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giovedì 24 gennaio 2013

Punto: negoziati e chiacchiere, una giornata senza cronaca

Scritto per l'Indro il 24/01/2013

Ci sono giorni che il Mondo sembra preso da un tremolio di notizie incessante e frenetico. E ci sono giorni che pare fermarsi. Oggi, è come se si fosse fermato: dopo il voto in Israele, dopo i sussulti in Africa, dopo i panni dell’Europa lavati nel Tamigi dal premier britannico David Cameron, ci siamo goduti 24 ore di ‘pausa di riflessione’. O –ed è più probabile- non ci siamo accorti di quel che ci è successo tutto intorno.

In Israele, il premier uscente Benjamin Netanyahu, che s’accinge a succedere a se stesso, ha già messo dell’acqua nel suo vino nazionalista e oltranzista e sta adattando il linguaggio agli interlocutori con cui deve negoziare la formazione di una maggioranza: in primo luogo, il partito centrista ‘C’è futuro’ del giornalista Yair Lapid. Ecco, allora, l’ipotesi di un programma di governo sul ‘pane e burro’ delle famiglie israeliane, più che sulla presunta minaccia nucleare iraniana e sulla questione palestinese. Anche se, poi, Netanyahu avrà il problema d’imbarcare nella coalizione almeno il partito dei coloni, se vuole arrivare ai 61 seggi, che sono la maggioranza minima in una Knesseth di 120 seggi. E, con i rappresentanti dei coloni, altri argomenti dovrà esibire.

Dal Mali, dove truppe di terra africane e francesi si preparano a lanciare una grossa offensiva, per stanare dai loro santuari nel Sahara gli integralisti musulmani vicini ad al Qaida, la Reuters riferisce che divisioni starebbero emergendo fra  gli jihadisti, non più sicuri dell’inviolabilità del loro territorio e spaccati sull'esito  dell’azione di In Amenas, in Algeria, conclusasi con una carneficina: decine gli ostaggi e i terroristi uccisi.
Stallo momentaneo nel deserto sahariano, dunque. E stallo pure in Siria, dove fonti diplomatiche francesi ammettono che il rovesciamento del presidente Bashar al-Assad non sarebbe così imminente come Parigi aveva creduto fino a qualche tempo fa. La strategia diplomatica occidentale basata sull'ineluttabilità della fine del regime andrà forse rivista.

L’Unione europea s’interroga sul significato e sull'impatto del discorso fatto ieri dal premier britannico David Cameron: da una parte, il progetto di un referendum ‘dentro o fuori’; dall'altra, il desiderio d’allontanare il più possibile questa prova, dopo le prossime elezioni nazionali –e sempre che i conservatori le vincano di nuovo-, non prima del 2015, forse non prima del 2017. Molti giudicano il monito di Cameron, che qualsiasi tentativo di approfondire l’integrazione europea verso un’unione politica sarebbe un errore, e che Londra ne rimarrebbe fuori, un tentativo di condizionare (e frenare) la volontà dei partner di andare avanti su quella strada. E molti avvertono, a loro volta, il premier britannico che l’Unione non è un ‘self service’, dove uno Stato, per quanto importante come il Regno Unito, decide che cosa prendere e che cosa lasciare.

A Washington, fila invece liscio –pare- il processo di ratifica della nomina di John Kerry a segretario di Stato, al posto di Hillary Rodham Clinton, che ha praticamente concluso la sua missione con la sofferta audizione in Senato sulla strage di Bengasi a settembre, costata la vita all'ambasciatore in Libia Christopher Stevens e a tre marines. La Clinton ha lanciato un monito, ripreso oggi da Berlino, sulla minaccia che tuttora incombe sugli occidentali a Bengasi, dove sono presenti e attive cellule terroristiche legate ad al Qaida. Occuparsene, sarà, però, compito del suo successore: Kerry ha il ‘test d’ammissione’ al Dipartimento di Stato facilitato, perché l’esame glielo fa la commissione esteri del Senato che lui ha presieduto negli ultimi quattro anni.

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