Due anni dopo la sua Primavera, l’Egitto è di nuovo
sull’orlo del collasso. La messa in guardia viene dai vertici dell’Esercito,
l’istituzione che ha di fatto garantito un ordine nel Paese dopo la cacciata
del presidente satrapo Hosni Mubarak e l’elezione dell’attuale presidente
Mohamed Morsi, il primo scelto dal popolo con libere elezioni. Esponente dei
Fratelli Musulmani, Morsi sta ora cercando di fronteggiare le sanguinose
proteste scatenate contro di lui dai suoi provvedimenti, ultimo la
proclamazione dello stato d’emergenza.
Ancora una volta, gli eventi egiziani testimoniano la
difficoltà dell’Occidente ad anticipare quanto possa accadere nel Mondo arabo e
musulmano: questo scoppio di violenza e d’intolleranza nessuno l’aveva
anticipato. E le diplomazie occidentali sono in difficoltà a trovare una
posizione sostenibile fra le fazioni che si scontrano. Si direbbe che la nostra
prima scelta di campo sia sempre dettata dalla convinzione, più che dalla
percezione, che il mantenimento dello statu quo è comunque migliore di
qualsiasi evoluzione.
Così, nel 2011 ci volle del tempo perché gli Stati Uniti e i
loro partner ‘mollassero’ Mubarak e accettassero il possibile avvento di un
presidente espressione dei Fratelli Musulmani, com’è poi puntualmente avvenuto
con elezioni democratiche. E ora l’Occidente praticamente ignora le ragioni
della protesta, nonostante essa venga da settori della società egiziana
‘liberali’ e in linea di massima quindi più vicini alla nostra sensibilità.
E’ vero, del resto, che, negli ultimi giorni,
manifestazioni, proteste, scontri, vittime a decine sono derivati
dall’intreccio di cause diverse: ci sono le preoccupazioni della parte meno
profondamente religiosa della società egiziana per la svolta radicale del
Paese; ma ci sono pure state le opposte violente reazioni alla sentenza
straordinariamente severa del Tribunale di Porto Said, con 31 condanne a morte
per la morte di decine di persone nella ressa a una partita di calcio, dove i
tifosi delle due squadre avevano diverse appartenenze politiche e religiose.
Con i criteri della magistratura della città sul Canale, però, quanti tifosi
del Liverpool dovevano essere condannati alla pena capitale per la strage
dell’Heysel, 39 morti il 25 maggio 1985?
Anche se il numero delle vittime, ieri e oggi, è stato
modesto, o nullo, rispetto ai giorni precedenti, c’è, al Cairo, nervosismo per
quel che potrebbe accadere venerdì, il giorno di festa e di preghiera, quando
l’opposizione ha già chiamato alla protesta i suoi sostenitori. E la situazione
incandescente dell’Egitto non contribuisce certo a stemperare le tensioni nel
Grande Medio Oriente e nell’Africa mediterranea e sub-sahariana. In Siria, dove
la guerra civile è senza tregua, fonti dell’insurrezione anti-al Assad
riferiscono del ritrovamento di almeno 65 cadaveri in un quartiere di Aleppo,
nel nord del Paese: avevano le mani legate ed erano stati apparentemente uccisi
con un colpo alla testa, vittime di una vera e propria esecuzione.
Le tensioni politiche e militari in Egitto e Siria s’intrecciano
con le trattative per la formazione del governo in Israele, dopo le elezioni
politiche della scorsa settimana: un altro di quegli incroci d’eventi ad alto
rischio cui le cronache ci hanno drammaticamente abituati in quest’area del
Mondo.
Invece, in Mali, l’intervento militare francese contro le
milizie jihadiste ‘imparentate’ con al Qaida sembra essere stato risolutivo,
almeno per il momento, complice una spaccatura nei guerriglieri fra
nazionalisti e integralisti. Risultato, le truppe regolari maliani stanno
‘ripulendo’ da esplosivi ed armi abbandonate dai ribelli in rotta le città del
Nord riconquistate, Timbuctu e Gao, mentre Parigi sta già considerando la
possibilità di affidare il completamento delle operazioni alle truppe maliane e
al contingente dell’Africa occidentale nel frattempo allestito.
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