Ci sono giorni che il Mondo sembra preso da un tremolio di
notizie incessante e frenetico. E ci sono giorni che pare fermarsi. Oggi, è
come se si fosse fermato: dopo il voto in Israele, dopo i sussulti in Africa,
dopo i panni dell’Europa lavati nel Tamigi dal premier britannico David
Cameron, ci siamo goduti 24 ore di ‘pausa di riflessione’. O –ed è più probabile-
non ci siamo accorti di quel che ci è successo tutto intorno.
In Israele, il premier uscente Benjamin Netanyahu, che
s’accinge a succedere a se stesso, ha già messo dell’acqua nel suo vino
nazionalista e oltranzista e sta adattando il linguaggio agli interlocutori con
cui deve negoziare la formazione di una maggioranza: in primo luogo, il partito
centrista ‘C’è futuro’ del giornalista Yair Lapid. Ecco, allora, l’ipotesi di
un programma di governo sul ‘pane e burro’ delle famiglie israeliane, più che
sulla presunta minaccia nucleare iraniana e sulla questione palestinese. Anche
se, poi, Netanyahu avrà il problema d’imbarcare nella coalizione almeno il
partito dei coloni, se vuole arrivare ai 61 seggi, che sono la maggioranza
minima in una Knesseth di 120 seggi. E, con i rappresentanti dei coloni, altri
argomenti dovrà esibire.
Dal Mali, dove truppe di terra africane e francesi si
preparano a lanciare una grossa offensiva, per stanare dai loro santuari nel
Sahara gli integralisti musulmani vicini ad al Qaida, la Reuters riferisce che
divisioni starebbero emergendo fra gli
jihadisti, non più sicuri dell’inviolabilità del loro territorio e spaccati
sull'esito dell’azione di In Amenas, in
Algeria, conclusasi con una carneficina: decine gli ostaggi e i terroristi
uccisi.
Stallo momentaneo nel deserto sahariano, dunque. E stallo
pure in Siria, dove fonti diplomatiche francesi ammettono che il rovesciamento
del presidente Bashar al-Assad non sarebbe così imminente come Parigi aveva
creduto fino a qualche tempo fa. La strategia diplomatica occidentale basata
sull'ineluttabilità della fine del regime andrà forse rivista.
L’Unione europea s’interroga sul significato e sull'impatto
del discorso fatto ieri dal premier britannico David Cameron: da una parte, il
progetto di un referendum ‘dentro o fuori’; dall'altra, il desiderio
d’allontanare il più possibile questa prova, dopo le prossime elezioni
nazionali –e sempre che i conservatori le vincano di nuovo-, non prima del
2015, forse non prima del 2017. Molti giudicano il monito di Cameron, che
qualsiasi tentativo di approfondire l’integrazione europea verso un’unione
politica sarebbe un errore, e che Londra ne rimarrebbe fuori, un tentativo di
condizionare (e frenare) la volontà dei partner di andare avanti su quella
strada. E molti avvertono, a loro volta, il premier britannico che l’Unione non
è un ‘self service’, dove uno Stato, per quanto importante come il Regno Unito,
decide che cosa prendere e che cosa lasciare.
A Washington, fila invece liscio –pare- il processo di
ratifica della nomina di John Kerry a segretario di Stato, al posto di Hillary
Rodham Clinton, che ha praticamente concluso la sua missione con la sofferta
audizione in Senato sulla strage di Bengasi a settembre, costata la vita
all'ambasciatore in Libia Christopher Stevens e a tre marines. La Clinton ha
lanciato un monito, ripreso oggi da Berlino, sulla minaccia che tuttora incombe
sugli occidentali a Bengasi, dove sono presenti e attive cellule terroristiche
legate ad al Qaida. Occuparsene, sarà, però, compito del suo successore: Kerry
ha il ‘test d’ammissione’ al Dipartimento di Stato facilitato, perché l’esame
glielo fa la commissione esteri del Senato che lui ha presieduto negli ultimi
quattro anni.
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