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martedì 31 agosto 2010

Razzismo: Slovacchia, tiro a segno sui rom con strage

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/08/2010Forse, un raptus, un attacco di follia. O, forse, la droga o l’alcol. Ma la strage di una famiglia di rom compiuta ieri mattina a Bratislava da un uomo di 50 anni può anche nascere da odio razziale e avere le sue origini nell’ondata di razzismo che attraversa l’Europa e che è rivolta proprio contro i rom, dalle espulsioni mascherate da ‘rimpatrii volontari’ della Francia di Sarkozy alle distruzioni ‘umanitarie’ delle baracche abusive nella Roma di Alemanno.

Scena del massacro, un quartiere alla periferia della capitale della Slovacchia, la città dove nel 1741 venne incoronata regina d’Ungheria l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, esponente ‘illuminata’ di quella dinastia degli Asburgo capace di creare un impero multietnico nel cuore dell’Europa.

Un uomo armato di tutto punto ha ucciso sei membri di una famiglia rom nella loro abitazione e ha poi continuato a sparare all’impazzata dopo essere uscito in strada, ammazzando un’altra donna e ferendo almeno 14 persone, fra cui un poliziotto e un bambino di 5 anni, prima di suicidarsi vistosi senza scampo, circondato dagli agenti che avevano ingaggiato con lui un violento conflitto a fuoco.

L’identità e il movente dell’omicida, che, secondo tutte le testimonianze, avrebbe agito da solo, non sono ancora noti. Gli inquirenti formulano ipotesi, nulla più: l’uomo –pare- non era un parente delle vittime; forse, era un militare o un ex militare.. Il capo della polizia Jaroslav Spisiak ha raccontato ai media locali: “L’ossesso, mentre cercava di scappare, sparava a tutto quello che si muoveva”.

Ma, nella prima fase del raid omicida, i bersagli non erano stati casuali: il killer è entrato nell’abitazione della famiglia rom, un modesto prefabbricato, armato fino ai denti. Era determinato a uccidere, aveva con sé un vero e proprio arsenale: un mitra Z58, un fucile automatico e due armi a canne mozze e otto caricatori –tutti sembra posseduti illegalmente-. Ha subito sparato all’impazzata, ha colpito a morte quattro donne e un uomo che erano all’interno. Sulla porta, uscendo, ha poi ammazzato un altro membro della famiglia: “Ho visto una persona uscire dall’appartamento, ferita, cercare di fuggire. Ma l’uomo gli è stato addosso e l’ha finito”, racconta una testimone oculare.

Una pallottola vagante è stata fatale a una donna di 52 anni estranea alla famiglia massacrata, che era uscita sul balcone al rumore degli spari e del parapiglia..Alcuni feriti sono stati solo medicati, colpiti dalle schegge dei vetri in frantumi per le pallottole, ma nove dei14 hanno dovuto essere ricoverati in ospedale. Il poliziotto colpito alla testa è grave, altri hanno ferite d’arma da fuoco al petto e all’addome, ma nessuno, neppure il bimbo, sarebbe in pericolo di vita.

Il sobborgo a nord-ovest del centro di Bratislava teatro della strage, Devinska Nova Ves, cioè la Nuova Devin, è stato completamente isolato dalla polizia: per tutta la giornata, nessun veicolo ha potuto entrarvi, neppure i mezzi pubblici, mentre l’identità di guidatori e passeggeri delle auto in uscita venivano controllate. La zona delle abitazioni prefabbricate è abitata soprattutto da ex militari. Il quartiere è animato: l’ nei pressi, c’è un supermercato e una scuola materna che, all’ora del massacro, le 10 del mattino, erano pieni di clienti e di bambini.

I rom in Slovacchia sono una minoranza che vive, in genere, in povertà, al di sotto della media di reddito del Paese, e la cui integrazione è stata ed è motivo di discussioni e di polemiche. Il ministro dell’interno Daniel Lipsic ha confermato che sei vittime appartenevano “a una famiglia di origini Rom”, ma ha aggiunto: “Non conosciamo il movente del gesto e non voglio stare a speculare se ci siano state o meno delle motivazioni razziste”.

I rom rappresentano quasi un decimo della popolazione slovacca: sono circa 430 mila, su un totale di 5,4 milioni di abitanti. Ci sono stati in passato incidenti o anche scontri tra i rom e il resto della popolazione, ma non si hanno notizie recenti di omicidi dettati da razzismo. Diverso il quadro nella vicina Ungheria, dove numerosi Rom sono stati vittime negli ultimi anni di assassini motivati da odio razziale.

La Slovacchia, che dal 2004 fa parte dell’Unione europea e dell’Alleanza atlantica, fu la scena di cruenti scontri fra gang criminali negli Anni Novanta, cioè negli anni convulsi e confusi del post-comunismo, dopo la separazione dalla Repubblica Ceca nel luglio 1992. Ma da tempo episodi del genere non si verificano più: il Paese ha trovato un suo assetto di relativa stabilità politica e sociale e l’economia s’è meritata l’ingresso nell’euro.

La strage di Devinska Nova Ves è la più grave in assoluto nella storia della Slovacchia e una delle più gravi in Europa quest’anno, seconda sola al massacro verificatosi nella contea di Cumbria, nell’Inghilterra rurale, dove un uomo sparando all’impazzata uccise 12 persone nel giugno scorso. Ma è un fatto che stragi così indiscriminate non sono più, da qualche tempo, tragico appannaggio della cronaca americania.

SPIGOLI: lo show del Colonnello e la fine di Mr B

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/08/2010

Lo show di Gheddafi a Roma colpisce la stampa internazionale che gli dedica spazio e ironia a iosa. Il colonnello dittatore in Italia “con tenda, cavalli e guardia del corpo femminile”, nota il Times, mentre la Bloomberg scrive che il leader libico porta con sé “cavalli e affari per miliardi”. L’elogio all’Islam di Gheddafi e, soprattutto, l’invito a farne la religione dell’Europa fa titolo sul WSJ e pure sulla stampa spagnola, mentre il Chicago Tribune, ispirato dall’Ap, punta sulla lezione impartita a “500 giovani donne italiane” (“modelle” per El Mundo, “escort” per altri). La stampa francese, come pure la Cnn, sottolineano i legami tra Italia e Libia sanciti dal Trattato d’Amicizia, di cui ricorre l’anniversario, e dalla frequenza delle visite. Se Gheddafi dà un tocco d’eccentricità alle cronache dall’Italia, la politica non lascia tregua. Il FT, in un editoriale dal titolo “L'autunno caldo dell'Italia”, sostiene che Mr B “sta lottando per la sua sopravvivenza” e giudica “possibile che Fini gli dia il colpo di grazia”: starebbe a lui decidere “se aprire l’era post” Mr B. Una crisi, secondo il quotidiano economico europeo, non renderebbe necessarie le elezioni, ma “i partiti dovrebbero formare una coalizione” e trovare un nuovo premier. Tre le opzioni: 1) Fini appoggia un’alleanza di centrodestra, Tremonti guida il governo; 2) Fini forma una coalizione di centro ‘democristiana’; 3) si vara un governo guidato da una figura tecnocratica o imprenditoriale. “Nessuna è entusiasmante, ma tutte avrebbero il merito di fare finire l’ ‘era Berlusconi’”.

domenica 29 agosto 2010

Libia: amicizia tra Mr B e Muhammar, diffidenza di Barack

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/08/2010

Di certo, non vedremo mai il presidente statunitense Barack Obama accanto al colonnello dittatore Muhammar Gheddafi sui passaporti libici, dove, invece, ci sarà la foto del presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi mentre stringe la mano al leader libico dopo avere firmato il Trattato d’Amicizia italo-libico il agosto 2008.

Eppure, il ministro degli esteri Franco Frattini bolla come “una sciocchezza colossale che non merita risposte” la tesi di chi nota che la politica estera italiana è tutta affidata ai rapporti personali di Mr B con alcuni dei leader meno presentabili di questa Terra, in primis Gheddafi e l’autocrate russo Vladimir Putin. Frattini dice: “Chi ci muove accuse del genere non sa di che cosa parla”.

Il ministro, a ogni occasione, ricorda che proprio gli Stati Uniti ‘aprirono’ alla Libia di Gheddafi, quando, nel 2003, il colonnello rinunciò ai suoi programmi nucleari militari, che, del resto, probabilmente non aveva. Con quel gesto, che suonò clamoroso, Gheddafi allontanò da sé e dalla Libia il rischio di fare la fine di Saddam e dell’Iraq, che l’Amministrazione Bush ed i suoi alleati, fra cui l’Italia già allora di Mr B, avevano appena ‘castigato’ per una colpa non commessa, l’avere armi di distruzione di massa. La Libia uscì d’incanto dalla lista degli Stati Canaglia e non si ritrovò mai sull’asse del male del presidente Bush e neppure fra gli ‘avamposti della dittatura’ del segretario di Stato Condoleezza Rice.

Però, gli Stati Uniti non hanno mai abbassato del tutto la guardia verso la Libia e hanno fatto capire, a più riprese, di non apprezzare l’indiscriminata amicizia a tutto campo tra Berlusconi e Gheddafi. La diffidenza di fondo dell’America per il colonnello non è mai stata superata. Quand’è stato a New York per eventi Onu, il leader libico non ha certo potuto permettersi le stravaganze che gli sono concesse a Roma, a partire dalla tenda.

Per molti anni, Washington rimproverò alla Libia l’appoggio al terrorismo internazionale e, il 14 aprile 1986, giunse a bombardare Tripoli e Bengasi –morì, fra gli altri, una figlia adottiva di Gheddafi-, dopo che agenti libici avevano compiuto un attentato contro una discoteca di Berlino frequentata da militari americani.

Gli Usa ritirarono l’ambasciatore da Tripoli nel 1972, tre anni dopo l’ascesa al potere di Gheddafi, e chiusero definitivamente l’ambasciata nel 1979, dopo che, il 2 dicembre, una folla aveva attaccato e incendiato la sede diplomatica. La ripresa di relazioni diplomatiche dirette risale all’8 febbraio 2004 e fu completata due anni dopo, il 31 maggio 2006.

Ma le connivenze tra Libia e terrorismo non sono dimenticate. Il 20 agosto, nel primo anniversario del rilascio, da parte scozzese, dell’agente libico Abdel Basset Mohamed al-Megrahi, uno dei ‘bombaroli’ di Lockerbie, l’attuale segretario di Stato Hillary Rodham Clinton ribadiva con forza la richiesta che il terrorista, condannato all’ergastolo per la morte di 270 persone sul volo Pan AM 103, esploso nel cielo di Scozia il 21 dicembre 1988, sconti tutta la pena, mentre i libici, al ritorno in patria, l’hanno accolto come un eroe.

Eppure, Gheddafi ha spesso ‘strizzato l’occhio’ al presidente Obama, apprezzandone la scelta di un mondo senza armi nucleari e dicendo che ''non ha ancora fatto errori'' -intervista a Der Spiegel del 2 maggio-. Ma il colonnello chiede pure a Washington di cambiare politica mediorientale e, dopo il cruento abbordaggio israeliano del 1.o giugno contro militanti filo-palestinesi che portavano aiuti a Gaza via mare, Gheddafi ha mandato a Barack un telegramma: ''l'onere di questo crimine odioso e' sugli Stati Uniti che finanziano e proteggono con la Sesta Flotta Israele, dimenticando il dramma dei palestinesi''.

Al di là delle schermaglie diplomatiche, quello che gli americani proprio non accettano della Libia è il mancato rispetto dei diritti umani. Quando Tripoli fu eletta nel Consiglio Onu dei diritti umani, a maggio, organizzazioni non governative come UN Watch e Freedom House, protestarono di brutto. Hillel Neuer, responsabile di UN Watch, disse: ''Scegliere Gheddafi il dittatore per giudicare altri sui diritti umani è una barzelletta''. E averlo come migliore amico?

venerdì 27 agosto 2010

UE: allargamento, operazione Balcani, obiettivo 2014

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/08/2010

“L’avvenire della Serbia è nell’Unione europea, quello del Kosovo pure”: così, Lady Ashton, impalpabile ‘ministro degli esteri’ europeo, aveva commentato il parere della Corte di Giustizia dell’Onu che il 22 luglio valutava legittima la dichiarazione d’indipendenza unilaterale del Kosovo dalla Serbia. Ma, prima di progettare l’adesione, i 27 devono almeno concordare una linea d’azione comune nei confronti del Kosovo indipendente: cinque di essi, infatti, ancora non lo riconoscono, Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro.

La sentenza dell’Aja inciderà sulle dinamiche dell’allargamento balcanico dell’Unione europea. Se, nel primo decennio del XXI Secolo, l’ampliamento dell’Ue da 15 a 27 Paesi era forse inevitabile, dopo l’affrancamento dell’Europa orientale dai vincoli sovietico e comunista, ma è comunque servito a stemperare i processi di approfondimento dell’integrazione, in una fase d’appannamento dell’europeismo, ora, negli Anni Dieci, il completamento dell’Unione con i Balcani è necessario, per non lasciare turbolente asimmetrie in una Regione storicamente a rischio costante.

A processo completato, i confini dell’Ue a Est si stabilizzeranno lungo le frontiere dell’Ucraina, dove gli sviluppi politici interni frenano la spinta all’adesione, della Bielorussia e della Russia, mentre a Sud il Mediterraneo separa e nel contempo unisce l’Unione a Medio Oriente e Nord Africa. In un’intervista al settimanale di Belgrado, Vreme, Tempo, il ministro degli esteri italiano Franco Frattini definisce la piena integrazione “un obiettivo europeo comune”. E Piero Fassino, presentando un rapporto all’Assemblea parlamentare dell’Unione europea occidentale, l’Ueo, delinea le tappe del processo: concludere entro l’anno i negoziati con la Croazia, avviarli con la Macedonia; consolidare l’unità statale della Bosnia; riconoscere lo status di candidato a Serbia, Montenegro, Albania –e, ora che l’indipendenza è stata avallata, Kosovo- ... Se l’integrazione dei Balcani nell’Ue non viene completata, “c’è il rischio che la Regione, dove la pace è ancora garantita dalla presenza di truppe internazionali, regredisca”. Ma c’è pure chi frena: l’analista Enrico Jacchia, del Centro Studi Strategici, suggerisce “una pausa di riflessione”: l’allargamento è –dice- “una vocazione politica generosa”, ma il rinvio di ulteriori adesioni “potrebbe essere una misura di buon senso”, nell’attesa che “si allentino i problemi che stringono al collo l’Europa, dall’euro all’assetto Ue economico e politico”.

Indipendentemente dai calendari che possano riguardare Kosovo e Serbia, l’allargamento balcanico resta alto nell’agenda dell’Ue, senza tacere la perenne incognita Turchia e la sorpresa Islanda, l’ultima a bussare alle porte dell’Unione, dopo la crisi che ne ha sconvolto il sistema finanziario, ma che potrebbe correre su una corsia preferenziale, balene permettendo. Il 7 luglio, il Parlamento di Strasburgo ha formalmente avallato la richiesta d’adesione, ma ha chiesto al governo di Reykjavik d’imporre uno stop alla caccia alle balene, incompatibile con le norme dell’Ue. Nel dibattito sono pure emerse preoccupazioni per la mancanza di entusiasmo degli islandesi verso l’Unione, che stride con la fretta delle autorità, che vorrebbero completare il percorso entro la fine del 2011 o l’inizio del 2012. Ma la mancanza di entusiasmo islandese è, forse, il male minore di questa Europa che non è capace di motivare ed entusiasmare i propri cittadini.

Pochi giorni dopo, il 12 luglio, a Istanbul, la Ashton e il commissario all’allargamento Stefan Fuele confermavano l’attenzione alla prospettiva di adesione della Turchia all’Ue, anche se Ankara è oggi meno insistente nel chiederla, mentre l’economia e l’opinione pubblica turche sembrano quasi essersi assuefatte all’idea che l’Europa non rispetterà mai impegni e promesse.

Al momento di assumere la presidenza di turno del Consiglio dei ministri dei 27, ai primi di luglio, il Belgio ha espresso l’intenzione di far avanzare, entro fine anno, le trattative di adesione in corso con la Croazia –gli ultimi tre capitoli di negoziato sono stati aperti a giugno-, con la Turchia –13 su 35 i capitoli aperti- e con l’Islanda.

Per i Balcani, l’occasione di scadenzare gli appuntamenti era stata offerta, in giugno, dalla riunione ad alto livello svoltasi a Sarajevo, mentre l’Unione era ancora alle prese con la debolezza dell’euro innescata dalla crisi greca. La Croazia è ben avanzata nella trattativa e potrebbe entrare nel 2012, magari insieme all’Islanda –salvo sorpassi-. Per Bosnia, Montenegro, Serbia, Macedonia, Albania e Kosovo le prospettive sono meno nitide, perché i Paesi devono ancora adeguarsi agli standard dell’Ue nella realizzazione dello Stato di diritto e nella riforma del sistema giudiziario, nel rispetto della libertà di stampa, nella lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata. Tuttavia, passi avanti lungo la ‘road map’ d’avvicinamento sono stati fatti: Serbia, Montenegro e Macedonia sono dal dicembre 2009 nell’area Schengen per quanto riguarda i visti e Albania e Bosnia potrebbero presto entrarci. E a novembre la Commissione darà il parere sulla candidatura del Montenegro.

Certo, il traguardo simbolico che tutti i Balcani siano nell’Unione entro il 2014, cioè cent’anni dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, innescato dall’assassinio a Sarajevo del GranDuca d’Austria, non è facile da centrare. Ma Fuele garantisce che l’Ue “non è apatica” sull’ampliamento, anche se può avere altre priorità. Le conclusioni della conferenza di Sarajevo confermano che l’allargamento balcanico resta un obiettivo comune da perseguire senza vincoli reciproci: i progressi verso l’Unione saranno ‘nazionali’ e i negoziati con un Paese non dovranno essere condizionati dall’andamento delle trattative con altri. Un modo per evitare il gioco dei veti e delle zeppe.

sabato 21 agosto 2010

MO: Obama riprova la pace tra israeliani e palestinesi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/08/2010

I colloqui diretti tra israeliani e palestinesi riprenderanno a Washington il 2 settembre: quel giorno, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen s’incontreranno alla Casa Bianca su invito del presidente statunitense Barack Obama. Anticipato dal New York Times, l’annuncio è stato ufficializzato dal segretario di Stato Usa Hillary Rodham Clinton, mentre il Quartetto formato da Onu, Usa, Russia e Ue, che segue le trattative di pace per il Medio Oriente, diramava un comunicato che avalla e inquadra l’iniziativa diplomatica. A Washington il 2 settembre ci saranno pure i leader d’Egitto e Giordania e, per il Quartetto, l’ex premier britannico Tony Blair.

Il passo è importante, anche se il successo della ‘ripartenza’ è difficile da prevedere. L’obiettivo è quello di definire lo status finale dei rapporti tra Israele e la Palestina nel giro di un anno. Però, di impegni del genere sono pieni i cassetti dei negoziati mediorientali. L’ultima volta fu nell’autunno del 2007, quando il presidente George w. Bush, al tramonto del doppio mandato alla Casa Bianca, organizzò ad Annapolis un vertice che doveva preludere ad accordi di pace nel giro di un anno. Ma un anno dopo non se ne fece nulla, anche perché, nel frattempo, e lo si sapeva fin dall’inizio, un altro presidente degli Stati Uniti era già stato eletto.

Questa volta, la ripresa di colloqui diretti tra israeliani e palestinesi avviene dopo uno stop di 20 mesi e a ben 17 anni dalla firma degli accordi di Washington patrocinati da Bill Clinton, con la stretta di mano, foriera di speranze rimaste irrealizzate, tra il premier israeliano Izthak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat. Lo sviluppo rappresenta, di per sé, "una piccola vittoria" – lo dice il NYT -del presidente Obama e dei suoi sforzi di rivitalizzare il processo di pace in Medio Oriente, finora senza esito. Anzi, dopo il discorso dal Cairo al Mondo arabo nel giugno 2009, non s’è quasi mossa foglia su quel fronte. E l’Amministrazione statunitense ha anche incassato qualche smacco diplomatico dal governo Netanyahu.

Il presidente potrà fare forse valere lo sblocco delle trattative nella imminente campagna per il voto di midterm del 2 novembre, quando potrà anche mettere in campo, sul fronte esteri, il rispetto dell’impegno a ritirare le truppe da combattimento dall’Iraq entro il 31 agosto e il completamento dell’invio di rinforzi al contingente in Afghanistan, nella prospettiva, aleatoria, di iniziarne il ritiro nell’estate prossima.

Le reazioni all’annuncio, pur non unanimi, sono in linea di massima ritualmente positive e scontatamente ottimiste. Nel comunicato diffuso dalle Nazioni Unite, il Quartetto si dice convinto che i negoziati possano concludersi in modo positivo nei tempi previsti. E il negoziatore Usa George Mitchell è certo di potercela fare, nonostante "ci siano persone che non ci credono, che non lo vogliono e che si stanno muovendo perché non accada". L’Unione europea invita a lavorare “tanto e in fretta”, il ministro degli esteri italiano Franco Frattini parla di “sviluppi molto positivi”.

Dalla Palestina, Hamas, che controlla la Striscia di Gaza e che è in polemica con Abu Mazen, ribadisce che, a suo giudizio, le trattative non servono a nulla, mentre la Lega Araba rivendica un ruolo nel processo di pace. Nella serata di ieri, il comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha discusso a Ramallah i prossimi passi.

L’obiettivo dei negoziati indicato dal Quartetto è di porre un termine all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, che risale al 1967, e di creare uno Stato palestinese indipendente contiguo a Israele. Onu, Usa, Russia e Ue invitano le parti a evitare ogni provocazione durante le trattative e richiama suoi precedenti comunicati. In quello da Mosca di marzo, il Quartetto chiedeva a Israele di cessare le attività di colonizzazione del Territori.

I negoziati diretti, sospesi dal dicembre 2009, cioè dal fallimento del processo di Annapolis, devono affrontare argomenti delicati, come lo statuto di Gerusalemme, le frontiere e il diritto al ritorno nelle proprie case dei rifugiati palestinesi. Nella primavera scorsa, dopo una falsa partenza a marzo, trattative indirette fra israeliani e palestinesi furono avviate grazie alla mediazione di Mitchell, senza però segnare a tutt’oggi alcun progresso, fino all’annuncio odierno.

I palestinesi dubitano che Netanyahu voglia ritirarsi dai Territori, specie da Gerusalemme Est, che loro vorrebbero fosse la capitale del loro Stato. Israele non vuole condizioni preliminari e, per ora, non s’impegna neppure a protrarre il gelo parziale della colonizzazione oltre settembre.

venerdì 20 agosto 2010

Iraq: via truppe Usa, la guerra è finita ma continua

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/08/2010

L’ultima brigata da combattimento statunitense ha lasciato ieri l’Iraq, oltre 2.500 giorni dopo l’invasione: la guerra ha fatto circa 4.400 caduti americani (oltre 5.000, contando le perdite alleate) e centinaia di migliaia di morti iracheni, militari, insorti, civili. I terroristi di al Qaida uccisi, invece, si contano appena a decine: loro, prima dell’attacco, non c’erano in Iraq e si sono infiltrati nel Paese nella scia dell’odio contro gli invasori alimentato dalle bombe e dai combattimenti.

Il bilancio, sette anni e mezzo dopo l’attacco all’Iraq voluto dal presidente Usa George W. Bush, è controverso, più negativo che positivo: Bush voleva rovesciare il regime di Saddam Hussein e completare così l’opera lasciata incompiuta dal babbo George, al tempo della vittoriosa Guerra del Golfo del 1991 per liberare il Kuwait dall’occupazione irachena. A giustificare l’azione, l’asserita minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso del regime di Saddam (ma quelle armi non c’erano, come si accertò ben presto).

L’invasione di Bush, non avallato dalla comunità internazionale e definita “illegale” dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, trovò sostegno politico e militare nella ‘banda dei tre’, i leader più vicini al presidente americano e alla sua cricca neo-con: il premier britannico Tony Blair, il capo del governo spagnolo José Maria Aznar e il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi (l’Italia pagò un prezzo di vite drammatico, specie nel tragico attacco alla base di Nassiriya il 12 novembre 2003). Blair, anni dopo, e Aznar, quasi subito, sono stati politicamente chiamati a rispondere della loro scelta; solo Berlusconi ne è uscito finora indenne.

Le truppe da combattimento americane hanno lasciato l’Iraq con una decina di giorni di anticipo sulla scadenza fissata dal presidente Barack Obama, il 31 agosto: lasciano dietro di sé milioni d’iracheni preoccupati per la loro sicurezza, perché nelle ultime settimane gli attentati si sono intensificati –martedì, il più grave ha fatto almeno 59 morti e oltre cento feriti fra le reclute dell’esercito-, e un gruppo di leader divisi e incapaci di sormontare le diatribe politiche ed economiche, soprattutto religiose e tribali: a cinque mesi dalle elezioni parlamentari di marzo, un nuovo governo non è stato ancora formato e, anzi, le trattative fra i due maggiori schieramenti, quello dell’ex premier Iyyad Allawi, vincitore di misura della consultazione, e del premier uscente Nouri al Maliki, sono state appena rotte.

A parole, i leader iracheni e i generali americani si dicono sicuri che le forze armate e di polizia irachene possano garantire la sicurezza del Paese. Ma lo scetticismo è alto. Saddam Hussein, il rais della guerra all’Iran e dell’invasione del Kuwait, è stato rovesciato (venne catturato a fine 2003 ed è poi stato impiccato a fine 2006) e il potere, che era tutto nelle mani della minoranza sunnita, è ora ripartito senza concordia tra sciiti, sunniti e curdi. Ma la democrazia, che Bush credeva di esportare con i cannoncini dei carrarmati, è ancora lontana e le condizioni di vita della gente, la disponibilità di energia, la produzione e l’export di petrolio non sono tornati sui livelli di prima dell’invasione.

L’annuncio che il ritiro delle forze da combattimento statunitensi era stato completato è stato dato dal tenente colonnello Eric Bloom: “Gli ultimi elementi hanno traversato la frontiera con il Kuwait alle 06 del mattino ora locale”, l’una di notte in Italia. Ma Bloom ha precisato: “Questo non vuol dire che non restino più truppe da combattimento americane in Iraq”, perché “ci vorranno ancora alcuni giorni per fare uscire dall’Iraq materiali ed equipaggiamenti”. Solo allora gli ultimi soldati della 4.a Brigata Stryker della seconda divisione di fanteria, basata ad Abu Ghraib, un luogo ancora insicuro a ovest di Baghdad, potranno partire.

Abu Ghraib è uno dei nomi più sinistri della campagna d’Iraq: in quel carcere, soldati americani poi processati e puniti si macchiarono di violenze e si violazioni dei diritti dell’uomo su detenuti iracheni nudi e inermi. Le immagini di quell’ignominia fecero più danni alla lotta al terrorismo di quanti vantaggi abbia mai portato l’azione militare indiscriminata contro un obiettivo sbagliato, un regime sì dittatoriale, ma che non c’entrava nulla con gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001 contro gli Stati Uniti.

Per la Brigata Stryker, l’ultima marcia non è stata una passeggiata: ci sono voluti due giorni perché 360 veicoli militari e 1.200 uomini per raggiungere il Kuwait. Altri 4.000 soldati sono partiti in aereo. Il 31 agosto resteranno in Iraq solo 50mila soldati americani, per addestrare le forze irachene nel quadro della missione New Dawn, Alba Nuova, destinata a protrarsi fino a tutto il 2011. Neppure il dipartimento di Stato Usa si fida degli iracheni per la sicurezza e vuole raddoppiare, fino a 7mila, gli agenti di sicurezza privati chiamati a proteggere cinque campi fortificati, finora ‘custoditi’ dalle truppe americane. Il generale Babaker Zebari, capo di Stato Maggiore iracheno, avalla i timori: per il generale, gli americani se ne vanno troppo presto, perché i suoi uomini non saranno pronti fino al 2020, fra dieci anni.

La guerra che ha bruciato mille miliardi di dollari è finita per gli americani, ma non per gli iracheni. E le truppe statunitensi cambiano solo fronte: in Afghanistan, il conflitto è più cruento di mai.

giovedì 19 agosto 2010

Iran: "Salvate Sakineh", mobilitazione anti-lapidazione

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/08/2010

“Salvate Mamma Sakineh”: donna, moglie, amante, complice –forse- d’omicidio, il caso di quest’iraniana di 43 anni, condannata a morte, suscita una mobilitazione internazionale: le lapidazioni creano sdegno in Occidente, pure in quei Paesi, come gli Stati Uniti, che non esitano a mettere a morte i loro cittadini. Ma, di quel che sta accadendo fuori dall’Iran, Sakineh, detenuta da due anni nel carcere di Tabriz, nel Nord-Ovest del Paese, non sa probabilmente nulla: il suo avvocato non può vederla e i suoi carcerieri di sicuro non le leggono la stampa estera né le danno accesso a internet.

Dai governi europei a grandi nomi dell’ ‘intellighentsia’ internazionale, la spinta per sottrarre all’esecuzione Sakineh Mohammadi Ashtiani, madre di due figli, cresce di giorno in giorno. Alla guida del movimento, c’è il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, uno dal cuore d’oro, che offre asilo a Sakineh, se gli iraniani la liberano, e non fa nulla per estradare in Italia Cesare Battisti, terrorista omicida.

Le autorità iraniane avvertono la pressione, non la gradiscono, ma non la ignorano: hanno già mostrato di essere attenti al clima internazionale, rinviando sine die, l’11 luglio, “per ragioni umanitarie”, l’imminente esecuzione. E martedì Teheran ha chiesto ai paesi occidentali di non interferire in una questione interna, ricordando che la vicenda è tuttora “all’esame” della giustizia, “molto meticolosa” quando c’è di mezzo un omicidio.

L’11 agosto, Sakineh, il velo sul viso, è stata condotta a confessare sulla tv pubblica: suo marito è stato ucciso dal suo amante sotto i suoi occhi, ha detto. L’ipotesi è che la confessione sia stata estorta a botte e che possa servire a tramutare la pena dalla lapidazione all’impiccagione

La tesi iraniana è che le pressioni internazionali non sia dettate da ragioni umanitarie, ma politiche: c’entrerebbe l’ostilità ai programmi nucleari di Teheran, che i Grandi del Mondo temono miri a dotarsi dell’atomica. La proposta di Lula è stata respinta: “Se liberassimo gli omicidi, non ci sarebbe più sicurezza. Quando le autorità brasiliane avranno visionato il dossier, capiranno che tutto questo cancan è stato montato per nuocere ai rapporti tra i nostri due Paesi”, dopo che Brasile e Turchia hanno rotto l’isolamento diplomatico iraniano.

E il presidente Mahmud Ahmadinejad ha voluto dire la sua: “Non c’è nessun bisogno che creiamo un problema al presidente Lula: preferiamo esportare in Brasile tecnologia piuttosto che certi individui”. Invece, in Brasile la questione sta divenendo un tema della campagna presidenziale per il voto del 3 ottobre.

Numerosi Paesi europei e l’Ue stessa vagliano il da farsi, mentre 17 personalità internazionali hanno pubblicato un appello perché Sakineh abbia salva la vita: fra i promotori, il filosofo francese Bernard-Henry Lévy, gli scrittori Wole Sayinka, nigeriano, Premio Nobel, Milan Kundera, ceco, Jorge Semprun, spagnolo, il cantante e sostenitore di nobili cause Bob Geldorf, la Nobel per la Pace Jody Williams e le attrici Mia Farrow e Juliette Binoche.

Gli avvocati di Sakineh non credono alla confessione e s’attendono che la Corte Suprema iraniana faccia conoscere il suo verdetto definitivo nei prossimi giorni. L’organizzazione umanitaria Human Right Watch teme che la confessione serva solo a corroborare la condanna.

La vicenda giudiziaria non è, del resto, lineare. Per Amnesty International, Sakineh sarebbe stata inizialmente condannata solo per avere avuto una “relazione illegale” con due uomini dopo la morte del marito; l’accusa di complicità in omicidio sarebbe stata poi aggiunta per meglio giustificare la condanna capitale. Ma le autorità iraniane ricordano che la condanna capitale venne pronunciata già nel 2006, per adulterio e complicità in omicidio.

mercoledì 18 agosto 2010

Iraq: sarcasmo Trudeau, tra stragi reclute e litigi leader

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/08/2010

In una delle strisce più recenti di Garry B. Trudeau, il cartoonist ‘liberal’ che ha creato Doonesbury, un sergente nero americano passa le consegne a un capitano dell’esercito iracheno, baffi e basco, proprio mentre la base appena affidata alla sicurezza irachena subisce un attacco terrorista. “Dov’erano le sue guardie?”, chiede il sergente irritato. “Sono spiacente di informarla che avevano lasciato i loro posti per giocare a calcio”, risponde formale il capitano. E, di fronte allo scoramento del sergente, aggiunge: “E siete stati voi ad addestrarle… Che imbarazzo per voi..”.

La striscia di Trudeau rappresenta la rassegnata consapevolezza degli Stati Uniti, che s’apprestano a ritirare dall’Iraq, entro il 31 agosto, tutte le proprie truppe combattenti, lasciando la sicurezza del Paese nelle mani di iracheni da loro addestrati, ma poco affidabili. E le cronache da Baghdad lo confermano giorno dopo giorno.

Ieri, un attentato kamikaze ha fatto oltre 50 morti –pare 59- e oltre cento feriti –i bilanci sono sempre labili e imprecisi- fra centinaia di giovani venuti ad arruolarsi nell’esercito. Il terrorista, con addosso un giubbetto esplosivo, è riuscito ad avvicinarsi al quartier generale dell’11.a divisione. Un portavoce militare iracheno ha ammesso che la piazza teatro dell’arruolamento non era adatta perché troppo trafficata e mal difendibile.

L’attacco è avvenuto il giorno dopo la sospensione dei colloqui per la formazione del nuovo governo iracheno, in corso senza esito dalle elezioni di marzo, cioè da cinque mesi. Le due principali formazioni politiche, quella dell’ex premier Iyyad Allawi, vincitore di misura del voto, e quella del premier uscente Nuri al Maliki, hanno rotto le trattative (al Maliki non vuole che il rivale gli succeda).

Inevitabile pensare a un nesso tra la rottura e l’attacco, il più grave da molto tempo a questa parte. Man mano che la situazione politica s’incancreniva, nel consueto intreccio di interessi politici ed economici, ma soprattutto religiosi ed etnici, gli attentati salivano d’intensità, contro militari, poliziotti e vigili: il 18 luglio, un’esplosione a Baghdad aveva ucciso 39 miliziani governativi anti al-Qaida e civili.

A Washington, il presidente Barack Obama tiene la barra fissa, nonostante i sondaggi confermino che l’emorragia di popolarità non s’arresta: la Gallup gli dà il 44% di consensi, il minimo da quando è alla Casa Bianca, in un poll fatto al momento del via libera alla moschea vicino a Ground Zero. L’Iraq e l’Afghanistan sono due grane grosse, ma Obama conferma le scadenze: il 31 agosto ci saranno in Iraq solo più 50 mila istruttori americani; ed entro il 31 luglio 2011 inizierà il ritiro
delle truppe da combattimento dall’Afghanistan, dove prosegue lo stillicidio di perdite della coalizione –tre i caduti ieri, in due episodi diversi-. C’è fermento fra i militari e il presidente sa già che presto dovrà trovarsi un segretario alla difesa nuovo perché Robert Gates, il repubblicano mantenuto a quel posto, se ne andrà “appena certo che il ritiro dall’Afghanistan possa cominciare”.

A Baghdad il terrorismo di al Qaida, prima dell’invasione assente, fa stragi. A Kabul i soldati muoiono. I comici, anche quelli amici, lo prendono in giro. Obama fa una pausa (da domani, ferie in famiglia) e prepara le elezioni di midterm del 2 novembre e i prossimi impegni internazionale (i vertici del Pacifico e quello a Lisbona il 20 novembre con l’Ue “partner per la crescita e nella lotta al terrorismo”). Sull’agenda, l’economia resta al primo posto: la Casa Bianca riconosce che i progressi finora fatti non bastano a riparare i danni della recessione, specie sul fronte dell’occupazione, e prevede 800mila nuovi posti dall’energia pulita entro il 2012.

Caso Fini: l'ambasciatore e il 'cognato', sassolini a Monaco

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/08/2010, contributo ad articolo a quattro mani

I Mistretta in diplomazia sono una dinastia, anzi “una saga” dice un collega che ne conosce bene più d’uno. E Franco, udinese di nascita, è un ambasciatore esperto: a fine carriera, gli è toccata, come sede, il Principato di Monaco. Posto non di primissimo rango, dove le grane sono in genere poche, l’assegno è buono e la vita non è certo grama. Certo, ti può arrivare fra i piedi un ‘vip’, o sedicente tale, un po’ maleducato e un po’ pretenzioso, che considera l’ambasciata a sua disposizione magari solo perchè si presenta come ‘il cognato’di un ex ministro degli esteri, oltre che presidente della Camera in esercizio.

Che Giancarlo Tulliani non vada a genio all’ambasciatore Mistretta, lo si capisce dall’intervista data al Giornale. “Si sarà voluto togliere dalla scarpa un sassolino”, azzarda un diplomatico giovane. Sarà, ma l’ambasciatore sta ben attento, però, a non tirare un sasso all’ex ministro.

Certo, stupisce che una ‘feluca’ tanto sperimentata cada nella trappola dell’intervista a bruciapelo: che la materia sia scottante, Mistretta lo sapeva bene. C’è quasi da ipotizzare che, per parlare così, l’ambasciatore a Montecarlo abbia avuto qualche ‘incoraggiamento’, o almeno qualche ‘via libera’, dalla Farnesina. I diplomatici italiani in giro per il Mondo sono addestrati a misurare dichiarazioni e interviste, anche se qualcuno poi cede al richiamo della tv o della radio. Ma un conto è quando c’è qualche connazionale in pericolo, o qualche familiare da rassicurare; e un conto è una vicenda come questa, che come ti muovi sbagli.

L’ambasciatore Mistretta è considerato, con rispetto, dai suoi colleghi una persona “equilibrata”: non sarà l’uomo di punta della diplomazia italiana e la sua carriera sarà stata magari condizionata da esigenze familiari, ma il suo ‘cursus honorum’ se l’è fatto. Nel suo curriculum, ci sono studi di grande prestigio internazionale e sedi come Londra, Buenos Aires, Washington, Barcellona –non glien’è toccata nessuna veramente disagiata. Negli Anni Novanta è console generale a New York, fino al 2006 è ambasciatore a Beirut, senza contare gli incarichi di fiducia e di prestigio ricoperti a Roma. Poi, dal 1.o ottobre 2008, è ambasciatore a Montecarlo, con la pensione ormai in vista –compirà 67 anni il 2 novembre-.

martedì 17 agosto 2010

Afghanistan: talebani chiedono inchiesta su civili uccisi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/08/2010

Nel giorno in cui lapidano una coppia di innamorati, lei 23 anni, lui 28, perché adulteri, i talebani propongono una commissione d’inchiesta mista (Onu, Isaf e loro, con lo Stato afghano e l’Oci, la conferenza islamica ) sulle vittime civili di questa guerra. I talebani contestano i calcoli dell’Onu, secondo cui loro sono responsabili di tre quarti dei ‘collateral damages’ e le forze internazionali solo di un quarto.

La proposta dei talebani, considerata una provocazione, pare destinata a cadere nel vuoto. E, intanto, il comando Nato ammette di avere ucciso per errore giovedì scorso cinque civili nella provincia di Helmand. Truppe a terra, in difficoltà “per l’intenso fuoco degli insorti”, avevano chiesto supporto aereo. Il raid ha distrutto una casa di gente qualsiasi.

In Afghanistan, sono giorni d’ordinaria violenza. Domenica, alpini e genieri italiani hanno neutralizzato un ordigno che poteva fare vittime sulla strada tra Herat e Farah. E il pallottoliere della morte ha superato i 2.000 militari occidentali caduti dall’inizio del conflitto (434, oltre un quinto, solo quest’anno, che s’avvia a essere il più cruento).

La situazione è tale che il generale David Petraeus, comandante delle forze Usa e Isaf, comincia ad avere dubbi sulla possibilità di avviare il ritiro nel luglio 2011: “Non è un dogma scolpito nella pietra”, dice in un’intervista alla crema dei media americani. Mal gliene incoglie: la Casa Bianca lo fulmina. La data per l’inizio del ritiro “non è negoziabile”, dice il portavoce aggiunto Bill Burton (vero, chiosiamo, almeno fino alle elezioni di mirdterm del 2 novembre).

Come se le grane non bastassero, ci si mette pure il presidente afghano Hamid Karzai: dà gli otto giorni, anzi i quattro mesi, alle compagnie di sicurezza private che la fanno da padrone nel Paese, una cinquantina con 40 mila ‘gorilla’. Tutte fuori entro la fine dell’anno. Alla sicurezza, penseranno gli afghani: siamo, anzi sono, quei poveracci laggiù, a posto.

USA: Obama e la moschea, i diritti e le promesse

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/08/2010

A cavallo di Ferragosto, che in America non significa nulla, il presidente Barack Obama fa due cose che gli si addicono proprio: prima, ‘benedice’ l’apertura di una moschea nei pressi di Ground Zero, il tempio della sofferenza inflitta agli Stati Uniti dal terrorismo integralista; e poi porta la famiglia, la moglie Michelle e le figlioletta Sasha –la maggiore, Malia, è ancora in un campo estivo-, a farsi un bagno a Panama City, in Florida, per dimostrare ai turisti che lì si può andare in vacanza senza patemi, perché la marea nera del Golfo del Messico ha lasciato relativamente indenne questa costa.

Le sue ferie, il presidente Obama le inizierà solo giovedì: dieci giorni a Marthas Vineyard, l’isoletta dei Kennedy e dei ‘ricchi e famosi’ liberal e illuminati d’America, al largo del Massachussetts. E gli ultimi giorni di lavoro sono pieni di grane, per l’uomo che pensa ancora di avere “il posto di lavoro migliore al mondo”, ma che non si diverte più con il suo blackberry perché “nessuno gli scrive”, causa le limitazioni impostegli dal Secret Service che tutela la sua sicurezza.

Rispetto all’immagine titubante del primo anno del suo mandato, il ‘presidente nero’sembra avere trovato, nelle ultime settimane, ritmo e convinzione: fa “cose da Obama”, cioè le cose che la gente s’aspettava da lui; e, se rincuora i suoi sostenitori, ovviamente ulcera i suoi oppositori. Qui da noi, in Italia, in Europa, ovunque nel Mondo si spera in Obama perché non si ha un leader in cui sperare, ci si preoccupa: “Diommio!, chissà che cosa succede adesso che ha detto sì alla moschea, lui che aveva promesso in campagna elettorale la tolleranza, il dialogo, l’apertura verso l’Islam, così come aveva promesso e poi ha fatto la riforma della sanità e la riforma della finanza”. E già c’è chi si strappa i capelli perché il presidente ribadisce che concluderà, come promesso, il ritiro delle truppe dall’Iraq entro il 31 agosto, anche se laggiù non è il paradiso, e che inizierà il ritiro dall’Afghanistan fra un anno, anche se laggiù è l’inferno.

Ed eccoci, a 75 giorni dalle elezioni di midterm del 2 novembre, a fare calcoli con un bilancino che spesso è tarato più sulle nostre alchimie che sui criteri americani. Perché, se Obama non facesse nessuna delle cose che ha promesso di fare agli americani, e al Mondo, certamente perderebbe più voti e più credibilità di quanta non ne possa perdere dando via libera a una moschea dentro il centro culturale e religioso nell’area del World Trade Center, dove sorgevano quelle Torri Gemelle abbattute dai piloti kamikaze della rete terroristica di Osama bin Laden l’11 Settembre 2001.

Il presidente ha pronunciato il suo discorso della “libertà di culto” dando il benvenuto agli invitati alla Casa Bianca in occasione del Ramadan, il mese del digiuno musulmano appena avviato. Certo non sarebbe stata l’occasione giusta per sbattere la porta in faccia all’Islam: ragioni di opportunità, ma soprattutto ragioni di principio, perché l’America e Obama sono fautori della libertà di religione e della libertà di culto ovunque e non avrebbe proprio senso andare a fare la lezione alla Cina o all’Iran e poi razzolare male a casa propria. Senza dimenticare gli aspetti costituzionali e di diritto: perché il diritto di costruire un luogo di preghiera e un centro di aggregazione su un terreno privato a sud di Manhattan è sancito dalla legge e non si vede bene a che titolo il presidente potesse inficiarlo.

Del resto, la Casa Bianca non è certo rimasta isolata: il sindaco di New York, Michael Bloomberg, che è un repubblicano, aveva già fatto sapere di non vedere problemi nella moschea; la gente della Grande Mela è mediamente più democratica e più liberal del resto dell’America; gli ebrei, che qui sono tantissimi e potentissimi, sono divisi; e le associazioni dei familiari delle vittime protestano, ma discutono. Certo, la destra religiosa, i conservatori ‘evangelici’, i repubblicani guidati (e fin che è così ai democratici va di lusso) da Sarah Palin, fanno il diavolo a quattro e sostengono che Obama s’è arreso al terrorismo, contro cui conduce –dicono- una guerra senza convinzione.

E invece proprio il no alla moschea sarebbe stata una vittoria di al Qaeda, come lo furono le torture e le violazioni dei diritti dell’uomo tollerate nell’America di Bush in nome della lotta al terrorismo. La capacità di separare Islam e integralismo, religione e fanatismo, e la volontà di dialogare sono una sconfitta per i kamikaze.

Come poi questo peserà sul voto di midterm, perché anche in America si pongono il problema, Obama se l’è certo chiesto. Ma, intanto, ha fatto la cosa che doveva fare: se gli americani hanno mandato alla Casa Bianca lui, e non il duo McCain/Palin, un motivo c’è.

mercoledì 11 agosto 2010

La strana amicizia tra Berlusconi e Gheddafi: fatti e illazioni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/08/2010

Se tra Berlusconi e i finiani sarà guerra aperta, neppure la politica estera sarà terra franca, in barba alle tradizioni dei Paesi più maturi, che la vogliono terreno d’azione il più possibile bipartisan fra maggioranza e opposizione. Sotto tiro, potrebbero finire , in particolare, le amicizie chiacchierate e sovente incomprensibili, ma sempre sbandierate, di Mr B con alcuni dei leader più impresentabili di questa nostra Terra, il dittatore libico Muammar Gheddafi, l’oligarca russo Vladimir Putin, il despota bielorusso Alexander Lukashenko.

Le illazioni che filtrano sulla stampa da ambienti vicini a Fare Futuro si concentrano, soprattutto, sul rapporto privilegiato tra il presidente del Consiglio italiano e il colonnello libico: nessun politico occidentale di spicco ha compiuto tante missioni in Libia come Silvio Berlusconi. Ma fonti ufficiali e diplomatiche insistono: “Quel rapporto tutela l’interesse nazionale”.

Quali siano “i fatti suoi” che Briguglio evoca, affari o altro, non è affatto chiaro. Certo è che il rapporto tra Italia e Libia, da quando Berlusconi è a Palazzo Chigi, è solidissimo e intensissimo: Roma difende ad oltranza l’efficacia dell’accordo con Tripoli per bloccare i ‘viaggi della disperazione’, fa scudo alla Libia dalle accuse che l’Onu e organizzazioni umanitarie le muovono per le violazioni dei diritti dell’uomo; e si schiera con la Libia nei contenziosi internazionali, come quello con la Svizzera scoppiato a metà febbraio (Gheddafi giunse a chiedere ai musulmani di condurre una jihad contro la Confederazione).

A tenere bordone al presidente del Consiglio nel garantire l’eccellenza delle relazioni con la Libia, sono due ministri. Sul fronte internazionale, quello degli esteri Franco Frattini, attivissimo, nella vertenza con la Svizzera, a cercare la mediazione e pronto a sostenere che “un’esasperazione della situazione" era stata evitata grazie ad un "intervento personale” del premier italiano, che, il 21 febbraio, telefonò all’amico Gheddafi. Sul fronte dell’emigrazione, quello dell’interno Roberto Maroni, che Il 10 febbraio a Gaeta consegnò tre guardacoste alle autorità libiche: le unità navali sono impiegate nel pattugliamento congiunto per il contrasto all’immigrazione clandestina. Maroni continua a sostenere, cifre alla mano, che l’accordo con la Libia ha drasticamente ridotto il flusso migratorio, non importa a prezzo di quali violazioni dei diritti umani, anche se le cronache degli ultimi giorni indicano una ripresa degli sbarchi.

Gheddafi, quando arriva a Roma in visita, ha diritto a trattamenti di assoluto privilegio, che sia in visita bilaterale ufficiale, come nel giugno 2009, o che sia qui per il Vertice della Fao, come nel novembre scorso. Il colonnello può piantare la tenda a Villa Pamphili, fare aspettare per ore la terza carica dello Stato (che, guarda caso, è il presidente della Camera Gianfranco Fini, che rinunciò all’incontro) e fare proselitismo islamico di fronte a centinaia di giovani donne, cui si presentò ovviamente scorta dalle sue vistose guardaspalle..

Il dittatore, dal canto suo, non nega favori diplomaticamente vistosi all’amico Silvio, quando lo riceve in Libia. Il 27 marzo, Berlusconi partecipò, unico leader occidentale invitato da Gheddafi, al 22° vertice della Lega araba –c’erano pure il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e il premier turco Recep Tayyip Erdoğan-. E il 13 giugno Mr B torna sotto la tenda del colonnello: ottiene il rilascio di tre pescherecci italiani, sequestrati pochi giorni prima, e partecipa al suggello dell’intesa fra Libia e Svizzera. Il premier libico al Baghdadi Ali al Mahmudi dice che il ruolo del presidente del Consiglio italiano è stato “determinante” per risolvere il contenzioso e ringrazia l'Italia, mentre Svizzera e Ue ringraziano Spagna e Germania.

Episodi che mostrano un’intensità di rapporti impermeabile ai comportamenti di Gheddafi e, recentemente, pure alla sorte di centinaia di eritrei maltrattati e malmenati nel centro di detenzione dov’erano finiti dopo essere stati intercettati in mare e respinti. A spiegarli, basta l’interesse nazionale? Fra i finiani, e non solo, qualcuno pensa, o sa, che non è così.

martedì 10 agosto 2010

Russia: incendi, fumo, vittime, ma il civismo non s'accende

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/08/2010

Altro che il Generale Inverno, che l’ha sempre protetta dagli invasori. L’estate mette in ginocchio la Russia, questa torrrida stagione 2010 densa di cataclismi atmosferici e ambientali: Mosca è avvolta da una settimana da una coltre di fumo greve e aspro; gli esperti denunciano un aumento dei decessi per problemi respiratori (il doppio del solito, forse più).

E, intanto, il Nord dell’Europa, dalla Polonia all’Austria via la Germania, subisce decine di vittime e danni ingenti per le alluvioni e aspetta con timore l’onda di piena dei fiumi, mentre in Asia, dalla Cina all’India al Pakistan, le piogge torrentizie fanno migliaia di vittime. E incidenti fortuiti, o dovuti all’incuria dell’uomo, innescano maree nere in serie, dal Golfo del Messico –la peggiore- alla Cina al porto di Mumbai in India, dove una petroliera urta un cargo di sostanze chimiche.

Errori umani a parte, la colpa è tutta del surriscaldamento terrestre, assicurano i climatologi. E l’Onu parla della peggiore catastrofe da vari anni. Mosca e i suoi dieci milioni di abitanti affronterebbero addirittura la calura più atroce da un millennio in qua. Le fiamme divorano boschi e sterpaglie tutto intorno alla capitale per 1.750 chilometri quadrati.

La tragedia umana e ambientale ha contraccolpi economici incalcolabili: la siccità, infatti, colpisce
i raccolti. L’export di cereali russo è bloccato, ma la speculazione fa subito salire di colpo il prezzo del grano –non andava su così in fretta da trent’anni-, suscitando lo spettro di una terribile crisi alimentare mondiale.

E la Russia sconta pure disorganizzazione e irresponsabilità. Gli incendi sono alla terza settimana, ma non s’è ancora trovata una parata. Il presidente Dmitri Medvedev parte in vacanza, abbandonando i moscoviti a boccheggiare, per il sesto giorno consecutivo, sotto una fitta cappa lattiginosa e tossica sprigionata dai fuochi di foreste e torbiere, mentre l'ondata di caldo non dà tregua. Situazione analoga a Nizhni Novgorod, quarta città del Paese, circa un milione e mezzo di abitanti, mentre a San Pietroburgo la nube bianca giunta domenica è stata spazzata dal vento. Agli allarmi mantenuti per i centri nucleari a rischio fiamme, nonostante le trincee ‘taglia fuoco’ realizzate, si aggiungono quelli per le epidemie e il colera

Il presidente Medvedev non è l’unico russo a praticare una strategia di sopravvivenza. Quelli che possono lasciano la città: vanno nelle dacie (dove l'aria è solo leggermente migliore, ma almeno fa più fresco), o in località russe lontane dalla nube e dagli incendi, o all'estero (domenica, dai tre aeroporti moscoviti sono partiti oltre 100.000 passeggeri, un record dall’inizio dell’anno, nonostante la cancellazione in tutto il Paese di oltre 60 mila voli).

Solo sul ponte di comando, è rimasto –ma sarebbe stato lo stesso anche se Medvedev fosse restato in città- il premier Vladimir Putin. Forse armate, protezione civile, vigili del fuoco sono mobilitati, ma spesso gli interventi non sono coordinati. E c’è chi segnala la carenza di volontari, per spegnere e contenere gli incendi: né la Russia zarista né quella comunista erano mai stati esempi di civismo e quella di Putin, in mano a un’oligarchia affarista e profittatrice, dal passato mafioso-delinquenziale, non è certo migliore, neppure da questo punto di vista. Le organizzazioni umanitarie sollecitano il governo a chiedere l’aiuto internazionale.

La polemica del giorno è quella sulle vittime della crisi. Andrei Seltsovsky, capo del dipartimento della salute di Mosca, rivela che i decessi in città sono, attualmente, circa 700 al giorno, mentre la media giornaliera normale è tra i 360 e i 380 morti al giorno. Seltsovsky fornisce dettagli: “Non c’è nessun segreto: fa caldo, fanno 40 gradi, i colpi di calore mietono vittime, specie fra gli anziani". Negli ospedali, le camere mortuarie sono sovraffollate: la Reuters cita l’Ospedale 62, dove c’è posto per 35 salme e ve ne sono 80.

Le dichiarazioni di Seltsovsky paiono una risposta ai sospetti che le autorità stiano coprendo le dimensioni del dramma, dopo avere riconosciuto giorni fa la morte di 52 persone negli incendi. Passano, però, poche ore e il Ministero della Sanità interviene e ridimensiona, smentisce, nega.

Eppure, che i moscoviti stiano soffrendo è una realtà sotto gli occhi di tutti. Chi resta nella capitale, se solo può permetterselo, passa le notti negli alberghi con l'aria condizionata; altri si trasferiscono da amici che vivono in appartamenti climatizzati, dormono in ufficio o in auto. Di giorno, i centri commerciali sono affollati: lo Ievropeinski, il più moderno del centro, ha il 50% di clienti in più (molti vanno a pattinare sulla pista di ghiaccio al coperto, ma altri si limitano a starsene al fresco). E il Comune tiene aperti 123 centri con aria condizionata per accogliere anziani e bambini.

SPIGOLI: disinvolti a tavola coi testicoli, ma pieni di divieti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/08/2010

Se c’è un’Italia che si sottrae a scandali e critiche, è quella della cucina: giornalisti più in vacanza che in missione notano ammirati la disinvoltura con cui mangiamo interiora (Times, solo un italiano può sembrare "cool" mentre ingurgita testicoli) e dispensano consigli a chi verrà dopo di loro (FT, “in Umbria abbiamo aspettato, ma ne è valsa la pena”: lo sanno tutti che la fretta a tavola fa male). Il Daily Mail invita a “banchettare in Sicilia”, il Guardian a “mangiare come la gente del posto a Roma”, il WP constata che abbiamo “un atteggiamento più sano verso il cibo degli americani”, che sono più obesi. Ma altre Italia lasciano sbigottiti: parliamo di costume e società, mica di politica ed economia. Telegraph e Daily Mail mettono in guardia dai nonnetti al volante e il Times pubblica addirittura una ‘guida alla guida’: che cosa bisogna fare per evitare guai. Poi ci sono i divieti ‘locali’ che frastornano il Guardian (stop ai negozi di kebab, niente baci in macchina, niente calciobalilla dopo le 22 ... “e fioccano multe”), mentre il Daily Mail registra il “giro di vite” in Vaticano sull’abbigliamento dei turisti (“bisogna coprirsi”). E se a luglio lo sciopero delle sdraio aveva poco colpito la stampa internazionale, il degrado di Roma la impressiona sempre: il NYT s’entusiasma, è vero, per l’opera a Caracalla “tra le rovine”, ma il WP invoca difesa dai vandali per Villa Borghese e il WSJ narra con foto e video lo scontro tra gli “artisti dei graffiti” contro le squadre di pulizia.

sabato 7 agosto 2010

Francia: Sarkò su nei sondaggi, giù con Carlà sul set

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/08/2010

Un luogo comune dice che, al fianco di ogni grand’uomo, c’è sempre una grande donna. Ma quando la donna gli sta un passo avanti il grand’uomo rischia d’andare in tilt. E’ quanto sta forse accadendo al presidente francese Nicolas Sarkozy, ora che la moglie italiana Carla Bruni, modella e cantante, pensa al cinema e pure alla tv (e fosse solo quello: magari pensa pure a Owen Wilson). Se poi ci si mette il caldo dell’estate, la fatica del governo e una popolarità che più bassa non è mai stata, quasi quasi uno penserebbe che al presidente francese Nicolas Sarkozy non ne va più bene una.

Rapido ripasso: il governo è un groviera di scandali e di dimissioni. Due sottosegretari se ne sono andati per storie di sigari cubani e jet privati a spese del contribuente; il ministro del lavoro e amico Eric Woerth è accusato d’avere preso un finanziamento illecito dall'erede Oreal Liliane Bettencourt, per la campagna presidenziale 2007; il ministro degli esteri Bernard Kouchner sarà presto cacciato. E la stampa popolare e ‘gossippara’ racconta d’una scenata sul set notturno di ‘Midnight in Paris’, fino alle 4 del mattino ad aspettare Carlà che ripeteva 30 volte una scena finchè Woody Allen, il regista, non la dava buona.

Poi arriva un sondaggio per Le Figaro, giornale di destra, e tutto, o quasi, cambia: i francesi appoggiano alla grande le misure draconiane del presidente contro delinquenza comune e immigrazione illegale. La scorsa settimana, critiche politiche erano venute da destra e da sinistra. E, invece, la mossa del presidente per rinvigorire la propria popolarità, verso le presidenziali 2012, pare azzeccata. L’89% dei francesi approva l’idea di costringere i criminali recidivi a portare braccialetti elettronici, dopo avere scontato pene detentive; e quattro su cinque condividono
la revoca della cittadinanza agli stranieri che, dopo averla acquisita, pratichino la poligamia o l’infibulazione, nonostante i dubbi sulla costituzionalità delle misure.

Chissà se, ieri, andando in giro in bicicletta per due ore col figlio Pierre a Cap Negre, sulla Costa Azzurro, nel primo giorno delle sue vacanze, Sarkò pensava al sondaggio o al litigio, se litigio è stato, con Carlà. Il presidente sceglie belle donne dalla personalità forte, com’era Cécilia, la prima moglie, ma poi fatica a digerirne il carattere e le scelte.

E loro lo stressano. Carlà prima ha deciso di provare a fare l’attrice; e, adesso, nonostante le prove non proprio impeccabili con il duo Wilson/Allen, si è offerta come ‘star guest’ a ‘Csi, la scena del crimine’, serial tv di grande successo anche in Francia. Al settimanale 'Tele7Jours', Carol Mendelson, la produttrice, racconta: "Abbiamo ricevuto un suo messaggio, in cui dice che adora il serial. Saremmo davvero felici di proporle un ruolo". Si pensa a un episodio di due ore tutto ambientato a Parigi: "E' già pronta un'ottima sceneggiatura… Ve la immaginate Carla Bruni-Sarkozy tra William Petersen, cioè Gil Grissom, e Marg Helgenberger, cioè Catherine Willows? Che locandina!".

Ci sono già i presupposti per un’altra scenata presidenziale, dopo quella che, secondo il settimanale Vsd, ha visto Sarkozy protagonista martedì notte. Dopo una riunione del Consiglio dei Ministri, costretto tutto agli straordinari estivi dai programmi di lavoro di Carlà, il presidente s’è presentato alle due del mattino sul set nei pressi del Pantheon, sulla Rive Gauche: un fiume in piena di rabbia e gelosia, sudato, senza cravatta e con la camicia sbottonata, scatenato con i paparazzi e con la moglie che voleva portarsi via. Lei, abbracciandolo e prendendolo sotto braccio in una pausa sigaretta, l’ha però placato. Alla fine, Sarko, la cui presenza innervosisce pure il regista e deconcentra gli attori, aspetta in un ristorante, fino alle 4, alla fine delle riprese. Dopo di che, finalmente Carlà saluta e i Sarkozy tornano a casa.

A cose fatte, l’Eliseo minimizza, ma non nega del tutto: “E' possibile che ci sia stato uno scambio di battute, ma niente di rilevante”. E la troupe ammette problemucci d’inesperienza per la Bruni, che camminava guardando i segni per terra o fissava la telecamera, ma “sapeva a memoria le sue battute” ed “era molto interessata a quanto accadeva”. In vacanza, Sarkozy potrà chiedere consigli su come gestire lo stress al suo predecessore, Jacques Chirac, ospite, con la moglie Bernadette, dell'amico miliardario Francois Pinault a Saint-Tropez. Attenzione!, però: Bernadette non ha mai voluto fare l’attrice.

SPIGOLI: Amanda, a ottobre appello e libro, poi film

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/08/2010

‘No one gets left behind’, ‘Nessuno viene lasciato indietro’: è un motto dei marines, ed è la filosofia di ‘salvate il soldato Ryan’. Ed è pure l’atteggiamento della stampa americana verso Amanda Knox, la studentessa di Seattle condannata, con Raffaele Solletico, oltre che a Rudy Guede, per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia il 1° novembre 2007. Quasi non passa giorno senza che l’uno o l’altro giornale o televisione si occupi di Amanda, che i media statunitensi trattano come fosse ‘tenuta in ostaggio’ dalla giustizia italiana. E tempo fa l’inglese Daily Mail, che ha invece l’atteggiamento opposto, segnalava che “Foxy Knoxy”, giunta ai mille giorni di carcere, s’è tagliata i capelli corti “stile Giovanna d’Arco”, in segno di ribellione, senza peraltro rinunciare allo studio e alla laurea (l'Universita dello Stato di Washington le ha messo a disposizione un programma di studio individuale via email). L’autunno che verrà s’annuncia denso di novità: in ottobre, l’avvocato deporrà l’appello contro la condanna a 26 anni inflittale dal tribunale di Perugia; e sempre in ottobre uscirà in Italia un libro contenente, fra l’altro, il suo primo racconto, l’esordio come scrittrice. Ci vorrà più tempo, invece, per il film che Hollywood sta preparando: un sito internet ha lanciato un sondaggio per selezionare l’Amanda di celluloide (tra le candidate, una delle ‘cattive ragazze’ dello ‘show-biz’ Usa, Lindsay Lohan).

venerdì 6 agosto 2010

NYC: Caroline non impara da Papà Rudy la tolleranza zero

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/08/2010

Al papà campione della tolleranza zero, capo della polizia di New York (l’NYPD di una serie tv molto popolare), poi sindaco della metropoli martoriata dagli attacchi terroristici dell’11 Settembre, Caroline aveva già dato qualche dispiacere. Nel 2007, s’iscrisse a un gruppo pro Barack Obama presidente, malgrado il padre puntasse alla nomination repubblicana –una corsa che finì presto-.

Ma questa volta Caroline, 20 anni, studentessa di teatro ad Harvard, l’ha fatta davvero grossa. Intendiamoci, se lei non fosse la figlia di Rudy Giuliani la sua sarebbe una bravata, una leggerezza. Ma, con quel nome, la cosa cambia.

Mercoledì, Carline è stata arrestata proprio a New York per avere rubato in una profumeria di lusso, un negozio della catena Sephora sull’86.a Strada, nell’Upper East Side di Manhattan, quartiere bene lungo Central Park: taccheggio è il tipo di reato.

Certo, la filosofia della ‘tolleranza zero’ con cui Giuliani sconfisse il crimine a New York Caroline, in casa, deve averla respirata e non deve esserle piaciuta. Ma non ha neppure imparato bene a fare la ladra, perché, coi capelli biondi raccolti sulla nuca, in maglietta, felpa e scarpe da tennis, s’è fatta beccare come una scolaretta da una telecamera mentre rubava cosmetici per 150 dollari. Bloccata all’uscita del negozio, ha detto: "Sono un'attrice".

Il nome però salta fuori sui documenti: il responsabile del negozio ritira la denuncia, ma Caroline finisce al 19o distretto di polizia, viene formalmente incriminata di furto semplice e torna libera dopo qualche ora, ma dovrà comparire davanti al giudice il 31 agosto. E’ incensurata e dovrebbe evitare la condanna a una pena detentiva.

Il padre, passato per un divorzio, il cancro, la sconfitta politica, chiede ai media di rispettare la privacy della ragazza. Ma la foto della figlia in manette campeggia sulla prima del New York Post.

Minore dei due figli avuti dalla prima moglie Donna Hanover, Caroline ‘ruppe’ con Rudy proprio per il divorzio e il successivo matrimonio con una donna molto più giovane. Nel libro degli studenti di Harvard e sul profilo su Facebook, Caroline compare con il cognome della madre.

Diamanti insanguinati: Naomi non inchioda il dittatore

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/08/2010

Noi c’abbiamo Belen, ed è già iattura grossa, con le adolescenti d’Italia che eleggono a modello una che sta con Corona, ‘si fa’ e non sa fare nulla, manco uno spot, se non mostrarsi. Ma il Mondo c’ha Naomi, una che sta con Briatore, ‘si fa’, picchia le colf e gli autisti e sapeva stare in passerella, ma riceveva pure diamanti grezzi in regalo dal dittatore liberiano Charles Taylor: diamanti insanguinati, quelli che servono all’acquisto di armi e che vengono da Paesi dove i diritti dell’uomo sono negati.

La (ex) top model ha ieri ammesso, davanti al Tribunale speciale per la Sierra Leone dell’Aja, d’avere ricevuto nel 1997 “delle pietruzze sporche”, come le ha definite lei: un regalo –s’immaginò- di Taylor, accusato accusato di crimini di guerra e contro l’umanità e, fra l’altro, di avere barattato diamanti con armi.

Uno pensa: beh, almeno la Campbell con la sua deposizione ha mostrato senso civico. Tutte balle: Naomi, che ha risposto alle domande per due ore, s’è presentata solo dopo che la Corte, per i suoi continui rifiuti, l’ha minacciata di multa ed arresto; ed ha ammesso di avere paura a testimoniare, definendo la sua presenza lì “un grosso fastidio”. Del resto, le sue dichiarazioni -lo vedremo- fanno supporre una certa reticenza e hanno fatto contenta più la difesa che l’accusa.

La Corte dell’Aja non era mai stata così affollata: scene come da noi a Milano, quando in tribunale, il mese scorso, a deporre c’era andato George Clooney. Naomi ha riferito che una volta, nel 1997, a Città del Capo, due uomini le avevano portato in piena notte, dopo una cena di beneficienza organizzata dall’ex presidente sudafricano Nelson Mandela, “una borsetta”. Dentro, c’erano “pietruzze sporche piccole piccole, due o tre”: nessun biglietto, ma lei aveva pensato a un regalo dell’ex presidente liberiano che aveva conosciuto la sera prima. La mattina dopo, ne aveva parlato alla sua agente Carole White e all’attrice Mia Farrow (entrambe deporranno lunedì prossimo).

Vestita di beige, gonna al ginocchio, capelli legati, l’ex Venere nera ora a 40 anni ‘pantera’, era una delle carte dell’accusa per provare che Taylor, 62 anni, mente quando dice di non avere mai avuto diamanti grezzi. L’ex dittatore avrebbe acquisito, nel 1997 proprio in Sud Africa armi e munizioni in cambio di diamanti avuti dai ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Ruf) della Sierra Leone, allora sconvolta da una guerra civile di straordinaria ferocia. La difesa ha però derubricato come “pure speculazioni” le affermazioni della Campbell.

Il processo è in corso dal 2008, ma solo la presenza della (ex) top model ha risvegliato l’attenzione dei media. Secondo l’accusa, Taylor guidava senza esporsi i ribelli del Ruf. Presidente della Liberia dal 1997 al 2003, l’imputato si dichiara innocente da tutti i capi d’accusa, fra cui omicidio, stupro e arruolamento di ‘bambini soldati’ in un conflitto che tra il 1991 e il 2001 fece circa 120 mila morti.

Ma che fine fecero i diamanti di Naomi? Lei non capì subito che quelle pietruzze sporche erano diamanti, perché, “sapete com’é, di solito vedo i diamanti sotto forma di brillanti in un astuccio”. Quando lo capì, non li volle tenere: li diede a un amico del fondo d’aiuto all’infanzia di Mandela, Jeremy Ratcliffe, “perché ne facesse qualcosa” (13anni dopo, Ratcliffe li avrebbeancora). Quanto a Taylor, la Campbell non lo rivide mai più e non seppe mai se i diamanti fossero davvero suoi. “Ricevo regali di continuo, a ogni ora. Per me, è normale” -anche non sapere da chi vengono?-.

SPIGOLI: l'Uomo di Ghiaccio scioglie i suoi misteri

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/08/2010

Quando menava una grama esistenza nelle valli alpine, 5300 anni fa o giù di lì, Oetzi, che certo non si chiamava così, non si sarebbe mai immaginato che la sua mummia conservata nel ghiaccio sarebbe divenuta una sorta di cometa della stampa internazionale: una stella che ritorna, perché, ogni tanto, c’è un giornale, o una tv, che ne riscopre la storia e la racconta. Stavolta, Michael Day, su The Independent, prende spunto dai risultati delle ultime ricerche sull’ ‘uomo del Similaun’, i cui resti ben conservati furono restituiti, il 19 settembre 1991, da un ghiacciaio che stava sciogliendosi, tra Italia e Austria: la notizia è che gli inquirenti, che indagano sulla morte presumibilmente violenta dell’ ‘uomo di ghiaccio’, si sospetta morto ammazzato per mano d’un qualche caino
dei suoi tempi, “sono finalmente pronti a contattare i suoi parenti”. La ricostruzione della sequenza del Dna di Oetzi ha infatti permesso loro di individuare i discendenti del pastore – cacciatore preistorico, alcuni dei quali popolano ancora le stesse valli. Non solo, ma il dottor Albert Zink, direttore dell’Istituto di Bolzano dedicato allo studio e alla conservazione di Oetzi, pensa che il codice genetico possa servire a capire e a curare diverse malattie ereditarie come diabete, cancro e ipertensione. Il seguito alla prossima puntata: possiamo scommetterci che l’estate prossima, nel 20.o anniversario della sua ‘rinascita’, Oetzi ci darà ancora sue notizie.

giovedì 5 agosto 2010

MO: Israele-Libano, calma dopo giorno di tempesta

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/08/2010

Il giorno dopo i tiri incrociati che hanno fatto scorrere di nuovo il sangue lungo il confine tra Israele e Libano, le parti in causa si scambiano segnali di distensione. Solo il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad soffia sul fuoco, accusando Israele di "aggressione", come fa pure la tv degli hezbollah 'foraggiata' da Teheran.

Ma l"Onu ed anche il governo di Beirut riconoscono che, martedì, le truppe israeliane non avevano sconfinato in Libano (anche se resta l'ipotesi che abbiano sparato per prime): l'albero per cui cinque persone sono morte era a sud del confine israeliano-libanese, la Linea Blu.

In serata, una riunione tripartita Israele-Libano-Unifil doveva stemperare la tensione e ripristinare un livello di fiducia accettabile fra le parti. Il ministro della difesa israeliano Ehud Barak assicurava di non "volere un'escalation". E Beirut e gli hezbollah si proclamavano pronti a reagire a "una nuova aggressione" israeliano, ma, intanto, rispettano gli inviti alla moderazione di Onu, Usa, Ue.

Tutto calmo, dunque? La fiammata di martedì non va trascurata, perche', a quattro anni dalla guerra che, nell'estate 2006, fece in 34 giorni 1200 vittime libanesi, in gran parte civili, e 160 israeliani, quasi tutti militari, ci sono stati da giugno in poi segnali di ripresa della tensione, fino ai razzi di lunedì contro Aqaba ed Eilath.

Molti i fattori che giocano, anche interni agli schieramenti. In Libano, si attendono le conclusioni dell'inchiesta sull'uccisione del premier Rafic Hariri, che potrebbe coinvolgere gli Hezbollah. Fra i palestinesi, resta il solco tra Abu Mazen e Hamas, che, a Gaza, e' contestata da integralisti oltranzisti. E Israele e' messo sotto pressione dai suoi amici americani ed europei perche' riavvii negoziati diretti, che, dal canto suo, la Lega araba subordina a precise condizioni.

Iran: esplosione contro Ahmadinejad, bomba o petardo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/08/2010

Qualcosa, ad Hamedan, e" certo accaduto, ieri, al passaggio dell'auto su cui viaggiava il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.: il lancio di una bomba a mano, come ha indicato dopo molte incertezze l'agenzia iraniana filogovernativa Fars, salvo poi rimangiarsi la versione, oppure lo scoppio di petardi in segno di giubilo con conseguente parapiglia. Di certo, Ahmadinejad e' rimasto illeso, in quello che forse era un attentato contro di lui. Secondo la ricostruzione fatta dal quotidiano al Khabar, una persona, subito arrestata, ha lanciato una granata contro il convoglio presidenziale, mancando pero' l'auto del presidente di un centinaio di metri e colpendo un minibus stampa. Nel seguito ufficiale, vi sono, o vi sarebbero, stati alcuni feriti, fra cui dei giornalisti.

Le versioni sono diverse, contrastanti, a cominciare dalla natura dell'ordigno, che sarebbe "artigianale" (ma fatto per uccidere?, o per fare festa?), e dal numero dei feriti e degli arrestati. Tutte le fonti, pero', concordano sul fatto che vi sia stata un'esplosione.

Le prime notizie sono venute da ambienti conservatori, vicini al presidente del Parlamento Ali Larijani. Nessuno ha finora rivendicato l'accaduto. Anzi, i Mujaheddin del Popolo, la principale organizzazione di lotta armata contro il regime iraniano, chiamati in causa da più parti, hanno recisamente smentito.

Ahmadinejad era appena arrivato ad Hamedan, circa 350 km a ovest di Teheran, per una visita di due giorni, proseguita poi secondo programma. L'episodio e' avvenuto lungo la strada dall'aeroporto allo stadio dove il presidente ha poi tenuto, come previsto, un discorso in cui s'e' scagliato contro Israele, addossandogli la responsabilita' dell'aumento di tensione letale, martedì', al confine con il Libano..
La tv ha regolarmente diffuso l'intervento, senza fare cenno a quanto accaduto: Ahmadinejad e' parso non turbato ed ha parlato per oltre un'ora. Ai Paesi arabi, il presidente ha chiesto di non negoziare con Israele, perche' -ha affermato- "non si puo' arrivare alla pace" trattando con "il regime sionista che e' prossimo a scomparire". Ma, curiosamente, non ha ripreso le accuse mosse lunedì agli "stupidi sionisti" che avrebbero "assoldato mercenari" per ucciderlo.

La provincia di Hamedan non e' teatro di particolari tensioni etniche e/o religiose, come ve ne sono, invece, in altre aree popolate da forti minoranze sunnite di etnia diversa da quella persiana. Il mese scorso, 28 fedeli erano stati uccisi in una moschea sciita da bombe sunnite.

La notizia del presunto fallito attentato e' oggetto d'analisi e commenti nel Medio Oriente e ovunque nel Mondo. Israele e', a dir poco, prudente, se non scettico. Il ministro degli esteri italiano Franco Frattini parla di "atto gravissimo": "Mi auguro che non se ne traggano conseguenze che potrebbero infiammare non solo l'Iran, ma l'intera Regione", in un momento in cui il Medio Oriente rischia d'essere teatro di una fiammata di violenza e le relazioni dell'Iran con i suoi interlocutori internazionali sono particolarmente tese. "Certo -aggiunge il ministro - e' un fatto che non contribuisce alla serenita' nel Grande Medio Oriente".

Prima ufficialmente smentito, poi confermato, la notizia dell'attentato, se vera, puo' testimoniare un deterioramento dei fermenti politici iraniani, a oltre un anno dalle contestatissime elezioni presidenziali del giugno 2009. Ma, vera o meno, il regime puo' cercare di sfruttarla per coagulare il consenso intorno al presidente, mentre s'inasprisce il confronto con gli Stati Uniti e le grandi potenze sui programmi nucleari potenzialmente militari di un Paese che non ha certo sete d'energia (e' il 5o esportatore di petrolio al Mondo). I mercati del greggio hanno solo sussultato alle voci d'attentato.

Teheran e' stata colpita da pesanti sanzioni Onu, Usa e Ue, ma il regime, contestato all'interno sia dai conservatori che dai riformisti, non ha ceduto d'un passo alle pressioni internazionali. Ahmadinejad cerca di alzare il confronto e sfida a un dibattito tv Barack Obama, ma non sa placare le proteste nella capitale di chi chiede più liberta e maggiore rispetto dei diritti umani: anche ieri ci sono stati tafferugli quando la polizia ha bruscamente disperso una manifestazione di familiari di detenuti.

SPIGOLI: Mr B, un voto, i seguaci e le tre prostitute

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/08/2010

“La fine del berlusconismo va in scena su uno sfondo di corruzione”: l’analisi di Le Monde arriva fuori tempo, nel giorno della confusione e dell’imbarazzo, per la stampa internazionale al capezzale dell’Italia. Dopo avere creduto a uno ‘show down’, i corrispondenti devono accettare le sfumature della politica italica, dove è sì o è no o ci si astiene. Così, FT e WSJ avvertono che “Berlusconi sta per sopravvivere a un voto delicato” e Les Echos constata che “Fini e i suoi seguaci optano per una tregua” (titoli analoghi, seguendo la traccia dei dispacci dell’Afp, su Nouvel Obs e Le Figaro). Invece il Times, quello di “dead man walking” e della “resa dei conti”, segnala che Mr B “lotta e minaccia di mandare l'Italia alle urne” (pure El Mundo: “Berlusconi progetta elezioni anticipate, se s’indebolisce il suo governo”). Un lancio un po’ datato dell’Ap depista molti siti statunitensi: “La rottura di Berlusconi con un ex alleato potrebbe segnare l’inizio della fine. Il futuro del premier è incerto”. Com’è difficile stare al passo con le nostre beghe! A gettarsi su scandali e sesso, invece, non si sbaglia mai. Times a parte, la stampa britannica non esita: Guardian, e pure Independent e Telegraph: “Berlusconi affronta nuove accuse sessuali. Secondo una teste, è stato a letto con tre donne insieme”. E il Daily Mail gioca al rialzo: Mr B “accusato di gioco a quattro con prostitute”.

mercoledì 4 agosto 2010

SPIGOLI: Times, se Mr B va fuori "un bene per l'Italia"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/08/2010

Il Times di Londra ci va proprio giù duro, su Mr B e il suo governo che perde pezzi e consensi. Dopo il paragone alla Sean Penn con Dead Man Walking, ecco un editoriale con “la resa dei conti”: il dramma è alle scene finali, Berlusconi è forse all’epilogo e se così fosse “sarebbe una buona cosa per l’Italia”. Anche il Telegraph dedica un commento di Ambrose Evans-Pritchard all’Italia “intrappolata in corsia lenta”, mentre “la crisi politica s’aggrava” e i contraccolpi economici e finanziari possono essere imminenti. In generale, la stampa internazionale alimenta grande attesa sul voto di sfiducia al sottosegretario Caliendo, ma denuncia pure confusione e incertezza. Molti parlano di “voto critico” o “voto chiave”, come WSJ, Guardian, El Pais, Le Figaro, Nouvel Obs, etc.. FT ammette un “senso di confusione totale” e vede “Fini in posizione difficile”; e l’Economist si interroga se l’ex leader di An “e' fuori, o ancora mezzo dentro?”. Anche Le Monde tratta quello che definisce “il paradosso Fini: il delfino di Berlusconi diventa suo avversario” (e pure El Pais insiste sul ruolo del presidente della Camera). Abc, invece, punta su Beppe Grillo: “Un comico italiano si presenta candidato alle elezioni”. Beh, che c’è di nuovo? Non è certo il primo e, purtroppo, non sarà l’ultimo…

martedì 3 agosto 2010

Iraq: la 'nuova alba' Usa lascia il caos, guerra sui morti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/08/2010

Barack Obama la canta chiara agli iracheni: “Non crediate, tirandola all’infinito nelle trattative per la formazione del governo e intensificando gli ammazzamenti, che gli americani restino più a lungo nel vostro Paese”. Le forze da combattimento statunitensi lasceranno l’Iraq entro la fine di agosto "come promesso e come previsto": il presidente lo dice ad Atlanta, a un convegno di reduci, mentre la sua Amministrazione cerca di contrastare, a suon di cifre, l’immagine dell’Iraq come di un Paese dove la violenza –90 mesi dopo l’invasione americana- è fuori controllo e in aumento.

Nella politica estera degli Stati Uniti, quello che conta oggi in funzione delle elezioni di midterm del 2 novembre sono l’Afghanistan e l’Iraq. Dall’Afghanistan, non c’è verso di pensare a ritirarsi tanto le cose vanno male – andarsi a leggere i documenti su Wikileaks per credere –: la promessa d’avviare lo sganciamento nell’estate 2011 appare già ottimista. E Obama non vuole "lasciare il Paese in mano ai talebani".

Ma il presidente non vuole neppure venire meno alla promessa di realizzare l'operazione New Dawn, cioè Nuova Alba, ovvero di completare, entro agosto, il ritiro dall’Iraq delle truppe combattenti, anche perché ne ha bisogno per completare il ‘surge’ in Afghanistan e portare a 96mila uomini il contingente anti-taleban. E non conta se a Baghdad, cinque mesi dopo le politiche, un governo non è stato ancora formato e il parlamento s’è riunito una sola volta per pochi minuti, mentre la violenza nel Paese, quale che ne sia la matrice, terroristica, integralista o politico-etnico-religiosa, è martellante.

Ad Atlanta, il presidente ricorda: "Da candidato alla presidenza ho giurato che, se fossi stato eletto, avrei messo una fine responsabile alla guerra in Iraq. Poco dopo il mio insediamento, ho annunciato la nostra nuova strategia per una passaggio totale del controllo del Paese agli iracheni”. E scandisce: "Sono stato chiaro sul fatto che entro la fine di agosto la missione americana da combattimento sarebbe terminata. Ed è esattamente ciò che faremo, come promesso e come previsto".

Le truppe americane, dunque, lasceranno il Paese, anche se la situazione laggiù non è né stabile né sicura: sul terreno, resteranno 50mila uomini per completare l’addestramento delle truppe irachene -erano 144mila quando Obama entrò alla Casa Bianca-.

E l’esercito americano non esita a polemizzare con i ministeri iracheni della difesa, dell’interno e della sanità, che sostengono che il mese di luglio, con 535 morti, di cui 396 civili, è stato il più cruento nel Paese da oltre due anni. In un comunicato, i militari americani mettono i numeri in riga: 222 morti, di cui 161 civili, e 782 feriti, di cui 526 civili, oltre a 55 caduti fra le forze di sicurezza irachene e 2010 feriti e sei caduti fra i soldati Usa con 201 feriti”. Ma la puntualizzazione americana è controproducente: vogliamo forse considerare ‘normale’ un Paese dove, in un mese, la violenza terroristica e politica fa ‘solo’ 283 morti e oltre 3mila feriti?

E mentre il vice di Obama Joe Biden dice che “il partito del caos” a Baghdad “ha fallito, anche l’Iraq conosce una sua Wikileaks: Lady Eliza Manningham-Buller, l’ex capo dell’ MI5 britannico, il servizio di 007, diffonde una lettura assai critica dell’invasione del 2003: ha aumentato di molto la minaccia di attacchi terroristici e ha radicalizzato i giovani musulmani nel Regno Unito, oltre ad aprire ad al Qaida le porte dell’Iraq dove prima non c’era.

Nr B, il dead man walking e il tramonto del latin lover

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/08/2010

Ci sarà mai qualche relazione tra il fatto che il il Times di Londra metta in home page sul suo sito “il tramonto del latin lover”, con tanto di foto di Bruno Vespa, che c’entra sempre, ma qui non si capisce bene che cosa c’entri, e che definisca, in altro articolo, Berlusconi un “dead man walking”, l’uomo morto che cammina, cioè il condannato a morte che s’avvia all’esecuzione. Non siate maliziosi!, è certo solo una coincidenza. Complice un dispaccio dell’Afp, il sondaggio della rivista gastronomica e turistica ‘Vie del Gusto’ sui latin lovers “stupidi, puerili e inadeguati” fa il giro del mondo –titoli pure su Le Figaro e Libération-, mentre le acrobazie politiche italiane sul filo della separazione ‘Berlusconi – Fini’ continuano ad appassionare la stampa internazionale, che, come fa il Times, tende a essere (prematuramente?) ultimativa. Ma FT, che si diletta di citazioni dotte (“Et tu, Gianfranco?”, dove Mr B è Cesare e Fini Bruto), si limita a constatare che “i ribelli mettono in forse il fato del premier”; ed anche El Pais ha un editoriale prudente (“Una brutta faccenda”). Intervistato da Abc, Adolfo Urso dice che “la politica italiana ha bisogno di sostituire Berlusconi”. Il quale, però, ci assicura il Telegraph, “se la ride della crisi a un party per parlamentari donne”. Vedete?, la storia del tramonto del latin lover è tutta una balla...

domenica 1 agosto 2010

SPIGOLI: Grands Tours del XXI Secolo e danni del presente

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/08/2010

Alla scoperta delle bellezze d’Italia; e purtroppo pure delle brutture. I Grands Tours del XXI Secolo ‘rivisitano’ i luoghi senza tempo della Penisola, ma, se riscoprono il fascino del passato, ne denunciano pure i danni del presente. Il WP pubblica una Reuters che lancia un grido d’allarme ambientalista per Villa Borghese: “La Città Eterna alle prese con un vandalismo infinito”. Così “l’SOS internazionale da 25 milioni di euro per la salvezza del Colosseo” viene salutato con favore e con impazienza in Europa (Les Echos, El Mundo e molti altri) e in America (USAToday, “L'Italia si rivolge ai privati per mettere in ordine il Colosseo”). Nella mappa dell’Italia dei tesori d’arte e delle vacanze, il Telegraph racconta che il professor John Burland ha risolto il mistero della Torre di Pisa, quella “che pende che pende e mai non vien giù”, mentre il Guardian a Venezia s’accorge che l’hotel immortalato da Thomas Mann riaprirà come complesso di appartamenti di lusso. E l’SFC guida i suoi lettori californiani verso Verona, “la città dell’amore”, ovvio e un po’ banale, ma poi consiglia pure le Cinque Terre. Il Telegraph non trascura il turismo un po’ kitch e familiare, tessendo l’elogio di Albarella e persino di Alassio, “la riviera dimenticata” (dagli italiani, figuratevi dagli inglesi che non l’hanno mai scoperta: magari, la prossima Miss Muretto sarà una bellezza d’Albione).