Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/08/2010
In una delle strisce più recenti di Garry B. Trudeau, il cartoonist ‘liberal’ che ha creato Doonesbury, un sergente nero americano passa le consegne a un capitano dell’esercito iracheno, baffi e basco, proprio mentre la base appena affidata alla sicurezza irachena subisce un attacco terrorista. “Dov’erano le sue guardie?”, chiede il sergente irritato. “Sono spiacente di informarla che avevano lasciato i loro posti per giocare a calcio”, risponde formale il capitano. E, di fronte allo scoramento del sergente, aggiunge: “E siete stati voi ad addestrarle… Che imbarazzo per voi..”.
La striscia di Trudeau rappresenta la rassegnata consapevolezza degli Stati Uniti, che s’apprestano a ritirare dall’Iraq, entro il 31 agosto, tutte le proprie truppe combattenti, lasciando la sicurezza del Paese nelle mani di iracheni da loro addestrati, ma poco affidabili. E le cronache da Baghdad lo confermano giorno dopo giorno.
Ieri, un attentato kamikaze ha fatto oltre 50 morti –pare 59- e oltre cento feriti –i bilanci sono sempre labili e imprecisi- fra centinaia di giovani venuti ad arruolarsi nell’esercito. Il terrorista, con addosso un giubbetto esplosivo, è riuscito ad avvicinarsi al quartier generale dell’11.a divisione. Un portavoce militare iracheno ha ammesso che la piazza teatro dell’arruolamento non era adatta perché troppo trafficata e mal difendibile.
L’attacco è avvenuto il giorno dopo la sospensione dei colloqui per la formazione del nuovo governo iracheno, in corso senza esito dalle elezioni di marzo, cioè da cinque mesi. Le due principali formazioni politiche, quella dell’ex premier Iyyad Allawi, vincitore di misura del voto, e quella del premier uscente Nuri al Maliki, hanno rotto le trattative (al Maliki non vuole che il rivale gli succeda).
Inevitabile pensare a un nesso tra la rottura e l’attacco, il più grave da molto tempo a questa parte. Man mano che la situazione politica s’incancreniva, nel consueto intreccio di interessi politici ed economici, ma soprattutto religiosi ed etnici, gli attentati salivano d’intensità, contro militari, poliziotti e vigili: il 18 luglio, un’esplosione a Baghdad aveva ucciso 39 miliziani governativi anti al-Qaida e civili.
A Washington, il presidente Barack Obama tiene la barra fissa, nonostante i sondaggi confermino che l’emorragia di popolarità non s’arresta: la Gallup gli dà il 44% di consensi, il minimo da quando è alla Casa Bianca, in un poll fatto al momento del via libera alla moschea vicino a Ground Zero. L’Iraq e l’Afghanistan sono due grane grosse, ma Obama conferma le scadenze: il 31 agosto ci saranno in Iraq solo più 50 mila istruttori americani; ed entro il 31 luglio 2011 inizierà il ritiro
delle truppe da combattimento dall’Afghanistan, dove prosegue lo stillicidio di perdite della coalizione –tre i caduti ieri, in due episodi diversi-. C’è fermento fra i militari e il presidente sa già che presto dovrà trovarsi un segretario alla difesa nuovo perché Robert Gates, il repubblicano mantenuto a quel posto, se ne andrà “appena certo che il ritiro dall’Afghanistan possa cominciare”.
A Baghdad il terrorismo di al Qaida, prima dell’invasione assente, fa stragi. A Kabul i soldati muoiono. I comici, anche quelli amici, lo prendono in giro. Obama fa una pausa (da domani, ferie in famiglia) e prepara le elezioni di midterm del 2 novembre e i prossimi impegni internazionale (i vertici del Pacifico e quello a Lisbona il 20 novembre con l’Ue “partner per la crescita e nella lotta al terrorismo”). Sull’agenda, l’economia resta al primo posto: la Casa Bianca riconosce che i progressi finora fatti non bastano a riparare i danni della recessione, specie sul fronte dell’occupazione, e prevede 800mila nuovi posti dall’energia pulita entro il 2012.
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