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martedì 22 gennaio 2013

Usa: Obama giura, classe media e "fratelli e sorelle" gay

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2013

L’America continua il suo “viaggio che non ha fine”; e il presidente Barack Obama ne guiderà il cammino
per quattro anni ancora. Comandante in capo, ma anche ‘pastore in capo’ d’una Nazione profondamente
religiosa, come lo definisce il sacerdote durante la messa che precede la cerimonia del giuramento, Obama
traccia, nel discorso d’insediamento, un programma di prosperità e di uguaglianza.

La ripresa –dice- poggia sulle spalle “di una classe media forte”, che lui vuole tenere lontana dal ‘fiscal cliff’,
il baratro fiscale: “Finito un decennio di guerre, cogliamo ora l’opportunità dello sviluppo”. E l’uguaglianza
non è più questione di colore della pelle –lui, primo nero alla Casa Bianca, ne è testimone-, ma di parità
dei diritti, anche per gli omosessuali, "fratelli e sorelle" che “siano trattati come tutti gli altri”. E il presidente prende impegni sull’immigrazione –la sua seconda grande riforma, dopo quella della sanità- e sulla lotta all’effetto serra.

Ad ascoltarlo, sul mall, la spianata di fronte al Congresso degli Stati Uniti, ci sono ‘solo’ 7/800 mila persone,
rispetto ai due milioni della prima investitura: ovvio, perché la seconda volta non è mai come la prima,
che te la ricordi per sempre. E, poi, tutto è diverso intorno: quattro anni fa ad ascoltare il presidente
messia c’era un’America attonita per la crisi e che ancora non si capacitava di come e di quanto fosse
repentinamente caduta in basso.

Oggi, ad ascoltare il presidente prammatico, che misura le promesse sulla capacità di realizzarle, c’è
un’America impaziente di mettersi la crisi alle spalle, di tornare a crescere ai suoi ritmi ed a produrre posti
di lavoro. Rispetto all’insediamento 2009, la situazione e òe prospettive economiche sono migliori, a parte
le beghe con l’opposizione repubblicana su deficit e debito (“basta discutere, dobbiamo agire”).

Invece, il contesto internazionale appare più agitato oggi di quattro anni or sono, quando l’America aveva
voglia di finirla con le guerre in Iraq e in Afghanistan: il conflitto che spacca il Mali; il terrore che insanguina
il deserto d’Algeria; l’insurrezione senza tregua in Siria; e un voto in Israele premessa a un supplemento di
diffidenza verso Washington, se il premier Benjamin Netanyahu ne uscirà vincitore.

Dal Sahara, l’emiro Belmoctar, il capo dell’organizzazione integralista islamica responsabile della carneficina
a In Amenas, rivendica l’azione “in nome di al Qaida’ e si dice pronto a negoziare con l’Occidente “se cessa
la guerra in Mali”. E, mentre i francesi in Mali proseguono l’avanzata verso Nord, Obama dice “sosterremo
la democrazia ovunque” –una frase cult per i presidenti Usa- e non è disposto a fare sconti ai terroristi.

In realtà, quella sul Campidoglio è tutta una finta: il presidente aveva già giurato in casa, domenica, perché
la legge prevede l’insediamento il 20 gennaio. A Obama, sempre due giuramenti tocca fare perché almeno
uno sia valido; e quelli in pubblico, a conti fatti, sono sempre fasulli. Nel 2009, un errore del presidente
della Corte Suprema John Roberts lo costrinse alla ripetizione ‘privata’.

Il giuramento familiare, presenti moglie e figlie – per Michelle, nuova acconciatura e nuovo look-, coincide
con l’ennesima strage di un adolescente armato: nel New Mexico, un ragazzo di 15 anni uccide cinque suoi
familiari. Se ci fosse stato bisogno -e non ce n’era- di sottolineare una priorità del secondo mandato del
44.o presidente degli Stati Uniti, la tragedia conferma che il controllo sulla vendita delle armi è davvero
diventata un’emergenza nazionale.

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