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giovedì 31 gennaio 2013

Punto: Italia/Ue, Monti in missione per un pugno di miliardi (e di voti?)

Scritto per l'Indro il 31/01/2013

Missione europea del premier Monti, molto probabilmente la penultima del suo mandato. Ma, come già accaduto la scorsa settimana al Forum economico mondiale di Davos, quando Monti si muove, di questi tempi, non viaggiano più in due, come era prima, il premier e il professore, ma in tre, perché parte pure il candidato. Così, tappe, incontri, dichiarazioni creano un intreccio di significati, teorici, amministrativi e politici.

Ieri e stamane a Bruxelles, poi oggi a Berlino, il presidente del Consiglio italiano ha ufficialmente preparato il Vertice europeo della prossima settimana, il 7 e l’8, quando i capi di Stato o di governo dei 27  riprenderanno, e dovrebbero condurre a termine, la discussione sulle prospettive finanziarie a medio termine dell’Unione europea: si tratta di decidere, in sostanza, quanti soldi e come e dove l’Ue potrà spendere dal 2014 al 2020.

Il negoziato rimase in sospeso lo scorso novembre, quando il Vertice si chiuse con un nulla di fatto e un rinvio stra-annunciato a del tutto prevedibile, al punto che non s’era capito perché quel Vertice dovesse proprio farsi. Rispetto alle posizioni allora raggiunte, l’Italia cerca adesso di recuperare qualche miliardo di euro: si tratta di ridurre i tagli previsti alle politiche agricola e di coesione rispetto alle proposte di partenza della Commissione europea. La bozza di compromesso elaborata dal presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy, che prevede poco più di 1000 miliardi di spesa in sette anni, dovrà però essere ulteriormente limata, sotto la spinta dei campioni del rigore.

Monti ne ha parlato con Van Rompuy, dopo averne già discusso ieri con Manuel Barroso, presidente della Commissione europea.  Stesso tema con la cancelliera tedesca Angela Merkel, che, per una volta, non è la capofila del ‘partito dei tagli’: meno di lei, vuole spendere per l’Unione David Cameron, il premier britannico. Alla Merkel, Monti ha ricordato che il bilancio dell’Ue deve essere proporzionato ed equo, ha detto che l’Italia ha già pagato più di quanto non fosse giustificato – il nostro Paese è un contribuente netto – e che ci vuole una riforma del sistema dei rimborsi e degli sconti, di cui beneficia soprattutto la Gran Bretagna.

A Bruxelles, il colloquio tra Monti e Van Rompuy è stato piuttosto lungo, circa due ore. Nonostante ciò, il premier, all’uscita, si è limitato a constatare che “il colloquio è andato bene”. Evidente, ieri e oggi, specie dopo le recenti polemiche su una sortita anti-Berlusconi di Olli Rehn, vice-presidente dell’Esecutivo comunitario, il desiderio degli interlocutori del premier di non farsi risucchiare nelle beghe italiche.

Se il bilancio quadro per i sette anni dal 2014 al 2020 supera di poco i 1000 miliardi, gli accordi si giocano su pochi ‘spiccioli’. Nella bozza Van Rompuy del novembre 2012, ricorda su EurActiv Giuseppe Latour, Pac e coesione subivano taglio per circa 55 miliardi rispetto alle proposte di partenza della Commissione, facendone perdere una decina all’Italia. L’ultimo tentativo di accordo prevede che la limatura si riduca, a detrimento di altre voci: in tal modo Roma potrebbe recuperare circa tre miliardi. Un passo nella giusta direzione, secondo Monti, ma non ancora abbastanza. L’obiettivo è recuperare almeno un paio di miliardi ancora tra Pac e coesione.

Sulla strada del Vertice,restano però diverse altre incognite. La presidenza di turno irlandese si dice ottimista e fa sapere che “le indicazioni sono positive”. Ma Berlino e Londra sono ancora perplesse perché volevano un taglio di 100 miliardi rispetto alla bozza Van Rompuy. Il presidente pare, invece, orientato a recuperarne solo una ventina nelle pieghe del bilancio: non è detto che bastino.

E poi c’è il Parlamento europeo, che dovrà ratificare l’accordo dopo il varo.  Gli eurodeputati hanno già fatto sapere di non essere disposti a scendere sotto la quota indicata dall'Esecutivo comunitario: 1.031 miliardi di euro. E visto che, presumibilmente, i 27 chiuderanno a una quota inferiore, resta da capire quel che deciderà di fare l’assemblea.

Nella tappa bruxellese della sua missione, Monti ha anche dovuto spiegare alla Commissione che cosa sta accadendo intorno alla Banca del Monte dei Paschi di Siena e, in questo contesto, ha sostenuto che il progetto del completamento dell’unione bancaria è fondamentale.

mercoledì 30 gennaio 2013

Punto: Usa, Kerry al posto di Hillary, non cambia (quasi) nulla

Scritto per l'Indro il 30/01/2013

Gli Stati Uniti hanno un segretario di Stato, cioè un ministro degli esteri, nuovo: il Senato ha infatti ratificato la larga maggioranza la designazione di John Kerry. Il successore di Hillary Clinton s’insedierà ufficialmente a Foggy Bottom venerdì 1.o febbraio, dopo avere rassegnato le dimissioni da senatore del Massachusetts. E lì si aprirà un’altra storia, che fra un po’ vi raccontiamo.

Il presidente Barack Obama ha espresso la sua soddisfazione per il voto del Senato. E, a Kerry, messaggi di congratulazioni, e richieste di appuntamenti, sono giunti da Lady Ashton, ‘ministro degli esteri’ europeo; da Giulio Terzi, ministro degli esteri italiano –Kerry “è un vero amico dell’Italia”-; e da mezzo mondo, anzi decisamente da più di mezzo mondo. A conti fatti, Terzi potrebbe essere fra i primi a rendere visita al collega a Washington, accompagnando negli Stati Uniti il presidente Giorgio Napolitano, invitato da Obama alla Casa Bianca il 15 febbraio per un incontro di commiato.

Nell'esprimere la soddisfazione per il voto del Senato, il presidente Usa scrive: "Dal suo servizio come militare decorato nella guerra del Vietnam, sino ai decenni passati al Senato, la carriera di Kerry è quella di un campione della leadership globale americana. E' assolutamente preparato a guidare la diplomazia americana negli anni a venire. S'é guadagnato il rispetto del mondo e la fiducia di democratici e repubblicani del Senato. Sono fiducioso che farà un lavoro straordinario ... Non vedo l'ora di lavorare con lui negli anni a venire nello sforzo comune di assicurare la leadership americana nel mondo e far avanzare gli interessi e i valori che mantengono forte la nostra nazione".

L’uscita di scena di Hillary e l’arrivo di Kerry non dovrebbe cambiare (quasi) nulla nella politica estera americana. Tocchi di stile a parte: Hillary è più esuberante e, forse, conserva ambizioni di Casa Bianca per Usa 2016; Kerry, 69 anni, è un ‘pesce lesso’, che ha seppellito le ambizioni presidenziali dopo essere stato sconfitto da George W. Bush nelle elezioni 2004. A fine missione, prevedibilmente al termine del secondo mandato del presidente Obama, sarà pronto per la pensione.

Kerry, negli ultimi anni, ha presieduto la commissione Esteri del Senato ed ha sempre avuto interesse per gli affari internazionali –é un americano anomalo, che ha studiato in Svizzera e parla le lingue-: non dovrà faticare troppo per mettersi a pari sui dossier del momento. Un’idea se la sarà già fatta scorrendo, oggi, i titoli delle agenzie di stampa internazionali: la guerra in Mali, che va bene per i francesi e per il contingente africano schierato al loro fianco –dalla notte scorsa, è stato ripreso ai ribelli l’aeroporto di Kidal, nel Nord-est del paese, al confine con l’Algeria-; l’insurrezione in Siria, dove le Nazioni Unite hanno lanciato l’ennesimo probabilmente inutile grido d’allarme; i fermenti di protesta in Egitto, che non hanno oggi indotto al presidente Mohamed Morsi a rinunciare alla visita in Germania, dove la cancelliera Angela Merkel gli ha fatto un predicozzo sul dialogo; e i negoziati per la formazione del governo in Israele, dopo l’esito non del tutto atteso delle elezioni politiche del 22 gennaio.

Beh, certo, per essere le notizie dal Mondo vengono tutte dal Medio Oriente o giù di lì. Ma non c’è dubbio che l’attenzione di Kerry dovrà concentrarsi su quell’area, senza però dimenticare l’Europa e la Russia, l’Asia e la Cina, l’Africa e il ‘cortile di casa’, l’America latina.

Obama avrà presto modo di testare sul terreno il suo nuovo ‘capo diplomatico’. La cui nomina potrebbe, però, riservare un cruccio al presidente, perché i democratici rischiano di perdere un seggio al Senato. Il Massachusetts, lo Stato dei Kennedy, nel New England, è una sorta di feudo liberal e progressista, che, però, alla morte di Ted Kennedy, era stato ‘violato’ da Scott Brown, repubblicano moderato, poi a sua volta battuto, il 6 novembre, dalla democratica Liz Warren.

Adesso Brown sarebbe pronto a cercare di riprendersi il posto al Senato, nelle elezioni suppletive che, probabilmente, si faranno a giugno, mentre le primarie sono già previste il 30 aprile. Contro di lui, per i democratici, potrebbe esserci Barney Frank, un veterano del Congresso, 73 anni, apertamente gay, che alle ultime elezioni non s’è ricandidato. Nel luglio del 2012 Frank è stato il primo parlamentare Usa a sposarsi con il partner di una vita, mentre era ancora in carica.

Di qui a giugno, il posto di senatore del Massachusetts vacante sarà tenuto da una persona scelta dal governatore dello Stato: si fanno nomi che sono pezzi di storia dell’America, Ethel, vedova di Ted, una Kennedy, oppure Michael Dukakis, ex governatore dello Stato, candidato democratico alla Casa Bianca nel 1988 –a batterlo, fu George Bush padre-.

E Hillary, in tutto questo? Donna, madre, moglie, leader mondiale, l’ormai ex segretario di Stato non ha ufficialmente rilanciato la corsa per diventare la prima inquilina della Casa Bianca. "Deciderò a suo tempo ... per ora devo recuperare 20 anni di sonno perso", spiega sorridente in tv. Insomma, se ne parla, forse, nel 2014. Tuttavia –nota Marcello Campo, dell’ANSA- “ogni sua apparizione è sempre più 'presidenziale', a conferma che, se solo volesse, nel 2016 sarebbe lei, l'ex First Lady, la favorita”. Come emerso chiaramente nella prima intervista tv congiunta con Obama, domenica scorsa, quasi un endorsement.

martedì 29 gennaio 2013

Punto: Egitto, l'Occidente sta sempre dalla parte del più forte

Scritto per l'Indro il 29/01/2013

Due anni dopo la sua Primavera, l’Egitto è di nuovo sull’orlo del collasso. La messa in guardia viene dai vertici dell’Esercito, l’istituzione che ha di fatto garantito un ordine nel Paese dopo la cacciata del presidente satrapo Hosni Mubarak e l’elezione dell’attuale presidente Mohamed Morsi, il primo scelto dal popolo con libere elezioni. Esponente dei Fratelli Musulmani, Morsi sta ora cercando di fronteggiare le sanguinose proteste scatenate contro di lui dai suoi provvedimenti, ultimo la proclamazione dello stato d’emergenza.

Ancora una volta, gli eventi egiziani testimoniano la difficoltà dell’Occidente ad anticipare quanto possa accadere nel Mondo arabo e musulmano: questo scoppio di violenza e d’intolleranza nessuno l’aveva anticipato. E le diplomazie occidentali sono in difficoltà a trovare una posizione sostenibile fra le fazioni che si scontrano. Si direbbe che la nostra prima scelta di campo sia sempre dettata dalla convinzione, più che dalla percezione, che il mantenimento dello statu quo è comunque migliore di qualsiasi evoluzione.

Così, nel 2011 ci volle del tempo perché gli Stati Uniti e i loro partner ‘mollassero’ Mubarak e accettassero il possibile avvento di un presidente espressione dei Fratelli Musulmani, com’è poi puntualmente avvenuto con elezioni democratiche. E ora l’Occidente praticamente ignora le ragioni della protesta, nonostante essa venga da settori della società egiziana ‘liberali’ e in linea di massima quindi più vicini alla nostra sensibilità.

E’ vero, del resto, che, negli ultimi giorni, manifestazioni, proteste, scontri, vittime a decine sono derivati dall’intreccio di cause diverse: ci sono le preoccupazioni della parte meno profondamente religiosa della società egiziana per la svolta radicale del Paese; ma ci sono pure state le opposte violente reazioni alla sentenza straordinariamente severa del Tribunale di Porto Said, con 31 condanne a morte per la morte di decine di persone nella ressa a una partita di calcio, dove i tifosi delle due squadre avevano diverse appartenenze politiche e religiose. Con i criteri della magistratura della città sul Canale, però, quanti tifosi del Liverpool dovevano essere condannati alla pena capitale per la strage dell’Heysel, 39 morti il 25 maggio 1985?

Anche se il numero delle vittime, ieri e oggi, è stato modesto, o nullo, rispetto ai giorni precedenti, c’è, al Cairo, nervosismo per quel che potrebbe accadere venerdì, il giorno di festa e di preghiera, quando l’opposizione ha già chiamato alla protesta i suoi sostenitori. E la situazione incandescente dell’Egitto non contribuisce certo a stemperare le tensioni nel Grande Medio Oriente e nell’Africa mediterranea e sub-sahariana. In Siria, dove la guerra civile è senza tregua, fonti dell’insurrezione anti-al Assad riferiscono del ritrovamento di almeno 65 cadaveri in un quartiere di Aleppo, nel nord del Paese: avevano le mani legate ed erano stati apparentemente uccisi con un colpo alla testa, vittime di una vera e propria esecuzione.

Le tensioni politiche e militari in Egitto e Siria s’intrecciano con le trattative per la formazione del governo in Israele, dopo le elezioni politiche della scorsa settimana: un altro di quegli incroci d’eventi ad alto rischio cui le cronache ci hanno drammaticamente abituati in quest’area del Mondo.

Invece, in Mali, l’intervento militare francese contro le milizie jihadiste ‘imparentate’ con al Qaida sembra essere stato risolutivo, almeno per il momento, complice una spaccatura nei guerriglieri fra nazionalisti e integralisti. Risultato, le truppe regolari maliani stanno ‘ripulendo’ da esplosivi ed armi abbandonate dai ribelli in rotta le città del Nord riconquistate, Timbuctu e Gao, mentre Parigi sta già considerando la possibilità di affidare il completamento delle operazioni alle truppe maliane e al contingente dell’Africa occidentale nel frattempo allestito.

Punto: Iran, una scimmia come Laika, ma torna a terra viva

Scritto per l'Indro il 28/01/2013

La notizia andrebbe letta mentre scorrono immagini Anni Cinquanta, rigorosamente bianco e nero: quelle del 3 novembre 1957, quando uno Sputnik russo portò in orbita per la prima volta un essere vivente, la cagnetta Laika. L’Iran –si apprende- ha ora lanciato con successo una sonda nello spazio con una scimmia a bordo. Il vettore ha raggiunto l'altezza di 120 km, tornando a Terra con l'animale in vita –di Laika, invece, il rientro non venne previsto: la cagnetta morì in orbita, poche ore dopo, o qualche giorno dopo, il lancio, le versioni sono tuttora contrastanti-.

Il fermento di notizie dall’Iran di solito è poco più di un brusio, un po’ perché il regime spesso non gradisce l’attenzione internazionale, e un po’ perché gli ‘al lupo, al lupo’ della presunta minaccia nucleare hanno ormai logorato la loro efficacia. Oggi, invece, sovrasta le informazioni che arrivano dall’Egitto, dove, dopo cinque giorni di proteste cruente, la proclamazione dello stato d’emergenza  e l’autorizzazione all’esercito ad arrestare i civili placano le manifestazioni – le cronache segnalano un solo morto ammazzato, dopo la cinquantina dei giorni scorsi. Nel Mali, truppe francesi e maliane prendono il controllo di Timbuctu, la città incrocio nei secoli di carovane, merci e culture, che l’Unesco considera patrimonio dell’umanità; ma gli jihadisti, prima di fuggire, danno alle fiamme diversi edifici, fra cui una libreria di manoscritti d’incommensurabile valore.

Ma torniamo all’Iran, che aveva già inviato nello spazio una prima "biocapsula di creature viventi" nel febbraio 2010, usando i suoi vettori Kavoshgar-3, cioè Explorer-3. Il lancio della scimmia, utilizzando un Kavoshgar-5 era stato annunciato nel maggio scorso per l'estate seguente, ma era poi stato rinviato. L'animale è stato addestrato per un anno: gli esperimenti sui primati preparano –è stato spiegato- la messa in orbita di astronauti iraniani fra "cinque-otto anni", secondo i programmi – un po’ vaghi, a dire il vero - dell'Agenzia spaziale iraniana.

L'Iran ha un intenso programma di sperimentazione ed esplorazione, centrato sul lancio di satelliti. L'anno scorso, aveva già completato almeno all'80% un proprio centro di ricerca e lancio per queste attività iniziate nel 2009 con il satellite Omid", Speranza, e proseguite nel giugno 2011 con il Rasad e, da febbraio, con il Navid portato in orbita da un razzo Safir B1.

La ‘conquista dello spazio’ iraniana è monitorata con diffidenza dalla comunità internazionale: c’è il sospetto, che Teheran respinge come del tutto infondato, che i vettori possano essere progettati per essere utilizzati per montarvi testate nucleari. L'Iran comunque si considera "la quinta o sesta maggiore potenza missilistica al mondo", dietro Stati Uniti, Russia, Ue, Cina e lì lì con Giappone e Corea del Nord; ed esalta i risultati delle sue esercitazioni militari con testate convenzionali come elemento di deterrenza nei confronti delle minacce belliche israeliane.

L’invio in orbita di una scimmia alimenterà, probabilmente, le diffidenza israeliane e occidentali verso l’Iran, che proprio oggi è stato bacchettato da un suo grande partner internazionale, la Russia. Il ministro degli esteri Serghiei Lavrov ha espresso "profondo rammarico" per il rinvio dell'ennesimo incontro con l’Iran dei ‘5+1’ – le 5 potenze nucleari ‘storiche’ con diritto di veto all’Onu più la Germania -.

La ripresa dei negoziati sul dossier nucleare iraniano è slittata per un problema "futile" come la scelta del luogo dove tenere le trattative: Mosca auspica che i mediatori internazionali e l'Iran "la smettano di fare i capricci come i bambini".E, intanto, le autorità di Teheran smentiscono quanto pubblicano dal Sunday Times su una presunta esplosione nel sito nucleare di Fordow, nei pressi di Qom, a sud della capitale. Il giornale britannico, citando fonti di intelligence israeliane, segnalava  "una mega esplosione" nell'impianto anticipata venerdì con messaggi su Twitter. Le fonti del Times si rifiutavano di commentare l’indiscrezione che l'area dell'impianto fosse stata individuata da un aereo israeliano. E responsabili israeliani hanno a loro volta detto ai media locali di "non sapere nulla" dell'esplosione e di aver appreso la notizia "leggendo i giornali".

Tra un successo spaziale e una smentita nucleare, il regime iraniano porta avanti la sua priorità, che è la repressione della libertà di espressione all’interno del Paese. Sempre oggi c’è stata una retata di giornalisti che collaboravano con l’estero, cioè … davano notizie alla Bbc.

sabato 26 gennaio 2013

Punto: Rep. Ceca, ritorno in Europa con nuovo presidente

Scritto per l'Indro il 25/01/2013

Chiunque vinca il ballottaggio presidenziale, in corso da oggi, la Repubblica Ceca,
domani, sarà un po’ più dentro l’Unione europea. I due candidati rimasti in lizza,
dopo il primo turno l’11 e 12 gennaio, Milos Zeman, un veterano della sinistra, e
Karel Schwarzenberg, un aristocratico conservatore, sono entrambi su posizioni
nettamente più europeiste del presidente uscente Vaclav Klaus, che ha costantemente
tenuto il suo Paese ai margini dell’Ue, fuori – insieme alla Gran Bretagna - dal Patto
di Bilancio. Le presidenziali ceche sono le prime elezioni ‘pesanti’ di questo 2013
europeo: le altre consultazioni che contano sono le politiche italiane, a febbraio, e
tedesche, a settembre.

Mentre a Praga si va alle urne. Al Cairo si protesta in strada: il secondo anniversario
della Primavera egiziana è l’occasione di manifestazioni e di scontri con la polizia
sulla piazza Tahrir, luogo simbolo del riscatto egiziano dal regime di Hosni Mubarak
e della rivoluzione che ha condotto all’elezione di quel presidente ora a sua volta
contestato. Le proteste contro Mohamed Morsi, un esponente dei Fratelli Musulmani,
fanno oltre 100 feriti nella capitale e a Suez. Varie sedi dell’organizzazione islamica
vengono assaltate. C’è nel Paese un clima di tensione e s’insoddisfazione, che trova
in parte alimento anche dal momento d’agitazione e di violenza nell’Africa del Nord
e subsahariana e in tutto il Grande Medio Oriente.

In questo clima, diversi Paesi europei hanno sollecitato i loro cittadini a lasciare
Bengasi, il capoluogo della Cirenaica, culla della sommossa anti-Gheddafi due anni
or sono, citando “imminenti e specifiche” minacce contro gli Occidentali, collegate
alla sanguinosa azione terroristica degli integralisti islamici in località In Amenas,
campo di gas nel Sahara algerino. E proprio il conflitto in Libia fornisce guerriglieri
senza bandiera ed estremisti jihadisti alle fila delle organizzazioni armate che si
richiamano ad al Qaida e si muovono tra il Mali e il deserto (e sono pure sempre più
presenti in Siria).

E, mentre in Egitto la protesta popolare s’indirizza contro i Fratelli musulmani,
proprio i Fratelli Musulmani annunciano in Giordania una nuova ondata d’iniziative e
manifestazioni per sollecitare riforme elettorali, dopo che i candidati pro-governativi
hanno ottenuto una facile vittoria nelle elezioni politiche di questa settimana,
boicottate dagli islamici che non le ritenevano eque.

Dal Medio all’Estremo Oriente, dove un focolaio di tensione perennemente acceso
è quello della penisola coreana. La Corea del Nord minaccia d’attaccare quella del
Sud se Seul dovesse adottare nei suoi confronti una nuova serie di sanzioni dell’Onu
rafforzate. Washington, invece, va oltre le disposizioni delle Nazioni Unite e applica
ulteriori restrizioni economiche a Pyongyang, dopo il test di un missile nordcoreano
il mese scorso.

Negli Stati Uniti, dove il presidente Barack Obama porta avanti un vasto rimpasto
della sua Amministrazione, all’inizio del secondo mandato, il Pentagono autorizza,
per la prima volta, l’impiego delle donne in prima linea: un passo che alcuni
giudicano storico per affermare l’uguaglianza dei generi nelle forze armate degli Usa,
dopo 11 anni di guerre contro il terrorismo, dall’Afghanistan all’Iraq, in cui le donne
sono state sempre più presenti sul campo di battaglia, e vi hanno pure subito perdite,
ma non sono mai state utilizzate in ruoli di combattimento a terra.

La decisione del Pentagono coincide con un’iniziativa dei democratici nel Congresso
di proporre la messa al bando delle armi d’assalto, quelle di derivazione militare,
automatiche, per ridurre il rischio d’altre stragi analoghe a quella del dicembre scorso
in una scuola elementare di Newtown (Connecticut)- Il partito di Obama si rivolge
all’opinione pubblica, perché si mobiliti per battere l’opposizione al provvedimento
della lobby delle armi, trincerata dietro la tutela loro assicurata del II emendamento
della Costituzione statunitense.

venerdì 25 gennaio 2013

Usa: Grand Hotel Casa Bianca, chi va e chi viene con l'Obama 2

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/01/2013

Grand Hotel Casa Bianca: come nel film di Edmond Goulding con Greta Garbo, “gente che va, gente che viene”. Al cambio di presidente, anzi, tutti vanno e tutti vengono: è lo ‘spoil system’; ci pare lunare, ma funziona. E pure quando il presidente resta lo stesso, il viavai tra un mandato e l’altro è elevato: chi lascia per logoramento; chi parte per siluramento; e chi si posiziona. Potrebbe essere il caso di Hillary Rodham Clinton, la più popolare nei sondaggi attuali per Usa 2016, giusto davanti al vice di Obama Joe Biden: ma siamo a un concorso di bellezza della terza età, c’è tempo per vedere venire avanti candidati meno stagionati.

Verso la fine del suo secondo quadriennio, il presidente dovrà poi fare fronte a un vero e proprio esodo:  molti dei suoi giocheranno d’anticipo e coglieranno le occasioni che avranno, per evitare di ritrovarsi a fine mandato con in mano lo scatolone per svuotare l’ufficio.

Il rimpasto dell’Amministrazione 2013 è profondo, investe tutti e tre i maggiori dicasteri: esteri, difesa ed economia; e anche il posto più delicato per l’organizzazione interna, quello di capo dello staff della Casa Bianca, quello che da noi è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma più alla Gianni Letta che alla Antonio Catricalà.

La Clinton, Leon Panetta e Timothy Geithner  non sono però gli unici partenti. Altri due che se ne vanno, ad esempio, sono Ken Salazar, il ministro dell’Interno, che, negli Usa, non conta, però, come da noi, e Steven Chu (Energia).

Le sostituzioni non sono mai immediate, perché il Senato deve avallare le scelte del presidente. E’ bene avviata la ratifica della nomina di John Kerry a segretario di Stato al posto della Clinton, che ha praticamente concluso la sua missione con una sofferta audizione in Senato sulla strage di Bengasi a settembre.
Hillary lascia un monito sulla minaccia che tuttora incombe sugli occidentali a Bengasi, dove sono attive cellule terroristiche legate ad al Qaida.

Occuparsene, sarà, però, compito del suo successore: Kerry, candidato democratico alla presidenza nel 2008,  ha il ‘test d’ammissione’ facilitato, perché l’esame glielo fa la commissione esteri del Senato che lui ha presieduto negli ultimi quattro anni. Kerry è, però, una seconda scelta: Obama, infatti, puntava su Susan Rice, l’ambasciatrice degli Usa all’Onu, che l’opposizione repubblicana ha costretto alla rinuncia preventiva, contestandole reticenze e falsità proprio in audizioni sulla strage di Bengasi.

Non in discesa la strada di Chuck Hagel, il repubblicano dissidente scelto per guidare il Pentagono al posto di Panetta. Gli tirano addosso i repubblicani, e fin qui ci sta; ma gli giocano pure contro i rallegramenti iraniani alla sua designazione e la fama di ‘anti-israeliano’, oltre che una gaffe anti-gay, di cui si scusò, quando disse che un omosessuale non può fare l’ambasciatore.

Per Jacob Lew, uno di cui Obama si fida -lo aveva capo dello staff e responsabile del bilancio-, l’ok del Senato al posto di Geithner pare acquisito: la sola pecca che la blogosfera gli ha finora trovato è una firma illeggibile. Al suo posto, alla Casa Bianca, andrebbe Denis McDonough, numero due tra i consiglieri per la Sicurezza nazionale.

giovedì 24 gennaio 2013

Punto: negoziati e chiacchiere, una giornata senza cronaca

Scritto per l'Indro il 24/01/2013

Ci sono giorni che il Mondo sembra preso da un tremolio di notizie incessante e frenetico. E ci sono giorni che pare fermarsi. Oggi, è come se si fosse fermato: dopo il voto in Israele, dopo i sussulti in Africa, dopo i panni dell’Europa lavati nel Tamigi dal premier britannico David Cameron, ci siamo goduti 24 ore di ‘pausa di riflessione’. O –ed è più probabile- non ci siamo accorti di quel che ci è successo tutto intorno.

In Israele, il premier uscente Benjamin Netanyahu, che s’accinge a succedere a se stesso, ha già messo dell’acqua nel suo vino nazionalista e oltranzista e sta adattando il linguaggio agli interlocutori con cui deve negoziare la formazione di una maggioranza: in primo luogo, il partito centrista ‘C’è futuro’ del giornalista Yair Lapid. Ecco, allora, l’ipotesi di un programma di governo sul ‘pane e burro’ delle famiglie israeliane, più che sulla presunta minaccia nucleare iraniana e sulla questione palestinese. Anche se, poi, Netanyahu avrà il problema d’imbarcare nella coalizione almeno il partito dei coloni, se vuole arrivare ai 61 seggi, che sono la maggioranza minima in una Knesseth di 120 seggi. E, con i rappresentanti dei coloni, altri argomenti dovrà esibire.

Dal Mali, dove truppe di terra africane e francesi si preparano a lanciare una grossa offensiva, per stanare dai loro santuari nel Sahara gli integralisti musulmani vicini ad al Qaida, la Reuters riferisce che divisioni starebbero emergendo fra  gli jihadisti, non più sicuri dell’inviolabilità del loro territorio e spaccati sull'esito  dell’azione di In Amenas, in Algeria, conclusasi con una carneficina: decine gli ostaggi e i terroristi uccisi.
Stallo momentaneo nel deserto sahariano, dunque. E stallo pure in Siria, dove fonti diplomatiche francesi ammettono che il rovesciamento del presidente Bashar al-Assad non sarebbe così imminente come Parigi aveva creduto fino a qualche tempo fa. La strategia diplomatica occidentale basata sull'ineluttabilità della fine del regime andrà forse rivista.

L’Unione europea s’interroga sul significato e sull'impatto del discorso fatto ieri dal premier britannico David Cameron: da una parte, il progetto di un referendum ‘dentro o fuori’; dall'altra, il desiderio d’allontanare il più possibile questa prova, dopo le prossime elezioni nazionali –e sempre che i conservatori le vincano di nuovo-, non prima del 2015, forse non prima del 2017. Molti giudicano il monito di Cameron, che qualsiasi tentativo di approfondire l’integrazione europea verso un’unione politica sarebbe un errore, e che Londra ne rimarrebbe fuori, un tentativo di condizionare (e frenare) la volontà dei partner di andare avanti su quella strada. E molti avvertono, a loro volta, il premier britannico che l’Unione non è un ‘self service’, dove uno Stato, per quanto importante come il Regno Unito, decide che cosa prendere e che cosa lasciare.

A Washington, fila invece liscio –pare- il processo di ratifica della nomina di John Kerry a segretario di Stato, al posto di Hillary Rodham Clinton, che ha praticamente concluso la sua missione con la sofferta audizione in Senato sulla strage di Bengasi a settembre, costata la vita all'ambasciatore in Libia Christopher Stevens e a tre marines. La Clinton ha lanciato un monito, ripreso oggi da Berlino, sulla minaccia che tuttora incombe sugli occidentali a Bengasi, dove sono presenti e attive cellule terroristiche legate ad al Qaida. Occuparsene, sarà, però, compito del suo successore: Kerry ha il ‘test d’ammissione’ al Dipartimento di Stato facilitato, perché l’esame glielo fa la commissione esteri del Senato che lui ha presieduto negli ultimi quattro anni.

Italia 2013: Monti a Davos si fa in tre, prof, premier e candidato

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/01/2013
Il World Economic Forum di Davos è uno di quei posti dove non succede assolutamente nulla, valanghe di parole a parte, ma dove un sacco di persone vogliono esserci e, soprattutto, essere viste. Anche i Mario Monti, il professore, il premier, e pure il candidato, sentono il rischiamo del Forum. Il professore arriva e dice, dati alla mano, di essere fiducioso sul futuro dell’Italia: promuove l’azione della Bce, ma chiosa che senza i sacrifici dell’Italia salvare l’euro sarebbe stato più difficile per Mario Draghi. Il premier racconta, per l’ennesima volta, che il clima nei confronti dell’Italia è cambiato nei consessi internazionali , che “c’è più rispetto”. E il candidato annuncia che, se e quando tornerà al governo, rafforzerà la legge contro la corruzione e continuerà sulla via del rigore e della riduzione del debito, ma senza più mettere nuove tasse.
E il candidato prende il sopravvento: “La disoccupazione è intollerabile –dice-. I giovani che la subiscono sono vittime dei governi precedenti, impegnati in promesse elettorali che non potevano mantenere”. Ma dall’Italia PierLuigi Bersani lo richiama alle sue responsabilità: “Il premier pensi agli esodati che ha creato”, ché quel pasticcio va tutto ascritto alla premiata ditta Monti & Fornero. E Bersani aggiunge: “Né Berlusconi il miliardario né Monti il tecnico possono risolvere la grave situazione sociale”. Proprio mentre l’Fmi taglia le stime di crescita dell’Italia: nel 2013, il Pil si contrarrà ancora dell’1%, altro che “luce al fondo del tunnel”.
Su quanto valgano le analisi e le promesse di Davos, ci scherza su Der Spiegel, in un articolo dal titolo un po’ cimiteriale: “I condannati a morte vivono più a lungo e questo vale anche per la zona euro”. Nell’edizione online, il settimanale tedesco ricorda che, un anno fa, molti economisti avevano predetto un “rapido collasso” della moneta europea. E, invece, la zona euro è ancora vegeta e integra. Per il Forum 2013, il motto è 'Dinamismo resistente', che, commenta  il giornale, "si può semplicemente tradurre con l'espressione: Urrà, siamo ancora vivi!".
Sui titoli, quelli di Davos sono davvero super. L’intervento di Monti, che apre la sessione plenaria –il suo è il primo dei cinque ‘special addresses’ di questa edizione: gli altri li pronunceranno Cameron e la Merkel, Medvedev e la Lagarde-, s’intitola ‘leading against the odds’. Che, a volerlo tradurre, può diventare ‘governare nonostante tutto’, ma anche ‘indicare la strada contro le avversità’, o ancora ‘essere in testa contro ogni pronostico’; e che, in realtà, vuole dire un po’ tutte queste cose.
Monti arriva a Davos nella tarda mattinata ed entra subito nel tourbillon: due incontri a porte chiuse, un ‘business interaction group’ sull’Italia e un dibattito dell’International Business Council sulla competitività europea; poi c’è il discorso d’apertura della sessione plenaria. In serata, una cena, cui il padrone di casa Klaus Schwab invita capi di Stato e di governo –nella lista, Cameron e la Merkel, un mini-vertice europeo- e leader delle organizzazioni internazionali.
Oggi, Monti ha un breakfast con gli italiani al Forum, quindil’incontro informale dei leader economici mondiali sulla ‘rinascita europea’; e, a seguire, una sessione aperta sulla crisi europea, con sparring partner il premier irlandese Enda Kenny, presidente di turno del Consiglio dell’Ue, e il premier olandese Mark Rutte, un falco sulla spalla della Merkel. Infine, altri due incontri europei e, dopo 28 ore ‘svizzere’, il rientro in Italia.
Più interessante quello che si dice a porte chiuse che i discorsi pubblici; e più interessanti i colloqui a margine dei dibattiti programmati. A Monti, questo genere di appuntamenti internazionali piace: l’aveva già mostrato in estate, andando per un incontro del genere fin sulle Montagne Rocciose, negli Stati Uniti.
Alcuni degli economisti che nel 2012 avevano predetto il crollo dell’euro ammettono ora l'errore. Il premio Nobel Paul Krugman, per esempio, che aveva preannunciato un'incombente apocalisse, riconosce: "L'Europa mi ha sorpreso per la sua resistenza politica". Willem Buiter, capo economista di Citigroup, che aveva annunciato scenari catastrofici per i paesi della moneta unica, difende, invece, la sua previsione, anche se rimandata nel tempo e con minore probabilità –a meno che, commenta Der Spiegel, in Italia non torni Berlusconi-.

mercoledì 23 gennaio 2013

Israele: ben ti sta, Benjamin. Ma la pace?, adesso...

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 23/01/2013. Altra versione nel Punto dell'Indro

Alla Casa Bianca, Barack Obama, appena svegliatosi, deve avere pensato che questo suo secondo mandato non comincia sotto una cattiva stella, in Medio Oriente: quell'antipatico di Benjamin Netanyahu, che già s’era rassegnato a ritrovarsi di fronte pimpante per i prossimi quattro anni, esce dalle elezioni israeliane con una bacchettata sulle dita. Certo, i francesi fanno la guerra in Mali, i terroristi fanno razzie in Algeria e la Siria è una polveriera. Ma, intanto, Netanyahu si ritrova con la coda fra le gambe e abbasserà un po’ la cresta. Tempo qualche giorno e gli manderà in visita il nuovo segretario di Stato John Kerry, tanto per saggiarne lo spirito.

A Bruxelles, invece, dove la signora Ashton ha sei ore di vantaggio sull'Amministrazione statunitense, ma ha bisogno di più tempo per mettere in ordine i suoi pensieri, stanno ancora provando a raccapezzarcisi. Così, i Paesi dell’Ue reagiscono per conto loro, auspicando –ma è una banalità- una pronta ripresa dei negoziati israelo-palestinesi.

In barba ai sondaggi, che davano la coalizione di Netanyahu vincitrice, il voto israeliano vede un pareggio, almeno aritmetico, tra il blocco dei partiti confessionali e di destra e quello dei partiti di centro-sinistra: 60 seggi per parte, per lo schieramento che fa capo al premier uscente e per l’opposizione –nella Knesseth, tradizionalmente frammentata,  i seggi sono 120, ripartiti questa volta fra 12 formazioni-.

Il fatto nuovo è Yesh Atid, C’è un futuro, del giornalista televisivo Yair Lapid, figlio d’arte  (anche il padre era un giornalista poi passato alla politica): la sua difesa della classe media gli è vale il secondo posto fra i partiti in lizza con 19 seggi, dietro l’alleanza Likud – Beitenu di Netanyahu e Avigdor Lieberman, 31 seggi.

Sul fronte della pace, l’incognita principale, però, è l’apparente distacco dell’opinione pubblica israeliana rispetto alla cosiddetta ‘questione palestinese’, fin quando non si tratta di reagire con raid aerei a gragnole di missili katiuscia. C’è il sospetto che la ‘generazione Netanyahu’ voglia fare tramontare, tra lungaggini e diffidenze, la visione dei due Stati che vivano in pace ciascuno all'interno dei propri confini, che è da tempo un mantra della diplomazia internazionale: Andrea Dessì, dello IAI, l’Istituto Affari Internazionale, pensa che l’indifferenza possa seppellire l’dea nel giro di qualche anno.

Su questo sfondo, i risultati elettorali sono un buon segnale, per la pace e per i negoziati con i palestinesi, dopo che la campagna, concentrata sulle questioni economiche e sociali, aveva quasi ignorato il tema?
Non necessariamente: l’impatto è tutto da verificare. Potrebbe risultare negativo, perché un Netanyahu forte sarebbe stato forse più sicuro di sé e meno chiuso nei rapporti con gli alleati, cioè gli Stati Uniti, e con gli interlocutori, cioè i palestinesi, mentre un Netanyahu debole può essere tentato di fare più leva sulla sicurezza d’Israele. Non a caso, le dichiarazioni  a caldo puntano sul fatto che “la prima sfida è impedire all'Iran di dotarsi dell’atomica”: il messaggio è che il nemico è alle porte e che, all'interno, bisogna quindi restare uniti, senza cedimenti né concessioni.

Oppure, potrebbe risultare positivo, perché la ricerca di una coalizione “la più larga possibile” –su questo, Netanyahu e Yair Lapid concordano- dovrebbe attenuare l’ancoraggio religioso e nazionalista del governo, spostandone l’ago dal centro-destra-destra- al centro-destra-centro. Già si parla, infatti, di un’alleanza tra il Likud di Netanyahu, Yesh Atid di Lapid al centro e il Focolare ebraico di Naftali Bennett (11 seggi): insieme, farebbero 61 seggi (su 120). Non è proprio una maggioranza larga, ma si sa che poi c’è sempre qualcuno che sale sul carro dei vincitori, annacquando le  posizioni di partenza in cambio d’una poltrona.

E, infatti, resta da vedere se i partiti accreditati all'una o all'altra parte resteranno, a negoziati in corso, là dove si erano collocati prima del voto. Netanyahu ha già iniziato le consultazioni, in attesa che i risultati diventino definitivi: la Commissione centrale elettorale attende lo spoglio delle schede degli israeliani all'estero e la spartizione dei voti alle liste non entrate nella Knesseth. E l’attuale ripartizione dei seggi,  che vede i laburisti terzi con 15, mentre Kadima s’è ridotto a 2, potrebbe anche subire qualche ritocco.

martedì 22 gennaio 2013

Francia-Germania: amicizia senza passione, dopo 50 anni

Scritto per l'Indro il 22/01/2013

Al culmine delle celebrazioni a Berlino del 50° anniversario del Trattato d’Amicizia franco-tedesco, Germania e Francia annunciano l’intenzione di presentare entro maggio “proposte” per rafforzare l’Unione europea economica e monetaria. “Le faremo –dice la cancelliera Angela Merkel- in vista del Vertice europeo di giugno”, con l’intento di consolidare l’euro. Il presidente François Hollande aggiunge: “Cercheremo di essere il più concreti possibile, cioè il più utili possibile al rafforzamento della crescita.

I riti dell’amicizia franco-tedesca, affidati in passato a coppie di statisti di maggiore statura storica, come Charles De Gaulle e Konrad Adenauer -agli esordi- e Francois Mitterrand e Helmut Kohl -negli Anni Ottanta-, si ripetono nel giorno in cui gli israeliani vanno alle urne per le politiche, mentre segnali di guerra e di terrore continuano a venire dall’Africa: dal Mali, dove truppe francesi e regolari proseguono la riconquista del Nord del Paese caduto sotto il controllo di milizie integraliste jihadiste; e dall’Algeria, dove dinamica e bilancio della presa di ostaggi di In Amenas e del successivo blitz delle forze speciali non sono ancora chiari.

L’Unione europea si propone d’organizzare, il 5 febbraio, a Bruxelles, una riunione internazionale sul Mali, con la partecipazione di Nazioni Unite, Unione africana e Comunità economica dell’Africa occidentale.
A Berlino, Hollande e la Merkel fanno una conferenza stampa dopo un Consiglio dei Ministri congiunto dei due Paesi e prima di una riunione congiunta dei Parlamenti francese e tedesco. Ottimo il clima di incontri e conversazioni, anche se la crisi dell’euro e le strategie per uscirne sono state al centro di tensioni tra Parigi e Berlino negli ultimi mesi; e, ancora lunedì sera, a Bruxelles, proprio mentre la Merkel e Hollande aprivano le celebrazioni con una cena, c’erano state scaramucce all’Eurogruppo tra Francia e Germania.
Infatti Jeroen Dijsselbloem, ministro delle finanze olandese, è divenuto il nuovo presidente del club dei ministri delle Finanze dei Paesi dell’euro per volontà diBerlino e un po’ a dispetto di Parigi. Dijsselbloem succede a Jean Claude Juncker, premier e ministro delle finanze lussemburghese, che ha presieduto lunedì l’ultima riunione del suo mandato. Un ‘euro-tiepido’, quasi un ‘euro-freddo’, dunque, sul trono della moneta unica, dopo Juncker divenuto per tutti ‘il rosso’ con le recenti sortite sul salario minimo.
A elezione avvenuta, Dijsselbloem – leggete ‘daisselblum’, con voce un po’ gutturale, e fidatevi -, 46 anni, socialdemocratico, senza grossa esperienza di governo –è ministro solo dal 5 novembre- e neppure di Unione, ha così sintetizzato la sua agenda: completare l'unione bancaria, proseguire la strategia di consolidamento dei conti, creare occupazione.
Il responsabile delle finanze dell’Aja ha battuta la concorrenza del francese Pierre Moscovici, che partiva in pole. Ma Parigi, alla fine, s’è accontentata della presidenza del consiglio di supervisione della Bce, andata a una donna, Danielle Nouy. La Germania voleva che l’Eurogruppo restasse guidato da un paese piccolo (e fidato per Berlino, come solo Olanda e Finlandia lo sono); e voleva tenerne lontani quegli spendaccioni dei i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). La scelta del successore di Juncker non è però avvenuta all’unanimità: Madrid ha votato contro.

Al passo d’addio come presidente dell’Eurogruppo, Juncker, che resta premier lussemburghese, ha reso omaggio alla “forza motrice” in Europa della coppia franco-tedesca. Forse già sapeva quel che stava per uscire dal cilindro del Vertice di Berlino; o forse s’immaginava che qualcosa del genere sarebbe saltato fuori.

Le celebrazioni del Trattato dell’Eliseo, firmato il 22 gennaio 1963, si sono svolte “con solennità”, come si addice a delle nozze d’oro, ma senza passione: e sono cominciate con l’incontro dei leader con esponenti del mondo della cultura dei due Paesi. Il regista tedesco Wim Wenders vi constatava che “tra Francia e Germania c’è oggi una certa indifferenza”, il che non può stupire “dopo 50 anni di matrimonio”.

E, dopo il Consiglio dei Ministri congiunto e la conferenza stampa, sono proseguite nel pomeriggio con una riunione congiunta al Reichstag del Bundestag e dell’Assemblea nazionale. La Merkel vi sottolineava “la collaborazione straordinaria” fra i due Paesi e la buona intesa personale con Hollande, non sempre confermata dal linguaggio del corpo;  il presidente francese insisteva che “siamo noi a indicare la strada all’Ue”.

L’amicizia franco-tedesca è ormai data per scontata, in Europa e nel Mondo. Ma, avverte Hollande, bisogna smettere di vederla come un “percorso tranquillo”, perché screzi e tensioni ci sono stati e ci saranno ancora, pur se essa è stata, resta e sarà “indissociabile dalla costruzione europea”.

Italia/Ue: FT boccia Monti, poi lo promuove con Bersani

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2013

Pugnalato alle spalle. Con l’arma che ne uccide di più, la penna. Ancora una volta, si conferma saggio l’adagio popolare: “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Ché da tutti il Professore poteva aspettarsi un attacco, ma non dal giornale che gli era sempre stato amico e ‘fiancheggiatore’, magari anche nel segno dell’antagonismo di vecchia data con il Cavaliere. E, invece, un commento di Wolfgang Munchau bolla Mario Monti con il titolo: “Non è l’uomo giusto per guidare l’Italia”; senza per altro promuovere in alternativa nessuno leader politico italiano, eccetto il governatore della Bce Mario Draghi.

Esce l’articolo, anticipato domenica sera alle agenzie di stampa. E nasce un putiferio. Fuori dall’FT, nella politica italiana. Ma pure dentro il quotidiano economico britannico, l’unico vero giornale a dimensione europea. Il direttore Lionel Barber affida a un tweet la puntualizzazione che l’articolo di Munchau non rappresenta l’opinione della testata.

Munchau è un economista e un editorialista: esperto di eurozona, spesso eterodosso nei suoi pezzi rispetto alle posizioni del quotidiano, mai tenero con l’Italia quale ne fosse il governo e il leader. Scrive che il Governo dei Tecnici “ha provato a introdurre riforme strutturali modeste", annacquate fino alla “irrilevanza macroeconomica”. Monti "ha promesso riforme", finendo per "aumentare le tasse"; "ha iniziato come tecnico ed è emerso come un duro politico"; e il calo dello spread "è legato a un altro Mario, a Draghi".

L’articolo non è tenero neppure con Bersani, che pure, rispetto a Monti, avrebbe più chances con la Merkel perché potrebbe fare più leva su Hollande, e con Berlusconi, che però ha finora fatto “una campagna positiva”, nel senso che conquista consensi promettendo meno tasse e criticando la Germania.

La stroncatura di Munchau al Professore suscita in Italia una ridda di dichiarazioni: c’è chi dà l’assalto alla diligenza e chi salta sul carro, anzi sul carroccio, del ‘tirannicida’. Monti prima prende il telefono, poi prende anche lui carta e penna e scrive all'FT: una lettera in cui puntualizza come "ciò che questo governo ha fatto per far calare l'inflazione e creare più posti di lavoro è senza precedenti in un periodo di tempo così breve e senza una maggioranza vera in Parlamento". Non solo, ribatte il premier, "senza il nostro risanamento" anche la Bce non avrebbe potuto fare molto: come dire che prima del Mario di Francoforte viene il Mario della Bocconi, in una sorta di riedizione europea del dilemma dell’uovo e della gallina. E quel che non è riuscito a fare è perché "le riforme incisive non possono essere portate fino in fondo con i partiti e i loro apparati".

In serata, intanto, un nuovo editoriale online dell’FT dal sapore riparatorio ammorbidisce i toni e mette insieme Monti e Bersani: "Devono sfruttare il voto del mese prossimo per portare avanti l'idea di un nuovo inizio. Ciò permetterà agli elettori di fare scelte reali sul futuro dell'Italia".

Monti, del resto, aveva reagito stizzito al giudizio del quotidiano economico. Stupito, ammette, dal fatto che arrivasse dall’FT ma non da Munchau, animato da "una vecchia polemica con la Merkel" e dal desiderio che "tutti dessero colpi d'ariete per far saltare l'eurozona". E siccome l'Italia "ha dato un forte contributo per migliorare il funzionamento dell'eurozona", l'editorialista avrebbe trasferito la sua polemica dalla cancelliera tedesca al premier italiano. 

Ue: Eurogruppo, un olandese senza passato al posto di Juncker 'il rosso'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2013

Un ‘euro-tiepido’, quasi un ‘euro-freddo’, sul trono della moneta unica. Juncker ‘il rosso’ –quello del salario minimo- lascia la presidenza dell’Eurogruppo, il club dei ministri delle finanze dei Paesi dell’Eurozona. Il posto del premier lussemburghese va a Jeroen Dijsselbloem –leggete ‘daisselblum’, con voce un po’ gutturale, e fidatevi-, un olandese giovane (46 anni) e poco volante, senza esperienza né di governo –è ministro dal 5 novembre-, né di Unione.

Il responsabile delle finanze dell’Aja batte la concorrenza del francese Pierre Moscovici, che partiva in pole. Ma Parigi s’accontenta della presidenza del consiglio di supervisione della Bce: una donna, Danielle Nouy. La Germania vuole affidare l’Eurogruppo a un paese piccolo (e fidato per Berlino, come solo Olanda e Finlandia); e tenerne lontani i Piigs spendaccioni. La Francia fa buon viso, Italia e Spagna abbozzano.

Usa: Obama giura, classe media e "fratelli e sorelle" gay

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2013

L’America continua il suo “viaggio che non ha fine”; e il presidente Barack Obama ne guiderà il cammino
per quattro anni ancora. Comandante in capo, ma anche ‘pastore in capo’ d’una Nazione profondamente
religiosa, come lo definisce il sacerdote durante la messa che precede la cerimonia del giuramento, Obama
traccia, nel discorso d’insediamento, un programma di prosperità e di uguaglianza.

La ripresa –dice- poggia sulle spalle “di una classe media forte”, che lui vuole tenere lontana dal ‘fiscal cliff’,
il baratro fiscale: “Finito un decennio di guerre, cogliamo ora l’opportunità dello sviluppo”. E l’uguaglianza
non è più questione di colore della pelle –lui, primo nero alla Casa Bianca, ne è testimone-, ma di parità
dei diritti, anche per gli omosessuali, "fratelli e sorelle" che “siano trattati come tutti gli altri”. E il presidente prende impegni sull’immigrazione –la sua seconda grande riforma, dopo quella della sanità- e sulla lotta all’effetto serra.

Ad ascoltarlo, sul mall, la spianata di fronte al Congresso degli Stati Uniti, ci sono ‘solo’ 7/800 mila persone,
rispetto ai due milioni della prima investitura: ovvio, perché la seconda volta non è mai come la prima,
che te la ricordi per sempre. E, poi, tutto è diverso intorno: quattro anni fa ad ascoltare il presidente
messia c’era un’America attonita per la crisi e che ancora non si capacitava di come e di quanto fosse
repentinamente caduta in basso.

Oggi, ad ascoltare il presidente prammatico, che misura le promesse sulla capacità di realizzarle, c’è
un’America impaziente di mettersi la crisi alle spalle, di tornare a crescere ai suoi ritmi ed a produrre posti
di lavoro. Rispetto all’insediamento 2009, la situazione e òe prospettive economiche sono migliori, a parte
le beghe con l’opposizione repubblicana su deficit e debito (“basta discutere, dobbiamo agire”).

Invece, il contesto internazionale appare più agitato oggi di quattro anni or sono, quando l’America aveva
voglia di finirla con le guerre in Iraq e in Afghanistan: il conflitto che spacca il Mali; il terrore che insanguina
il deserto d’Algeria; l’insurrezione senza tregua in Siria; e un voto in Israele premessa a un supplemento di
diffidenza verso Washington, se il premier Benjamin Netanyahu ne uscirà vincitore.

Dal Sahara, l’emiro Belmoctar, il capo dell’organizzazione integralista islamica responsabile della carneficina
a In Amenas, rivendica l’azione “in nome di al Qaida’ e si dice pronto a negoziare con l’Occidente “se cessa
la guerra in Mali”. E, mentre i francesi in Mali proseguono l’avanzata verso Nord, Obama dice “sosterremo
la democrazia ovunque” –una frase cult per i presidenti Usa- e non è disposto a fare sconti ai terroristi.

In realtà, quella sul Campidoglio è tutta una finta: il presidente aveva già giurato in casa, domenica, perché
la legge prevede l’insediamento il 20 gennaio. A Obama, sempre due giuramenti tocca fare perché almeno
uno sia valido; e quelli in pubblico, a conti fatti, sono sempre fasulli. Nel 2009, un errore del presidente
della Corte Suprema John Roberts lo costrinse alla ripetizione ‘privata’.

Il giuramento familiare, presenti moglie e figlie – per Michelle, nuova acconciatura e nuovo look-, coincide
con l’ennesima strage di un adolescente armato: nel New Mexico, un ragazzo di 15 anni uccide cinque suoi
familiari. Se ci fosse stato bisogno -e non ce n’era- di sottolineare una priorità del secondo mandato del
44.o presidente degli Stati Uniti, la tragedia conferma che il controllo sulla vendita delle armi è davvero
diventata un’emergenza nazionale.

lunedì 21 gennaio 2013

Punto: Obama giura, l'America lo guarda, i terroristi lo sfidano

Scritto per l'Indro il 21/01/2013

Aveva già giurato in casa, domenica, perché la legge prevede che il presidente Usa s’insedi il 20 gennaio. E ha oggi ripetuto il rito in pubblico. A Barack Obama, sempre due giuramenti tocca fare perché almeno uno sia valido; e quelli in pubblico, a conti fatti, sono sempre fasulli. Quattro anni or sono, un errore di formula del presidente della Corte Suprema John Roberts lo costrinse alla ripetizione ‘privata’. Questa volta, l’inghippo è che il giorno fatidico è la domenica, che non va bene per l’appuntamento in Campidoglio.

Il giuramento familiare, alla presenza di moglie e figlie – per Michelle, nuova acconciatura e nuovo look, meno vistosi -, coincide con l’ennesima strage di un adolescente armato: un ragazzo di 15 anni uccide cinque persone, suoi familiari, nel New Mexico. Se ci fosse stato bisogno -e non ce n’era-, di sottolineare una priorità, quasi un’emergenza, del secondo mandato del 44.o presidente degli Stati Uniti, il primo nero, la tragedia conferma che il controllo sulla vendita delle armi sta davvero diventando un problema urgente. Nel mese trascorso dalla carneficina nella scuola di Newtown, nel Connecticut, gli acquisti di armi si sono impennati e le stragi si sono susseguite –una , persino, ad Aurora, in Colorado, un sobborgo di Denver, dove c’era già stata la sparatoria alla prima di Batman in luglio-.

Oggi, sul mall di fronte al Congresso degli Stati Uniti, c’erano ‘solo’ 800 mila persone, rispetto ai due milioni della prima investitura di Obama: ovvio, perché la seconda volta non è mai come la prima, che te la ricordi per sempre. E, poi, tutto è diverso intorno: quattro anni fa ad ascoltare il presidente messia c’era un’America attonita per la crisi e che ancora non si capacitava di come e di quanto era repentinamente caduta in basso.

Ora, ad ascoltare il presidente prammatico, che misura le promesse sulla capacità di realizzarle, c’è un’America impaziente di mettersi la crisi alle spalle, di tornare a crescere ai suoi ritmi ed a produrre posti di lavoro. E lui afferma che la ripresa poggia sulle spalle “di una classe media forte”, da tenere quindi lontana dal ‘fiscal cliff’, il baratro fiscale. “Finito un decennio di guerre –dice Obama-, ora cogliamo l’opportunità dello sviluppo”; e prende impegni sull'immigrazione –la sua seconda grande riforma, dopo quella della sanità-, sui diritti degli omosessuali e sulla lotta all'effetto serra.

Se, rispetto all'insediamento 2009, le prospettive economiche sono migliori, il contesto internazionale appare, invece, più agitato, con la guerra che esplode nel Mali e il terrore che insanguina il deserto d’Algeria: secondo gli ultimi dati, la presa di ostaggi sul campo di gas di In Amenas e il blitz delle forze speciali algerine hanno fatto oltre 60 vittime, 37 ostaggi di otto Paesi –molti uccisi dai loro sequestratori- e 27 jihadisti; inoltre, cinque terroristi sarebbero stati presi vivi, almeno tre sarebbero ancora in fuga. L’emiro Belmoctar, il capo dell’organizzazione integralista islamica responsabile dell’azione, conferma che la strage è avvenuta “in nome di al Qaida’ e si dice pronto a negoziare con l’Occidente “se cessa la guerra in Mali”. Ma proprio lì, nel Mali, le truppe francesi proseguono l’avanzata alla riconquista del Nord occupato dagli jihadisti.

In Europa, il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel celebrano i riti dell’amicizia franco-tedesca, con una cena all’Eliseo, a 50 anni dalla firma del Trattato tra i leader di allora, Charles De Gaulle e Konrad Adenauer –due nomi che mettono i brividi, al di là delle controversie che possono suscitare, nel contesto dell’Europa del dopoguerra-.  Ma l’umore di Hollande e della Merkel non è dei migliori. E, a togliere loro il sorriso, non è certo lo screzio sul nuovo presidente dell’Eurogruppo, il club dei ministri delle finanze dell’Eurozona: nonostante la candidatura del ministro francese Pierre Moscovici, Berlino impone, come successore di Jean Claude Juncker, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, un carneade, ministro da neppure cento giorni.

Ma il problema non è quello. Il presidente ha in mente il Mali. E la cancelliera il brutto risultato rimediato dal suo partito nelle elezioni in Bassa Sassonia, dove la Cdu ha perso quasi 6 punti, magari pure per aiutare gli alleati liberali a restare a galla. Così che, per un seggio, la guida del land dovrebbe andare alla coalizione rosso-verde di Spd e Verdi. Pirati e Sinistra restano fuori dal Parlamento regionale. Il risultato dell’ultimo test regionale prima delle elezioni federali di settembre incrina l’ottimismo che, nelle ultime settimane, s’era creato intorno alla Merkel e alla possibilità di conferma alla guida della Germania.

Elezioni 2013: campagna, il solito ritornello del tutto diverso

Scritto per Media Duemila online il 20/01/2013

Ecco!, ci risiamo. E’ dagli Anni Novanta, beh diciamo dalla metà degli Anni Novanta, che, ad ogni elezione, i guru della comunicazione ci spiegano che questa volta è tutto diverso, che la campagna sarà un’altra cosa, perché adesso c’è –turno a turno- Internet, il web, il 2.0, i social network.

E, poi, puntualmente, i leader, una volta adempiuto il loro dovere di presenza mediatica sulle nuove frontiere della comunicazione politica, eccoli addensarsi su tutte le Tv possibili, di servizio pubblico e private, all news e puro entertainement, in chiaro e a pagamento, nazionali e locali. Nessuno che denunci la colonizzazione del web da parte dell’altro; e tutti a contarsi i minuti delle presenze in video.

Intendiamoci. Non è un fenomeno italiano, ma vale ovunque in Occidente e non solo. Lo abbiamo visto, e pure raccontato in questi appunti, l’anno scorso negli Stati Uniti: Usa 2012, la campagna più social network di tutti i tempi –e ti credo: prima, Twitter quasi non c’era e Facebook era solo un luogo simbolo di confidenze adolescenziali-, s’è accesa ed è divenuta incerta al primo dibattito televisivo fra i due principali contendenti. Romney perdeva con Obama tutti i duelli a colpi di tweet ed aveva la metà dei followers –per altro, pure fasulli-, ma gli è bastato vincere un match televisivo per rimettere il risultato in forse.

E se Obama con internet e i tweet è a suo agio i personaggi di casa nostra, poi, paiono, e spesso sono, a disagio con le nuove frontiere della comunicazione politica. Se il loro primo ‘cinguettio’ ufficiale viene annunciato con un enfasi che uno potrebbe credere riservata  a quelli di Benedetto XVI, poi il flusso si perde o è affidato a ‘replicanti’ . E – ancora - prendete poi la pubblicazione sul web della subito mitica Agenda Monti: difficile trovare, su tutta la rete, un documento presentato in modo altrettanto piatto. Simile in tutto e per tutto a un testo di un Professore, o a un documento dei federalisti, che sono parenti prossimi dei volantini Anni Settanta – non per i contenuti, per carità, ma per l’aspetto grafico assolutamente scoraggiante-.

Strano, per certi versi, perché questi nostri politici impacciati con i social media si sono, invece, adattati benissimo alle esigenze televisive dei ‘sound bites’, le battute ‘mordi e fuggi’: una frase che magari non vuole dire nulla di preciso, ma è efficace e, se possibile, graffiante e polemica – meglio se chiaramente indirizzata contro qualcuno, per altro senza nominarlo-. I nostri Tg ne sono già pieni d’abitudine, ne diventano addirittura zeppi in tempi di campagna: c’è tutta una scenografia dietro, chi li preferisce davanti a una libreria, chi in strada sul portone di casa, chi al parco.

Ecco, quando i nostri leader, o aspiranti tali, metteranno la stessa cura a studiare un tweet che un ‘sound bite’, vorrà dire che la loro campagna è davvero un’altra cosa. Ma, allora, magari, la tecnologia si sarà già inventata qualche altra frontiera e tweet e social network saranno diventati cimiteri degli elefanti.

sabato 19 gennaio 2013

Italia/Ue: Nelli Feroci, temi forti 2013 e le insidie della 'fase bianca'

Scritto per EurActiv il 19/01/2013

L’Italia è stata un po’ la ‘sorvegliata speciale’ dell’Unione europea, nel 2011, quando era l’anello debole dell’Eurozona, e “sarebbe strano” se non tornasse ad esserlo nei prossimi mesi, dopo le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio, quando ci sarà da capire gli orientamenti e da seguire i primi passi del nuovo governo. Se lo aspetta Ferdinando Nelli Feroci, rappresentante dell’Italia a Bruxelles presso l’Unione europea, una delle voci più ascoltate nel Coreper: parlando con EurActiv.it, indica i grandi momenti europei 2013 per il nostro Paese; ed esprime il timore che nella ‘fase bianca’ della politica italiana dopo il voto “si possa perdere qualche treno”.

In ordine di tempo, il primo dossier che sarà affrontato è la conclusione del negoziato sul quadro finanziario a medio termine 2014/2020: c’è stato un tentativo d’accordo a novembre, non andato a buon fine; e, ora, il Vertice europeo è stato convocato il 7 e 8 febbraio con la speranza di chiudere. “E’ una decisione necessaria –spiega Nelli Feroci- per definire un quadro di ordinata programmazione” delle spese comunitarie e ha “un impatto notevole di politica interna, perché comporta allocazioni di spesa significative in settori come l’agricoltura e i fondi di coesione, oltre che la definizione di un saldo netto sostenibile”. Viste le date, l’impegno riguarda, ovviamente, il governo in carica, che ha i poteri per decidere.

Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha confermato ai 27, nei giorni scorsi, l’intenzione di chiudere ai primi di febbraio, partendo dalla proposta di compromesso formulata a novembre con –ci si attende- ulteriori ritocchi al ribasso: “Bisogna vedere quanto e dove”.

Il secondo dossier verrà in primo piano nella fase di transizione italiana, dopo le elezioni e quando si starà formando e insediando il nuovo governo: si tratta della “definizione di tutti gli adempimenti del cosiddetto ‘semestre europeo’ da parte dell’Italia, del confronto su di essi con la Commissione europea e, quindi, dell’approvazione delle raccomandazioni specifiche Paese per Paese”. E’ un esercizio tanto più importante quanto più i governi vi prestano attenzione: “Se è preso sul serio, costituisce un programma di governo vero e proprio”, perché fissa i grandi assi d’azione per i prossimi anni, sia per il bilancio che per le riforme e ha un Impatto sulla competitività del sistema Paese. Per l’Italia, si tratta di individuare “un giusto mix tra politiche di austerità, controllo della spesa pubblica, consolidamento del bilancio, e politiche che diano ossigeno all'economia reale”.

Tutto ciò dovrebbe avvenire in primavera quando l’Italia sarà prevedibilmente in una fase di passaggio. Ma gli impegni previsti dal  ‘semestre europeo’ che valore hanno?, si possono disattendere? Attualmente, non c’è nulla di legalmente vincolante: l’Ue può solo esercitare, con i suoi documenti, una ‘moral suasion’. “Il valore del  ‘semestre europeo’ dipende, in larga misura, dalla volontà politica: un governo può utilizzare le raccomandazioni della Commissione per fare meglio passare le riforme, oppure può trascurarle”.

Il terzo dossier è la riforma della governance della zona euro, dove, sulla scorta delle decisioni del Vertice di dicembre, c’è “un percorso abbastanza definito sull’Unione bancaria”: “E’ un adempimento importante per l’Europa e un passo avanti enorme non sufficientemente apprezzato”. “Noi –dice l’ambasciatore- abbiamo fatto e stiamo facendo il nostro ruolo: non vedo particolari criticità per l’Italia”.

Unione bancaria a parte, “il resto, invece, è più controverso”, dai cosiddetti “contractual arrangements”, che dovrebbero in sostanza rendere vincolanti le indicazioni del ‘semestre europeo’, per finire all’idea di dotare l’Eurozona di un proprio bilancio. Sui ‘contractual arrangements’, si lavora per giungere a decisioni non prima di giugno; sul bilancio dell’eurozona, ci sono resistenze, specie da parte tedesca, e “sarà difficile fare qualcosa prima delle elezioni in Germania a settembre”.

Infine, c’è da portare avanti l’esercizio ripreso e rilanciato dal Consiglio europeo sulla politica di sicurezza e di difesa: qui, decisioni sono previste a dicembre. Si tratta di “riappropriarsi di un dossier un po’ abbandonato a se stesso”, in tutte le sue componenti, da quella della sicurezza a quella industriale all'aspetto mercato interno.

Questo quadro e questi tempi – avverte Nelli Feroci- sono validi “a bocce ferme”, cioè “senza sussulti” di cronaca internazionale e/o di crisi economico-finanziaria “che inducano a provvedimenti d’emergenza”. Il che ha lo svantaggio che “i governi non avvertono la pressione che li spinge a decidere”.

Qual è l’atteggiamento dell’Unione, della Commissione, dei partner verso l’Italia in questo momento?

Anche se, dal 20 dicembre, ci sono state alcune settimane di pausa europea, “registro –dice l’ambasciatore- straordinaria curiosità e interesse” per quanto sta avvenendo e avverrà in Italia, dopo che, “nel 2011, eravamo diventati la maggiore fonte di preoccupazione” per i partner europei. “L’arrivo di Monti –ricorda Nelli Feroci- era stato salutato con favore, perché c’era il sollievo di vedere finalmente un Paese importante tornare sulla scena europea e farvi la sua parte su un piede di parità dopo anni di clamorosa e notata assenza”. Adesso, “tutto quello che farà il nuovo esecutivo sarà seguito con enorme attenzione”: in Europa, ci si aspetta che l’Italia continui a fare la sua parte e a restare protagonista, anche se possono magari cambiare le priorità, e neppure tantissimo. Scontato, come avviene per tutti i Paesi dopo elezioni politiche, che il voto sia seguito da una fase di relativa debolezza, che, per l’Italia, potrebbe coincidere con il Vertice europeo del 15 marzo.

E’ ancora vero che l’Italia soffre di una debolezza delle sue presenze nelle Istituzioni comunitarie?
“Le presenze di italiani nelle posizioni di vertice non sono mai state così buone –afferma l’ambasciatore-: abbiamo 6 direttori generali, alcuni dei quali in posizioni di grossa responsabilità”. Certo, “la performance europea del sistema Paese è sempre migliorabile e sono consapevole e so che abbiamo margini”. Molto dipende da come il governo si attrezza per partecipare da protagonista alla vicenda europea: “Nell’ultimo anno, il miglioramento è stato spettacolare”. Stare in Europa e starci da protagonisti è una grande sfida: la Rappresentanza ne è il terminale, ma a Roma si deve pensare e reagire in termini europei e “moltissimo dipende dal ruolo, dalla personalità, dal protagonismo del capo del governo”.

E c’è un ricambio di italiani nelle Istituzioni comunitarie?
“I giovani italiani arrivano con numeri spettacolari, impressionanti … Negli ultimi concorsi d’idoneità alle Istituzioni comunitarie, la quota più alta, come partecipanti e come vincitori, è quella dei giovani italiani, che si dimostrano determinati e capaci”. Ciò rispecchia, da un lato, l’entusiasmo per lavorare in Europa; e, dall’altro, il fatto che il mercato del lavoro in Italia lascia a desiderare.

Punto: terrorismo in Algeria, guerra in Mali, rinvio in India

Scritto per l'Indro il 18/01/2013

Ad In Amenas, un campo per l’estrazione di gas nel deserto del Sahara, nel sud-est dell’Algeria, decine di stranieri sono tuttora tenuti in ostaggio o mancano all’appello e sono forse stati uccisi, dopo che le forze speciali algerine avevano tentato, ieri, un blitz per liberare centinaia di persone sequestrate da estremisti islamici, che minacciano ora di attaccare altre installazioni energetiche nel Paese. Nell’azione algerina, susseguente all’irruzione terroristica di mercoledì, sarebbe stato eliminato il capo del commando di jihaddisti Abu al-Baraa,

E  sud del Sahara, nel Mali, le truppe regolai hanno completamente liberato dai ribelli islamici Konna, una città nel centro del Paese, che può ora costituire una testa di ponte strategica per lanciare attacchi contro i gruppi legati ad al Qaeda che mantengono il controllo del Nord del Mali. A Bamako, la capitale, intanto, affluiscono forze provenienti dall’Africa occidentale, che devono costituire un contingente sollecitato dall’Onu: le avanguardie arrivano dal Togo e dalla Nigeria. Entro il 26 gennaio, i soldati africani sul territorio maliano saranno almeno 2000 (sui 3300 globalmente previsti): di che permettere, forse, alle forze francesi di terra e aeree di ridurre progressivamente la loro presenza. Si ignora, invece, per ora, quando arriveranno gli istruttori europei promessi alle forze maliane (fra essi, 24 italiani).

Le vicende d’Algeria e Mali sono strettamente legate, nel contesto d’un sussulto del terrorismo integralista islamico che sta scuotendo non solo il Nord Africa e la Regione sub-sahariana, ma anche il Corno d’Africa e tutto il Grande Medio Oriente. I ribelli algerini propongono di scambiare gli stranieri nelle loro mani con terroristi detenuti negli Stati Uniti e chiedono di fermare l’escalation di guerra nel Mali  E le valutazioni politiche e diplomatiche restano tuttora discordanti sull’opportunità e la tempestività dell’intervento militare occidentale e sui rischi da esso indotti nell’area, ma anche sul territorio dei Paesi coinvolti.

Meno convulsa, ma ancora lontana da una conclusione, la vicenda dei due marò italiani detenuti da quasi un anno in India con l’accusa di avere ucciso per errore, durante una missione anti-pirateria, due pescatori indiani scambiati, appunto, per pirati. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati trasferiti dal Kerala a New Delhi, perché sarà una corte speciale a pronunciarsi su a chi tocca giudicarli: se all’India o all’Italia, come sostengono le autorità italiane. I militari sono ora sotto tutela dell’ambasciata d’Italia in India e potranno muoversi liberamente. La decisione della corte del Kerala dà adito a un cauto ottimismo, ma il caso resta aperto a tutti gli sviluppi.

A Washington, intanto, si prepara la cerimonia d’insediamento lunedì del presidente Barack Obama per il suo secondo mandato: il discorso inaugurale, che sarà pronunciato sul Campidoglio, potrà però difficilmente suscitare emozioni simili a quelle destate dal primo, quattro anni or sono. Però, Obama resta capace, con il suo esempio, di ispirare in altri l’impegno politico: il suo fratellastro Malik, che vive in Kenya, ha deciso di lanciarsi nella corsa per le presidenziali del marzo prossimo.

Elezioni cruciali, la prossima settimana, nel Medio Oriente, in Israele (e, poi, in Giordania, ma contano di meno). A quattro giorni dal voto di martedì 22, il premier uscente Benjamin Netanyahu resta avanti nei sondaggi, anche se il sostegno al suo partito non è mai stato così basso durante la campagna. Un quadro ben diverso in Germania, dove la cancelliera Angela Merkel cavalca l’onda della popolarità nell’imminenza delle elezioni di domenica nel land della Bassa Sassonia, che il suo partito, la Cdu, dovrebbe vincere: un buon viatico, a nove mesi dalle politiche di settembre, l’appuntamento elettorale più importante di questo 2013 europeo, insieme alle elezioni in Italia di febbraio.

Attacchi terroristici e apprensioni elettorali, l’Occidente se la vede male. E l’Oriente (Estremo) non è proprio in gran forma: il 2012 è stato l’anno peggiore dell’economia cinese del XXI Secolo. Era dal 1999 che i cinesi non registravano una crescita così lenta, anche se una percentuale del 7,8% resta ‘da sogno’ per l’Europa e l’America .

giovedì 17 gennaio 2013

Punto: Algeria, terrorismo infiamma Sahara, blitz fa carneficina

Scritto per l'Indro il 17/01/2013

Era stato gioco facile, paventare che la guerra al terrorismo in Mali si sarebbe allargata, a rischio d’incendiare il Sahara: troppi i nuclei di jihadisti disseminati su un territorio smisurato, inospitale, impossibile da controllare. Così, mentre in Mali si continua a combattere, nell'Algeria confinante finisce in un bagno di sangue il sequestro di stranieri, una quarantina, sul campo di estrazione di gas della Bp a In Amenas, nel deserto.

Le forze algerine danno l’assalto con elicotteri ai rapitori: il quadro è tuttora incerto e confuso, ma quello che è certo è che ne è nata una carneficina. Secondo fonti dei terroristi, sarebbero stati uccisi 34 ostaggi e 15 guerriglieri su un bus in fuga colpito dagli algerini, mentre fonti di stampa riferiscono di solo sei vittime. L’azione non si sarebbe ancora esaurita. Il presidente francese François Hollande definisce la situazione drammatica; il premier britannico David Cameron segnala che Londra non sarebbe stata avvertita delle intenzioni di Algeri, la Casa Bianca segue l’evoluzione con preoccupazione.

La situazione in Algeria precipita proprio mentre i ministri degli esteri dei 27 dell’Ue si riuniscono a Bruxelles per parlare di Mali, dove, la scorsa settimana, la Francia ha lanciato, su sollecitazione del governo di Bamako, un’azione per arrestare l’avanzata degli estremisti integralisti, già padroni del Nord, verso il Sud. I ministri danno via libera a una missione europea di addestramento dell’esercito del Mali. Gli italiani saranno presenti con 24 uomini massimo, su un totale di 450 massimo, di cui 200 istruttori: costo complessivo, 12,3 milioni di euro; mandato iniziale, 15 mesi. Si sa che il quartier generale della missione europea sarà Bamako, ma che l’addestramento avverrà nel sud del Paese. Escluso il coinvolgimento in operazioni militari.

A lavori conclusi, il ministro degli esteri Giulio Terzi spiega che il supporto logistico europeo e italiano all'azione della Francia “non sarà in nessun modo un intervento militare diretto”, perché “non è previsto nessuno spiegamento di forze italiane nel teatro operativo”. Sul piano politico, l’Italia dà “una valutazione positiva dell'azione della comunità internazionale nel suo insieme”, espressa dalla risoluzione 2085 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e dalla dichiarazione unanime dello stesso Consiglio, comprese Russia e Cina, che rivolge un appello “perché tutti i Paesi sostengano il governo maliano nel contrasto alle forze terroristiche”.

E’ evidente la sproporzione tra conflitto maliano e massacro algerino, da una parte, e lo ‘sforzo’ europeo concordato e annunciato, dall'altra. Si ha la sensazione che l’Unione e, più in generale, la comunità internazionale non fossero preparati al repentino peggioramento della situazione nell'Africa sub-sahariana e all'allargamento del conflitto con propaggini dal Nord Africa al Corno d’Africa e ripercussioni in tutto il Grande Medio Oriente. E i riflessi dello scontro potrebbero riverberare anche sul territorio europeo, dove le misure di sicurezza anti-terrorismo vengono ovunque rafforzate.

“Come la mitica Idra, il mostro del terrorismo islamico sembra avere molte teste –scrive sull’ANSA Diego Minuti-, ciascuna con una vita ed un percorso autonomo, ma che nascono tutte dal medesimo corpo: gli islamici che, negli Anni Novanta, insanguinarono l'Algeria dopo che l'esercito aveva loro bloccato con le armi l’ascesa al potere dopo le elezioni”.

Mali: anche l'Italia va alla guerra (e finisce nel mirino)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/01/2013

L’Italia appoggia l’azione della Francia in Mali “per fermare l’avanzata jihadista”: il ministro della difesa Giampaolo Di Paola lo ripete, dopo un incontro a Roma con il segretario alla Difesa uscente degli Stati Uniti, Leon Panetta. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi e lo stesso Di Paola lo avevano già detto in commissione, al Senato, durante un’audizione sulle missioni militari italiane all'estero.

Washington è già al fianco di Parigi, con sostegno politico e supporto logistico. Oggi, a Bruxelles, ci sarà una riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri degli Esteri dei 27. Lì, “si avrà un’idea –dice Di Paola- del tipo di azione che l’Europa può condurre e del tipo di assistenza da fornire, secondo le richieste della Francia”.

Nel Mali, intanto, l’esercito francese ha ieri lanciato il primo attacco terrestre contro le postazioni dei ribelli islamici, allargando lo spettro delle operazioni contro i guerriglieri del Nord, che sono affiliati ad al Qaida e che hanno resistito a sei giorni di raid aerei, riuscendo anche pure a compiere azioni beffa contro le forze regolari. In attesa che si formi l’annunciato contingente di Paesi dell’Africa occidentale, la Francia prevede lo spiegamento in Mali di 2500 uomini e prosegue senza sosta i raid aerei. Una trentina di blindati avevano lasciato martedì sera la capitale maliana, diretti verso nord.

Noi, gli Occidentali, lì, che sia l’Afghanistan o il Mali, ci andiamo con l’obiettivo di evitare che loro, i terroristici, portino la guerra qui da noi. Ma, così, va a finire che li rendiamo più determinati a portarci la paura in casa: conseguenza, misure di sicurezza rafforzate e clima da 11 Settembre. E’ il paradosso della lotta contro il terrorismo, che si ripropone dopo l’intervento francese nel Mali. Se la Francia ha già rinforzato il suo piano Vigipirate, Londra e Roma dovranno alzare la guardia.

La guerra in Mali s’inasprisce in un contesto di tensione e di conflitto che si estende senza discontinuità dall'Africa sub-sahariana al Corno d’Africa, a sud-est, e al Nord Africa e all'intero Grande Medio Oriente a nord-est. I terroristi islamici, che restano padroni di fette della Somalia, conducono all’alba un raid nel Sahara contro un campo di estrazione del gas nel sud dell’Algeria, a località In Amenas, sequestrando oltre 40 stranieri e uccidendone due, un francese e un britannico. Un’azione doppiamente punitiva: verso l’Algeria, che favorisce, concedendo il sorvolo aereo, l’azione della Francia nel Mali, e verso gli stranieri che l’appoggiano –nessun italiano, questa volta, fra gli ostaggi-. E il terrorismo è virulento, mercoledì, in Siria –una ventina di vittime-, in Iraq –almeno 35-, in Afghanistan.

In Italia, per il Mali, la Difesa vaglia la possibilità di fornire, o di utilizzare, Predator, cioè aerei senza pilota da sorveglianza e da combattimento, di stanza ad Amendola in provincia di Foggia; o mezzi per il rifornimento in volo dei caccia –i Boeing 767 levatisi da Pratica di Mare anche durante l’intervento in Libia-; o aerei per il trasporto logistico –i C 130-J e i C-27J-; oppure addestratori.

Su un punto Di Paola è stato chiaro: non saranno inviate forze sul terreno, non ci saranno, cioè, militari italiani combattenti nel Mali. Ed è poco probabile la concessione dell’uso delle basi aeree italiane ai mezzi francesi, se non altro per via della distanza dal teatro d’azione.

La preferenza di Hollande andrebbe ai Predator, alcuni dei quali sono attualmente in Afghanistan. Ne esistono di due versioni, la A+, più leggera, e la B, più grossa e con maggiore autonomia. L’Italia potrebbe inoltre fornire 15 militari “al massimo” a una missione di addestramento europea per le forze armate maliane, che finora, nota  il ministro degli Esteri Terzi, “non hanno saputo fare fronte” alla sfida degli islamisti.

Morire per Bamako? Non ci siamo ancora. Ma rischiare per un voto in più?, o in meno? Lì, ci siamo: nel pieno della campagna elettorale, il Mali, il contrasto al terrorismo, l’appoggio alla Francia sono già diventati temi di polemica e terreni di calcolo più che scelte politiche.