restano in lizza 13 aspiranti alla candidatura repubblicana –a un certo punto, erano stati 17-.

Graham non aveva mai sfondato nei sondaggi e non era mai salito sul palco dei dibattiti in diretta tv –già cinque- fra i candidati repubblicani, sempre relegato al dibattito dei comprimari. C’era chi pensava che si sarebbe ritirato dopo le primarie nel suo Stato, uno dei primi a scegliere i delegati alla convention, il 20 febbraio. Ma il senatore se n’è andato due mesi prima, senza per ora dichiarare il proprio appoggio a qualche ex rivale.

Graham, sostenuto dal candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2008, John McCain, era sceso in lizza a giugno, propugnando una politica estera aggressiva e misure sull’immigrazione: 60 anni, un passato nella AirForce, un senso dell’umorismo spiccato – anche nei confronti di se stesso -, Graham era molto critico sulla politica estera del presidente Obama (“un uomo che pensa in piccolo in tempi grandi”) ed era l’unico fra i candidati repubblicani a dichiararsi apertamente favorevole all’invio di truppe contro il sedicente Stato islamico: “Soldati americani moriranno in Iraq e in Siria per proteggere la nostra Patria”.

Conservatore, in politica interna non nega in Senato il voto all’Amministrazione Obama, quando ne condivide le scelte. (fonti vv - gp)

lunedì 21 dicembre 2015

Usa 2016: Putin serve l'assist a Trump, Hillary fa gol

Scritto per AffarInternazionali il 20/12/2015 e pubblicato il 21/12/2015

http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3265

domenica 20 dicembre 2015

Siria: accordi unanimi, ma attuati in ordine sparso

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/12/2015

Le decisioni si prendono all'unanimità, ma si attuano in ordine sparso. Il percorso della Siria verso la tregua e il negoziato sulla transizione al ‘dopo Assad’ non sfugge a questa prassi: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non aveva ancora adottato la risoluzione sul processo di pace, venerdì sera, con l'avvio delle trattative a gennaio, che già s’erano manifestati distinguo e dissensi.

Senza trascurare le inimicizie di vecchia o nuova data che dilaniano l’intreccio delle coalizioni - troppe – contro il sedicente Stato islamico: teocrazie e regimi sciiti contro monarchie sunnite, russi contro turchi, siriani ‘lealisti’ contro siriani ‘ribelli’. Ruggini che non vanno via, anche se le intese sulla Siria vogliono dare coesione ed efficacia alla lotta contro l’autoproclamato califfo. Ma molti dei protagonisti hanno una propria agenda regionale o globale, in cui il contrasto agli jihadisti non è la priorità.

La risoluzione dell’Onu prospetta un cessate-il-fuoco in Siria non appena i negoziatori del regime e dell'opposizione abbiano compiuto i primi passi verso una transizione politica, sotto il controllo della comunità internazionale. Ma le fazioni dell’opposizione siriana, che pure hanno appena scelto i loro rappresentanti al tavolo negoziale, hanno già cominciato a dire che il primo gennaio è troppo presto e che loro non saranno pronti. E Mosca e Washington hanno idee molto diverse sui tempi della transizione: un mese o due, per il segretario di Stato Usa Kerry, “non più di un anno o un anno e mezzo”, per il ministro degli Esteri russo Lavrov.

Il presidente Obama, nella conferenza stampa di fine anno, ha reclamato l'uscita di scena di Assad, che “ha perso legittimità agli occhi di gran parte del suo Paese”, "per fermare la carneficina e consentire a tutte le fazioni coinvolte di andare avanti in modo non settario". Il presidente Putin insiste che i siriani devono scegliere il loro leader dopo che siano stati "eliminati" i terroristi, ma aggiunge –conciliante?- che lui lavora facilmente sia con Assad che con Obama.

Il fatto nuovo, emerso nelle ultime ore, sono le forti tensioni che sarebbero scoppiate tra Iran e Giordania nel ‘Gruppo di Vienna’, riunitosi venerdì, a New York, poco prima del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: c’erano i ministri degli esteri di 17 Paesi, fra cui l’Italia, impegnati a risolvere la crisi siriana.

La Giordania, cui era stato affidato il compito di stilare una lista dei gruppi terroristici attivi in Siria, voleva inserire nella ‘black list’ i Guardiani della Rivoluzione iraniani, i Pasdaran, irritando molto Teheran. Dopo lo scontro, l’adozione della lista è stata bloccata e il compito di stilarla e presentarla all’Onu è passato a un gruppo di lavoro composto da Russia, Iran, Turchia, Oman, Giordania, Egitto e Francia. L’idea è che i terroristi non debbano partecipare al negoziato sul futuro della Siria; solo che il regime di Damasco tende a definire “terroristi” tutti i suoi oppositori armati.

Il gruppo di lavoro avrà il suo daffare: la presenza di Russia e Turchia promette scintille, visto che i leader dei due Paesi non la smettono di provocarsi, dopo l’abbattimento, il 24 novembre, da parte della caccia turca d’un aereo russo, che avrebbe violato lo spazio aereo turco. Ieri, Ankara ha detto di non prendere sul serio le ultime dichiarazioni del presidente Putin: “E’ finita l’epoca del Kgb”, il servizio segreto sovietico dalle cui fila il presidente russo proviene. La replica russa è stata tra il minaccioso e lo iettatorio: “La leadership turca non è eterna”. E Lavrov insiste per la chiusura della frontiera tra Siria e Turchia.

Ricevendo al Cremlino il personale degli organi della sicurezza nazionale, Putin ha affermato che la Russia in Siria "non ha ancora utilizzato tutti i mezzi di cui dispone", anche se ha già  fatto ricorso ad armamenti "molto sofisticati": “Siamo ben lontani dall'aver sfruttato tutto il nostro potenziale, ma, se necessario, lo impiegheremo": una frase che suggerisce il possibile ricorso alle armi nucleari, recentemente evocato, e che avalla pure l’impressione, ormai diffusa, che la campagna militare stia dando risultati inferiori alle attese. Su World Politics Review, Michael Cohen sostiene che la Russia in Siria ha finora “bruciato ponti” e “s’è creata nemici”, senza sconfiggere quelli dichiarati.

Usa 2016: democratici; dibattito3, Hillary contro Trump, pace fatta con Sanders

Scritto, in versioni diverse, per LaPresse, www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 20/12/2016

Donald Trump è “il miglior reclutatore” del sedicente Stato islamico, con le sue “sortite razziste” e la sua campagna contro i musulmani, cui vuole vietare l’ingresso negli Stati Uniti. Hillary Rodham Clinton ha usato il terzo dibattito in diretta televisiva fra gli aspiranti alla nomination democratica alla Casa Bianca per attaccare più il battistrada fra i repubblicani che i suoi innocui rivali interni.

Sul palco di Manchester, nel New Hampshire, dove il 9 febbraio ci saranno le primarie, e in diretta televisiva sulla Abc, la Clinton e gli altri aspiranti democratici, il senatore del Vermont Bernie Sanders, che giocava quasi in casa, e l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley hanno anzi mostrato molto fair-play reciproco, pur se non sono mancati punti di frizione.

Tutto il confronto s’è sviluppato su un doppio binario, la sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo – qui, la Clinton ha detto “no” a nuove guerra e che armare le persone non è una risposta, ribadendo d’essere favorevole a inasprire i controlli sulle vendite di armi -; e l’economia – qui, la Clinton ha ripetuto di volere tassare di più i ricchi, mentre ha escluso maggiori tasse alla classe media -.

Sanders, che si autodefinisce ‘socialista’ e che è l’antagonista più quotato della ex first lady, che però quasi lo doppia nei sondaggi fra i potenziali elettori democratici, dove O’Malley raccoglie scarso credito, s’è differenziato dall’ex segretario di Stato; ha sostenuto che la fine del regime d’Assad in Siria non è una priorità e l’ha criticata sui rapporti con la finanza di Wall Street.

Il senatore si presentava al dibattito dopo un vortice di polemiche, perché la sua campagna aveva, forse inavvertitamente, sottratto dati a quella di Hillary, ponendosi in contrasto con la Commissione elettorale democratico. Ma Sanders, che ha appena avuto l’appoggio d’un grosso sindacato e che, forse anche grazie all’acquisizione dei dati, ha raccolto in un solo giorno un milione di dollari, s’è subito scusato con la ex first lady e pure con i suoi sostenitori per l’errore fatto.

“Non è il tipo d campagna che vogliamo condurre”, ha detto il senatore. Hillary ha risposto: “Apprezzo sinceramente le tue parole, Bernie. E’ molto importante che ci lasciamo alle spalle questo problema”. Le due campagne collaboreranno all’inchiesta indipendente che dovrà stabilire che cosa sia successo, anche a livello tecnico.

Pace fatta e incidente chiuso, a dimostrazione dell’assenza di animosità in campo democratico: nel primo dibattito, a ottobre, Sanders aveva già rinunciato ad attaccare l’ex segretario di Stato sulla polemica per l’uso della mail privata invece che di quella ufficiale, “parliamo di quel che interessa l’America –aveva detto-, l’economia e il lavoro”.

Hillary è parsa molto rilassata e a suo agio: ha scherzato su se stessa (“Tutti dovrebbero amarmi”) e sul ruolo del marito Bill, l’ex presidente; ha citato, in chiusura, la saga di Star Wars di cui è appena uscito l’ultimo episodio (“che la forza sia con voi”) e s’è pure presentata in ritardo alla ripresa dopo la pausa, scusandosi.

L’agenda prevede altri tre dibattiti in diretta televisiva fra gli aspiranti democratici. O’Malley se n’è lamentato perché i repubblicani, che ne hanno già sostenuti 5, ne prevedono 11 (ma il loro campo è molto più folto e la loro corsa molto più incerta).

Infine, una curiosità: il nome del re di Giordania Abdullah II, un alleato degli Usa nella lotta contro l’integralismo, e il cui Paese accoglie milioni di rifugiati siriani, continua ad essere storpiato, pur essendo oggetto di lodi. All’inizio della settimana, nel confronto repubblicano, Chris Christie, governatore del New Jersey, lo aveva elogiato come re Hussein, in realtà il padre di Abdullah, morto nel 1999; questa volta, Sanders gli ha reso omaggio come re Abdul; magari, al terzo tentativo il nome verrà fuori giusto. (fonti vv - gp)

sabato 19 dicembre 2015

Democratici: Sanders, tra buone e cattive notizie

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 19/12/2015

Bernie Sanders, il senatore del Vermont che contende a Hillary Clinton la nomination democratica alla Casa Bianca, ha vissuto giorni movimentati, prima del dibattito che fra poche ore si svolgerà nel New Hampshire. In positivo, Sanders ha ricevuto l’endorsement del sindacato dei lavoratori delle comunicazioni, il Communications Workers of America, che rappresenta circa 700 mila lavoratori. La Cwa è la terza e la maggiore organizzazione sindacale che appoggia Sanders, mentre la maggior parte delle altre organizzazioni sindacali che si sono finora pronunciate sostiene Hillary.

In negativo, c’è stato imbarazzo nello staff di Sanders, perché un errore informatico gli ha fatto avere accesso a informazioni private sulla campagna della Clinton. Di conseguenza, la commissione nazionale democratica ha vietato alla campagna di Sanders di accedere alla banca data degli elettori finché è in corso un'indagine. Il senatore ha licenziato Josh Uretsky, il responsabile informatico.

Successivamente, il comitato elettorale di Sanders ha trovato un accordo con il partito democratico per avere di nuovo accesso agli elenchi degli elettori, dopo che il senatore aveva citato il comitato nazionale democratico sostenendo che il blocco gli stava causando "un danno irreparabile". L’intesa, che il portavoce di Sanders definisce "una capitolazione" del partito, evita un'imbarazzante disputa legale in casa democratica.

Siria: progressi verso tregua e transizione, ma molte le incognite

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Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/12/2015

Dopo quasi quattro anni di traccheggi diplomatici e almeno 250 mila vittime, si vanno ora creando –pare vero- le condizioni per un efficace intervento della comunità internazionale contro il sedicente Stato islamico e per una transizione politica in Siria, oltre che per una normalizzazione della situazione in Libia. Più efficace, se non più coerente, perché restano contraddizioni -e tensioni- interne alle coalizioni anti-Califfo.

Il giorno dopo la messa a punto all’Onu della risoluzione contro chi aiuta le milizie jihadiste e fa affari con l’Is, e la firma in Marocco di un accordo, sbilenco, ma comunque raggiunto, per un governo di unità nazionale libico, a New York si riunisce un vertice sulla Siria ‘formato Vienna’: ci sono cioè i Paesi e le Istituzioni internazionali che, di solito, s’incontrano su questo tema nella capitale austriaca.

Apre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, presiede il segretario di Stato Usa Kerry, ci sono i ministri russo Lavrov e italiano Gentiloni, la Mogherini per l’Ue e Staffan de Mistura, l’inviato dell’Onu in Siria. Il preambolo induce all’ottimismo: l’opposizione siriana ha appena raggiunto un’intesa su chi dovrà rappresentarla al tavolo delle trattative sulla transizione al dopo Assad (ma chiede un rinvio della data d’inizio, fissata al 1° gennaio).

Proprio la risoluzione dell’Onu, il percorso di transizione e un cessate-il-fuoco in Siria, che consenta di concentrarsi contro quello che dovrebbe essere il comune nemico, l’autocproclamato Califfato, sono i temi della riunione al Palace Hotel. Kerry non la mette giù dura: “Stiamo lavorando” per un’intesa; i russi  frenano, le consultazioni “non vanno molto bene” per l’ambasciatore all’Onu Vitaly Churkin.

A SkyTg24, Gentiloni dice che il cessate-il-fuoco sarebbe un risultato umanitario “straordinario”, mentre il percorso di transizione sarebbe già stato scritto a Vienna “un po' in controluce”: una prima fase di sei mesi che deve portare a una governance unitaria. Assad resiste: “Cercare di cacciarmi –avverte- significa solo protrarre la guerra civile”.

La prudenza di Mosca è, forse, un tentativo di mascherare il contrasto tra lo show di Putin giovedì, contro la Turchia e Erdogan, ma pure contro gli Usa e Obama, con minacce –“che ci provino i turchi a volare sulla Siria”- e illazioni –“i turchi hanno abbattuto il nostro aereo solo per leccare gli americani”-. All’origine delle tensioni, l’abbattimento, il 24 novembre, d’un caccia.bombardiere russo ad opera di caccia turchi: ieri, è stata aperta la scatola nera dell’Su-24, risultata danneggiata. I dati disponibili saranno noti lunedì, ma i russi si dicono già certi che la battaglia aerea avvenne sul territorio siriano e non turco.

Il dispositivo militare anti-Califfato, rinforzato dalla coalizione araba suggellata in settimana a Riad, che però suscita l’ironia di Putin, continua a martellare gli jihadisti: mercoledì, l’aviazione tedesca ha partecipato per la prima volta ai raid, con un aereo cisterna, mentre ieri bombardamenti russi a Raqqa e in due cittadine nella provincia di Aleppo, el-Bab e Azaz, avrebbero fatto decine di vittime civili, secondo un’organizzazione dell'opposizione non radicale in esilio.

Dall'inizio della campagna, il 30 settembre, i raid aerei russi avrebbero ormai fatto 1.900 vittime, un terzo delle quali tra la popolazione inerme.

Usa 2016: repubblicani; Trump, Putin e l’assist boomerang

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 19/12/2015 

Rischia di rivelarsi un boomerang, l’assist di Putin a Trump: per il presidente russo, perché l’omaggio un po’ gratuito al magnate dell’immobiliare, nella conferenza stampa fiume di fine anno al Cremlino, giovedì 17 dicembre, non lo aiuterà certo a migliorare i suoi rapporti già non idilliaci con Barack Obama né a garntirglieli buoni con il suo successore, se dovesse essere Hillary Clinton; e per il candidato repubblicano, perché l’elogio dello ‘zar’ lo lusinga, ma lo imbarazza pure, anche se lo showman non ha mai nascosto la sua ammirazione per l’autocrate russo e ne ha spesso confrontato la determinazione in politica estera con le esitazioni del presidente Usa.

Raccogliendo una ‘provocazione’, Putin, che ha parlato per 188 minuti davanti a 1390 giornalisti, rispondendo a 32 domande, ha detto che Trump "è il leader assoluto" della campagna elettorale americana  ed è "benvenuto" perchè "afferma che vuole portare a un livello più profondo i rapporti con la Russia". Mosca, ha comunque aggiunto Putin, "collaborerà con chiunque sarà il presidente" degli Stati Uniti.

L’eco di Trump non s’è fatta attendere ed è stata positiva: "E' sempre un grande onore ricevere complimenti da un uomo così rispettato, nel suo Paese e altrove", ha detto il battistrada nella corsa alla nomination repubblicana, facendo un comizio a Columbus, nell'Ohio. "Ho sempre pensato che la Russia e gli Usa dovrebbero essere capaci di lavorare bene insieme per sconfiggere il terrorismo e portare la pace nel mondo, per non parlare degli scambi e di tutti gli altri benefici che discendono dal rispetto reciproco". (fonti vv - gp)

venerdì 18 dicembre 2015

Ue: Vertice; Brexit, migranti, quando nessuno vuole litigare né decidere

Contributo confluito in pezzo a quattro mani per Il Fatto Quotidiano del 18/12/2015

E’ un Vertice di fine anno e di fine presidenza – la lussemburghese -, senza decisioni da prendere con l’acqua alla gola: i leader dei 28 ci arrivano – tutti, si direbbe, tranne uno, l’attaccabrighe italiano- senza voglia di litigare. La notizia dell’accordo in Marocco per la formazione di un governo di unità nazionale libico dà anzi loro un’occasione per rallegrarsi un po’ ipocritamente (lo sanno tutti che l’intesa è fragile, ma tanto vale fare finta di crederci).

Sui due temi della prima giornata del Consiglio europeo, l’immigrazione e il Brexit, cioè un percorso che eviti l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, le decisioni o non sono mature – il Brexit - o sono già state prese e si tratta solo di monitorarne l’attuazione, finora insoddisfacente – l’immigrazione -.

Brexit - Ai colleghi, il premier britannico Cameron ha presentato le sue richieste per arrivare al referendum del 2017 sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea potendo invitare i suoi cittadini a non uscire dall’Ue: quattro i capitoli del negoziato da intavolare, la competitività, la governance, la sovranità e quella che i britannici chiamano immigrazione, ma che in realtà è la libera circolazione. Alla vigilia dell’incontro, il presidente del Vertice, il polacco Donald Tusk, ha già risposto a Cameron: qualcosa si può fare; qualcos’altro, come la libera circolazione, non si può toccare. Parliamone e cerchiamo di trovare un’intesa entro febbraio: qui si tratta di fare melina, spiegare ognuno come la pensa e aspettare l’evoluzione della trattativa, anche se la delegazione britannica si presenta pronta a fare l’alba.

L’iniziativa dell’Italia di mettersi in tandem con la Gran Bretagna, con una lettera congiunta dei ministri degli esteri Gentiloni e Hammond ai colleghi e alle Istituzioni, non è risultata gradita, specie a Berlino e Parigi, perché altera gli equilibri di partenza del negoziato. Che, poi, neppure si capisce che cosa l’Italia ci guadagni, a stare a braccetto con la Gran Bretagna – ma la tentazione è ricorrente e trasversale: Berlusconi, Monti, Renzi, tutti ci cascano -. Il presidente della Commissione Juncker avverte che l’accordo dev’essere equo per Londra, e pure per gli altri partner, mentre un sondaggio dice che una maggioranza dei britannici voterebbe oggi per uscire dall’Ue –ma di qui a un anno e mezzo molto può cambiare-.

Migranti - Sull’emergenza immigrazione, le decisioni sono già state prese all’inizio dell’autunno, sotto l’impulso della cancelliera tedesca Merkel, la ‘cancelliera del Mondo libero’ avrebbe poi decretato Time, anche se l’Italia cercò di mettere il suo timbro su quelle misure: redistribuzione di 160 mila rifugiati da Italia e Grecia negli altri Paesi Ue e creazione di 11 hotspot mediterranei.

Due mesi dopo, il bilancio delle cose fatte è modesto: meno di 200 richiedenti asilo ricollocati a due hotspot aperti; per contro, procedure d’infrazione a raffica aperte da Bruxelles per le inadempienze di vari governi e mal digerite, specie dall’Italia.

Va invece avanti l’idea di rafforzare la protezione delle frontiere esterne dell’Unione europea, affidando un ruolo all’Ue: una misura dettata dal timore d’infiltrazioni terroristiche più che dal desiderio d’intercettare migranti illegali.

La discussione corale sui migranti è preceduta da un ‘triangolare’ Commissione – Germania – Turchia, dopo gli accordi tra i 28 ed Ankara perché si prenda cura, con tre miliardi di soldi europei, dei quasi due milioni di rifugiati siriani sul proprio territorio. Si ripete pure il consulto fra Paesi interessati al flusso balcanico, da cui l’Italia è tenuta fuori.

giovedì 17 dicembre 2015

Twitter: dove (e quando) l’attacco val meglio di qualsiasi difesa

Scritto per gli Appunti del blog di Media Duemila il 17/12/2015 

Tutti sanno, dove quel ‘tutti’ sta pomposamente per i miei amici e i miei 25 followers, che Twitter mi piace un sacco: considero un tweet ben fatto la quintessenza della notizia d’agenzia, che, anche data la mia vicenda professionale, considero la quintessenza del giornalismo; anzi, sono convinto che un tweet ben fatto, che viene dalla fonte e che contiene un’informazione, o una valutazione, è già una notizia e non ha quindi bisogno di essere ‘rielaborato’ a notizia; anzi ancora, proprio a dirla con assoluta franchezza, non capisco le agenzie che si mettono a ‘notiziare’ i tweet, che sono già fuori e pubblici, invece di partire, eventualmente, dai tweet per costruire ‘meta notizie’ che talora sono più notizia delle notizie.

Ok, mi fermo, perché probabilmente ci state perdendo la bussola e fra poco mandate un SOS, cioè un tweet chiedendo aiuto. E veniamo al punto: se Derrick de Kerckhove, il mio guru di riferimento per tutto quello che riguarda il futuro della comunicazione e, in subordine, dell’informazione, mette in rilievo il ruolo di Twitter come strumento per rispondere in diretta ai media tradizionali e difendere in modo efficace la ‘personal reputation’ aziendale e/o personale, non posso che essere d’accordo con lui.

Ma vado pure oltre, perché considero Twitter non solo uno strumento di difesa e di reazione, ma, direi ancora di più, uno strumento d’attacco e d’iniziativa: la sua brevità impone sinteticità ed efficacia espressive e linguistiche, sfronda a zero le chiacchiere, esalta dati e concetti, suggerisce d’essere pregnanti e densi, induce ad essere ficcanti e ironici… Tutta roba che sta nel ‘bagaglio’ d’un Chiellini, ma ancora di più in quello d’un Dybala: fuor di metafora, corredo da attaccanti, che va bene pure ai difensori.

E siccome, da sempre, ma oggi più d’un tempo, ché tutto gira più veloce, l’arrivare prima e l’occupare lo spazio dell’informazione è essenziale per il successo della comunicazione, allora mandiamo fuori i tweet d’attacco, invece che sfoggiare quelli di difesa: facciamoci retwittare, invece che stare lì a ritwittare gli altri.

Sempre che abbiamo qualcosa da twittare di sensato e/o d’importante –meglio se entrambi-. Altrimenti, stiamocene silenti e ‘non twittanti’ nel nostro cantuccio: nel suo, Pascoli, un secolo e mezzo fa, sentiva solo “le reste stormir del grano”; nel nostro, che è meno agreste e più tecnologico, ci arriveranno i fruscii degli altrui cinguettii.