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venerdì 30 marzo 2012

Siria: Lega araba, sì a piano Onu; Assad, ok, ma...

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/03/2012

Riuniti a Baghdad, i leader arabi si dicono solidali col popolo siriano, ma non decidono se armare o meno gli oppositori del regime del presidente Bashar al-Assad, le cui forze proseguono l’offensiva in diverse città del Paese –oltre venti le vittime di giornata, otto i militari-. Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon lancia un appello al presidente siriano perché accetti e applichi senza indugi il piano di pace dell’inviato speciale dell’Onu Kofi Annan, avallato dalla Lega araba. Ma, in un messaggio al vertice dei Brics, a New Delhi, al-Assad afferma che Damasco e' pronta ad accettare il piano in sei punti e “non risparmierà gli sforzi” perché funzioni”, ma ha da fare qualche "osservazioni" –quali, non viene detto-.

Al Vertice, convocato a Baghdad per la prima volta dopo oltre vent’anni, solo la Tunisia, il cui governo è espressione della Primavera araba dello scorso anno, chiede l’uscita di scena di al-Assad. L’Arabia saudita e il Qatar, favorevoli ad armare l’opposizione, snobbano la riunione, inviandovi delegazioni di secondo piano. Il premier iracheno Nouri al-Maliki è recisamente contro la fornitura di armi: “La nostra esperienza ci dice che ciò condurrebbe a una guerra regionale o internazionale” e preparerebbe il terreno “a un intervento armato straniero in Siria, il che “metterebbe a repentaglio la sovranità d’un paese arabo fratello”. Di segno ben diverso il discorso del presidente tunisino Moncef Marzouki: “Bisogna accrescere la pressione e convincere gli ultimi alleati” di al-Assad “che il regime è morto e che bisogna porvi termine”. E il presidente del Consiglio nazionale transitorio libico Mustafa Abdeljalil invita “a prendere una posizione forte per risolvere la crisi”.

L’incontro di Baghdad è carico di significati e denso di novità portate dal vento di rinnovamento che soffia nel Mondo arabo: è il primo nell’Iraq del dopo Saddam; e segna il ritorno qui dell’emiro del Kuwait, vent’anni e più dopo l’annessione irachena del suo Paese. E ancora: l’ultimo Vertice della Lega araba s’era svolto alla Sirte, in Libia, nel 2010 ed era stato presieduto dal dittatore libico Muammar Gheddafi, che vi aveva invitato, unico leader occidentale, il premier italiano Berlusconi.

La Siria a Baghdad non c’é, essendo stata sospesa dalla Lega a causa della sanguinosa repressione della protesta popolare, che va avanti da oltre un anno. Nella dichiarazione conclusiva, i leader arabi appoggiano “il legittimo desiderio di libertà e democrazia del popolo siriano”, chiedono una transizione pacifica, denunciano “violenze, omicidi e spargimenti di sange” e puntano su “una soluzione politica attraverso negoziati nazionali senza ingerenze straniere”. I Brics, invece, considerano “il dialogo la sola risposta” alle crisi siriana e iraniana.

Il piano di Annan, condiviso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, prevede lo stop alla violenza, l’invio di aiuti umanitari e la liberazione di quanti sono detenuti in modo arbitrario. Sul terreno, però, le cronache restano cruente: nel giorno del maggiore flusso di rifugiati siriani in Giordania, oltre 3000, l’Onu stima a un milione i bisognosi di assistenza e il Belgio chiude l’ambasciata.

Ma la violenza non è solo siriana: a Baghdad, un obice di mortaio cade nei pressi del Vertice, senza fare vittime. Nonostante misure di sicurezza eccezionali, gli jihaddisti iracheni mostrano la capacità di costituire una minaccia per i leader arabi.

giovedì 29 marzo 2012

Razzismo: Haima l'irachena, il suo hijab e il cappuccio di Trayvon

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/03/2012

Quasi come in un episodio di Ncis, serial americano di successo sulle tv italiane: un’irachena di 32 anni, Haima Alawadi, madre di 5 figli, è stata massacrata di botte a casa sua, a El Cajon, vicino a San Diego, nel Sud della California. Accanto a lei, riversa in una pozza di sangue, c’era un biglietto con la scritta ‘torna al tuo Paese, sei una terrorista”. Qualche tempo fa, Ncis aveva proposto la vicenda di una giovane mamma irachena minacciata (ma, in tv, erano i suoi familiari a volerla punire per avere sposato un soldato Usa).

Il decesso di Haima, sopravvenuto quando i medici hanno staccato la spina, dopo giorni d’agonia, ripropone il tema dei delitti dettati dall’odio razziale ed è l’episodio più grave di violenza anti-islamica, dopo gli anni immediatamente successivi agli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001.

La Alawadi era in America dalla metà degli Anni Novanta, venuta via dall’Iraq dopo la Guerra del Golfo e prima dell’invasione del 2003. Le indagini, finora senza esito, non escludono nessuna pista: la polizia parla di “crimine isolato”, ma l’ipotesi del delitto razziale pare la più fondata: settimane fa, fuori dalla casa, qualcuno aveva già lasciato un avvertimento, che la famiglia non aveva denunciato (un biglietto con scritto “Questo è il nostro Paese, non il vostro, terroristi”); e l’assassino non ha preso nulla.

A trovarla, colpita più volte, probabilmente con un attrezzo di ferro, era stata Fatima, figlia adolescente. Haima andava in giro con il velo, l’hijab. Il marito collabora, come mediatore culturale, con l’esercito Usa. S’erano da poco trasferiti in California dal Michigan.

El Cajon ospita la seconda comunità di iracheno-americani, dopo quella di Detroit. Sul web, è subito scattato il parallelo tra l’hijab di Haima e il cappuccio di Trayvon, teenager di colore ucciso in Florida dal capo di una ronda di quartiere che si sentiva minacciato perché quel ragazzo disarmato aveva un cappuccio in testa (l’assassino è tuttora libero). Per Trayvon, ci sono state proteste e la commozione del presidente Obama; per Haima, martedì, il dolore della comunità d’origine araba della contea, oltre 50 mila persone.

E il filo rosso sangue dei delitti dell’odio e della paura scende fino al Cile, dove ieri è morto Daniel Zamudio, 24 anni, gay, torturato un mese fa da un gruppo neo-nazista: lo avevano seviziato per oltre sei ore, staccandogli un orecchio, bruciandogli una gamba e tracciandogli col vetro svastiche sul corpo (tre giovani tra i 19 e i 24 anni sono in carcere per quella barbarie).

mercoledì 28 marzo 2012

Immigrazione: Italia, boom asili, boomerang respingimenti

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 28/03/2012

Uno scorre le cifre e pensa: che brava l’Italia, che era fra gli ultimi della classe europea nel dare asilo a chi fugge la guerra, la persecuzione e la fame e, invece, è balzata d’un colpo in testa alle classifiche europee nel 2011. Poi, arrivano quei pignoli dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, l’UnHcr, quelli che hanno la voce ferma e lo sguardo dritto di Laura Boldrini, mal sopportati dalla ‘banda del ghigno’ La Russa / Maroni ai tempi loro, a spiegarci che il boom del 2011 non è stato un ravvedimento virtuoso, ma piuttosto un boomerang dopo il giro di vite del 2010, quando le politiche restrittive attuate nel Canale di Sicilia da Italia e Libia avevano drasticamente ridotto gli arrivi. Poi, nell’Africa del Nord è successo quel che è successo e in Libia ancor peggio e quelli che non avevano potuto partire l’anno prima sono partiti l’anno dopo, insieme agli esuli d’annata.

E mentre si ragiona sui picchi delle domande di asilo, che sono ricorrenti, la senatrice olandese Tineke Strik ci preannuncia risultati “agghiaccianti” dall'inchiesta condotta dal Consiglio d'Europa sulla morte nel marzo 2011 di 63 persone che fuggivano via mare dalla Libia. Una tragedia avvenuta nel Mediterraneo, in un tratto di mare in cui erano presenti unità italiane, maltesi, dell'Ue e della Nato. “Chi è responsabile di quelle 63 vite perdute?” è la domanda cui prova a rispondere il rapporto che la Strik s'appresta a presentare, dopo nove mesi d’indagini e accertamenti, per conto dell’Assemblea parlamentare dell’Istituzione di Strasburgo, raccogliendo le testimonianze dei superstiti, ma anche degli equipaggi delle unità di ricerca e salvataggio. La senatrice olandese si definisce “scioccata” da quanto accertato.

Orrori che vengono a galla. Errori di giudizio che un anno di generosità non cancella. Nel 2011, le richieste di asilo in Italia sono state circa 36mila per l’UnHcr e oltre 34mila per l’Ue, che ha appena pubblicato i dati Eurostat. Ne risulta che l’Italia è stata il primo paese europeo per numero di domande di asilo politico accolte lo scorso anno per motivi umanitari. Su un totale di 7.155 domande di rifugio politico accettate dall'Italia, ben 3.085 sono state giustificate con ragioni umanitarie. Eurostat conta 301mila richiedenti asilo nell'Ue nel 2011; e l'Italia è terzo fra i 27 per numero di richieste ricevute.

Rispetto al 2010, si sono registrate nell'Ue 42mila domande d'asilo in più: il Paese che ne ha ricevute di più è la Francia, con 56.250, seguito dalla Germania, 53.260, e, appunto, dall'Italia, 34.115. Su un totale di 301mila domande, quelle accolte sono state 59.465: una su cinque.

Fra le domande accettate per motivi umanitari, l’Italia è in testa con 3.085, davanti a Olanda, 2.050, e Germania, 1.910. Nei 27, le richieste accettate per motivi umanitari sono state in totale 9.070, molte meno rispetto alle altre due motivazioni. Le richieste accettate per lo statuto di rifugiato politico sono state 28.995, 21.400 per la protezione sussidiaria.

Nei 27, i Paesi da cui provengono i richiedenti asilo sono principalmente l'Afghanistan (28.005), la Russia (18.245) e il Pakistan (15.700). In Italia, invece, i richiedenti sono originari per lo più della Nigeria (6.210), della Tunisia (4.560) e del Ghana (3.130).

Stefano Manservisi, direttore generale per gli affari interni della Commissione europea, ha recentemente dichiarato che l'80% dei richiedenti asilo nell'Unione si concentra in quattro paesi: Germania, Francia, Gran Bretagna e Svezia. Ma picchi italiani già si ebbero nel 2008 (oltre 30.000), prima che venissero effettuati i respingimenti in alto mare; e nel 1999 (oltre 33.000), a seguito della crisi del Kosovo.

martedì 27 marzo 2012

Ostaggi: India e non solo, trattare sempre, liberarli spesso

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/03/2012

Per Paolo Bosusco, si continua a trattare “in un clima positivo”, dicono i negoziatori. La liberazione, sabato, di Claudio Colangelo, uno dei due escursionisti italiani rapiti in India, nello Stato dell’Orissa, il 17 marzo, ridà vigore agli sforzi per portare a casa l’organizzatore di trekking rimasto nelle mani dei guerriglieri maoisti.

Al premier Mario Monti, che lo incontra a Seul, a margine del Vertice sulla sicurezza nucleare, il premier Manmohan Singh garantisce il proprio impegno per la liberazione dell’ostaggio piemontese. E Monti esce dal colloquio fiducioso in una “soluzione amichevole” pure della vicenda dei due marò detenuti nel Kerala perché accusati di avere ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati. I premier si terranno in contatto fino a che i problemi non saranno risolti.

Di a che punto siano le trattative per la liberazione di Bosusco, come quelle per gli altri nove italiani tenuti ostaggio nel mondo, non si sa assolutamente nulla. Il principio è che non si viene a patti con i terroristi. Ma l’ambiguità, quasi inevitabile, di queste situazioni è tutta nelle parole del ministro degli esteri Giulio Terzi: “I canali sono aperti –dice per Bosusco, ma vale per tutti-, ma non abbassiamo la guardia”. Insomma, negoziamo e, se serve, paghiamo, senza stare a dirlo in giro.

In questi casi, il lieto fine non è assicurato neppure quando tutto sembra fatto: basta ricordare il caso di Nicola Calipari, l’agente segreto ucciso a Baghdad il 4 marzo 2005 dal ‘fuoco amico’ d’un marine americano, dopo avere negoziato e ottenuto la liberazione di Giuliana Sgrena, una giornalista sequestrata; o quello più recente dell’ingegnere piemontese Franco Lamolinara, ucciso l’8 marzo nel Nord della Nigeria con un compagno di prigionia durante un blitz delle squadre speciali britanniche e nigeriane, mentre i servizi segreti italiani ne stavano forse trattando la liberazione previo riscatto. Monti da Seul non nega il negoziato, dicendo che “con prove muscolari –un riferimento al blitz in Nigeria?- ci sono meno possibilità di successo”.

Colangelo, prima di lasciare l’India, racconta i “giorni difficili” nella selva tropicale, caldo e marce. E dice: “Sto bene. Spero che ora liberino anche Paolo”. I ribelli maoisti ribadiscono: “sarà rilasciato solo se saranno accolte almeno due delle nostre richieste”, tra cui la scarcerazione della moglie del loro leader e di altri detenuti e la punizione di militari responsabili di violenze su donne; “ci devono prendere sul serio”. Il governo dell’Orissa replica con una flebile intimazione: “Rilasciate l’ostaggio!” (e, se no, che succede?).

La liberazione di Colangelo sarebbe stata una prova di buona volontà, dopo che, sabato, la situazione s’era complicata con il sequestro di un deputato dell’Orissa, che aveva portato –s’era detto- a una sospensione del negoziato. Il leader dei guerriglieri Sabyasachi Panda aveva condannato il rapimento, giudicandolo una mossa sbagliata in quel momento, ma aveva pure criticato le autorità per non avere rapidamente risolto la questione degli italiani: un pioniere della solidarietà come Colangelo e uno “spirito libero” che gioca a scacchi con i suoi carcerieri come Bosusco. Il loro sequestro sarebbe stato fortuito, perché i maoisti volevano catturare elementi dei servizi d’intelligence –ma è difficile scambiare due italiani per due indiani-.

I rovelli indiani del governo Monti non si riducono a ‘portare a casa’ Bosusco e i due marò. Ci sono pure Tomaso Bruno di Albenga e Elisabetta Boncompagni di Torino, condannati all’ergastolo per avere ucciso un compagno di viaggio e detenuti in un carcere di Varanasi da due anni, in attesa del processo di appello. Anche di loro si occuperà il sottosegretario agli esteri Staffan De Mistura, che sta per tornare in India.

Le situazioni indiane, pur profondamente diverse l’una dall’altra –la detenzione dei marò non può essere confrontata con il sequestro di Bosusco-, lontane e non correlate, non sono le uniche spine del governo Monti alla voce ‘ostaggi’: ci sono altri nove di italiani da portare a casa, a cominciare da Rossella Urru, 30 anni, la cooperante sarda rapida nel sud dell’Algeria in ottobre e di cui s’era erroneamente sperata, a febbraio, la liberazione. Nella stessa zona, resta sequestrata dal febbraio 2011 Maria Sandra Mariani, 53 anni. Per la Urru e la Mariani, si sospetta al Qaida per il Maghreb islamico. Un gruppo talebano tiene invece prigioniero Giovanni Lo Porto, un cooperante siciliano rapito il 19 gennaio nel Punjab, in Pakistan. E poi ci sono i sei marittimi della ‘Enrico Ievoli’, trattenuti da pirati somali dal 27 dicembre.

domenica 25 marzo 2012

Usa 2012: Santorum vince Louisiana; 'spara' a Romney, non a Obama

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 25/03/2012

Quanto ha scoperto che una sua fan lo incitava a sparare, in senso letterale, al presidente Obama, Rick Santorum, integralista cattolico e italo-americano, candidato alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, s’è infuriato: lui, per guadagnarsi un po’ di voti, era andato a tirare con la pistola in un poligono a West Monroe, nella Louisiana, e, con le cuffie addosso, non aveva sentito quell’incitamento a mirare facendo finta che la sagoma fosse Obama. Quando glielo hanno riferito, s’è irritato: “Sono affermazioni terribili e orribili, sono contento di non averle udite”. Anche perché lui, in questo momento, ‘spara’, metaforicamente, più sul rivale di partito Mitt Romney, milionario e mormone, che sul presidente democratico.

Con o senza poligono, Santorum rivince al Sud, in Louisiana, ma Romney non perde quasi nulla. Il successo dell’integralista cattolico non sposta, infatti, di molto la conta dei delegati in vista della convention di Tampa, che, a fine agosto, consacrerà il candidato repubblicano alla Casa Bianca: dei 46 dello Stato di New Orleans, infatti, solo 20 sono stati assegnati nelle primarie di ieri, ripartiti in modo proporzionale, mentre gli altri saranno assegnati in un secondo tempo.

L’italo-americano s’è imposto con circa il 40% dei suffragi –i dati non sono definitivi-, mentre Romney non è andato oltre il 30%.. L’ex senatore della Pennsylvania s’è finora imposto in 11 Stati, l’ex governatore del Massachusetts in 14 e in una mezza dozzina di territori. Ma, in termini di delegati, il mormone ne ha più del doppio del cattolico e la metà circa di quelli necessari (1144) per garantirsi la nomination a Tampa.

L’esito del voto della Louisiana consente una doppia lettura politica: conferma che, al Sud, dove l’elettorato repubblicano è più conservatore e religioso, Romney non fa proprio presa –ha sempre perso, in questa regione dell’Unione-; e conferma pure che il terzo incomodo di questa corsa, l’ultra-conservatore Newt Gingrich, ex speaker della Camera negli Anni Novanta, è fuori gioco, perché, a parte i successi in South Carolina e Georgia, cioè a casa sua, viene sempre battuto da Santorum sul suo terreno d’elezione (poco più del 20% in Louisiana). Quanto al libertario Ron Paul, lui, fin dall’inizio, è in lizza per il principio, più che per la vittoria: finisce di nuovo ultimo, com’è scontato, qui.

Dopo la Louisiana, Romney resta il favorito, oltre che il battistrada, e Santorum è sempre più il suo unico vero rivale, con la sua campagna tutta basata sulla difesa dei valori cristiani e familiari, che fa presa, oltre che al Sud, nella ‘cintura della Bibbia’ e negli ambienti ultra-conservatori ed evangelici. Crescono le pressioni su Gingrich perché si ritiri e consenta all’ex senatore di essere l’unico portabandiera della destra repubblicana.

Santorum, per il momento, fa più campagna contro Romney che contro il presidente Obama, che, anzi, giudica migliore del suo rivale, contro cui lancia a ripetizione l’accusa di essere troppo moderato, di non essere “un autentico conservatore”. Immediata, e facile, la replica di Romney: “Santorum preferisce un democratico a un repubblicano alla Casa Bianca”.

“Qui, in Louisiana –ha detto l’italo-americano, a urne chiuse-, Romney ha speso un sacco di soldi, ma gli elettori non si sono lasciati impressionare dalle sue menzogne e dalla sua campagna negativa e hanno votato per un vero conservatore”. E, su twitter, condivide coi suoi followers una preghiera per Dick Cheney, l’ex vice-presidente di George W. Bush, cardiopatico, che ha appena subito un trapianto di cuore dopo diversi by-pass.

Ma i repubblicani moderati e gli osservatori indipendenti continuano a ritenere che il ‘Santo’, come lo chiamano i media Usa, con la sua campagna contro l’aborto, la contraccezione, le unioni omosessuali, sia troppo a destra per fare presa, nelle presidenziali, sui centristi. Una sua candidatura voterebbe, cioè, i repubblicani alla sconfitta il 6 novembre.

Dopo una settimana di pausa, la corsa alla nomination riprenderà il 3 aprile, nel Wisconsin, a Nord, e nel Maryland e nel distretto di Washington, sulla costa atlantica: tre terreni favorevoli, sulla carta, a Romney. Ma la conta dei delegati, che ne dà più di 560 al mormone contro circa 260 al cattolico, resterà ancora lontana da quota 1144.

venerdì 23 marzo 2012

SPIGOLI: corruzione, l'Europa bacchetta l'Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/03/2012

E dire che l’Unione europea ha affidato la sua Agenzia anti-corruzione, l’Olaf, a un italiano, il trentino Giovanni Kessler, che sta lavorando bene e prepara un codice penale europeo. Il Greco, il gruppo anticorruzione del Consiglio d’Europa, che comprende 48 Paesi, tra cui gli Usa, sollecita Governo e Parlamento a irrobustire le regole in materia di concussione e di finanziamento ai partiti. La ‘bacchettata’ degli 8 ispettori, per ora, è solo in bozza: sarà resa pubblica con le controdeduzioni italiane. Ma l’entrata in scivolata del Greco fa rumore: gli ispettori individuano 16 pecche nelle norme italiane, ben 7 sul finanziamento dei partiti. Il rapporto ci invita a “verificare” se il reato di concussione non sia stato applicato in modo “improprio rispetto al reato di corruzione”; e sollecita l’introduzione del reato di corruzione tra privati e del traffico di influenze, così da sanzionare il gioco delle raccomandazioni. E ci chiede di intervenire sul finanziamento dei partiti con misure idonee a garantirne la trasparenza ed a scoraggiare la corruzione. Dalla pubblicazione del documento, l’Italia avrà 18 mesi per adeguarsi. Dopo di che, il Consiglio d’Europa potrà intervenire con un richiamo formale oppure constatare che le pecche sono state sanate. Ma c’è poco da sperarci: il rapporto 2010 dell’Olaf vede l’Italia seconda solo alla Bulgaria nell’Ue per numero di indagini anti-corruzione condotte dall’Agenzia europea, 41, contro le 34 della Germania (e le zero della Danimarca).

giovedì 22 marzo 2012

Usa 2012: Romney in fuga dal 'Santo', Obama da De Niro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/03/2012

Sulla via di Tampa, Mitt Romney è a metà strada, dopo le primarie nell’Illinois vinte bene (45% dei voti). Ma Washington, e la Casa Bianca, sono molto più lontane e, forse, si riveleranno irraggiungibili. Tampa è la città in Florida dove, a fine agosto, ci sarà la convention repubblicana: lì, bisognerà arrivarci con 1144 delegati, per essere certi della nomination a candidato repubblicano nelle elezioni presidenziali del 6 novembre. Dopo l’Illinois, Romney ne ha quasi la metà, circa 550: per metterli insieme, gli ci sono voluti cento e più giorni, dall’inizio delle primarie nello Iowa il 3 gennaio; e forse ce ne vorranno quasi altrettanti, fino a giugno e alle primarie in California, perché la partita sia matematicamente chiusa. Ma le posizioni della corsa appaiono ormai definite.

In Illinois, dove i delegati in palio erano 54, da ripartire su base proporzionale, Romney ha battuto l’integralista cattolico Rick Santorum (35%), l’ultra-conservatore Newt Gingrich (12%) e il libertario Ron Paul (8%). Prima di questa conta, il sito specializzato RealClearPolitics attribuiva a Romney 516 delegati, a Santorum 236, a Gingrich 141 e a Paul 66.

L’italo-americano, che i media Usa chiamano ‘Santo’, deve sperare in un miracolo, anzi in due: uno per la nomination, l’altro per la Casa Bianca. Così, in vista delle primarie di sabato in Louisiana, va in una chiesa battista, dove il reverendo Dennis Terry ‘arringa’ i suoi fedeli contro gli omosessuali, le donne che abortiscono e i ‘liberals’, gli intellettuali di sinistra, e invita a buttare i non cristiani “fuori dagli Usa”. I fedeli applaudono e il ‘Santo’ applaude con loro: se c’è un buon dio, il miracolo non avverrà.

L’ex governatore del Massachusetts intasca l’appoggio di Jeb Bush, figlio e fratello d’un presidente. E fa un discorso sull’economia che è tutto un attacco contro Barack Obama: “Per 25 anni ho creato lavoro, ho prodotto ricchezza, ho fatto affari. Non puoi capire queste cose, quando sei un professore di diritto costituzionale…”.

Il ‘professorino’, però, si dà da fare. Attaccato per il ‘caro benzina’, coi prezzi alla pompa che s’avvicinano ai 4 dollari a gallone, più o meno un dollaro al litro, il presidente va in Nevada, New Mexico, Oklahoma e Ohio, a predicare la scelta delle energie alternative per rendere l’America meno dipendente dall’altrui petrolio.

Obama si lascia alle spalle le polemiche, artificiose, suscitate da una battuta di Robert De Niro, che, a un ‘pranzo di stelle’ pro- presidente, si chiede, lui sposato due volte a due donne nere, se “l’America sia pronta per una first lady bianca”. Gingrich si scatena contro il commento “razzista” e la Casa Bianca fa un passo indietro, definendo la battuta “inappropriata”.

La tempesta ‘politically correct’ non frena il rialzo di popolarità del presidente, che resta fortissimo online: il suo sito elettorale, in un mese, è stato cliccato da 4,2 milioni di visitatori, mentre i quattro aspiranti repubblicani insieme non ne hanno neppure tre milioni. E un sondaggio dà Obama davanti ai suoi rivali fra gli indipendenti di 10 Stati cruciali: nettamente su Romney, in doppia cifra su Santorum.

Usa 2012: Romney vince Illinois, è a metà strada

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 21/03/2012

Mitt Romney è (quasi) a metà della raccolta: non delle figurine, ché quella non la fa più da tempo (al massimo, lui e sua moglie collezionano figuracce, con le gaffes nei dibattiti e nelle interviste); ma dei delegati necessari per ottenere la nomination repubblicana alla Casa Bianca alla convention di Tampa a fine agosto. Gli ci sono voluti cento, e più giorni, dall’inizio delle primarie nello Iowa
il 3 gennaio; e forse ce ne vorranno quasi altrettanti, fino a giugno perché la partita sia matematicamente chiusa; ma le posizioni della corsa appaiono ormai definite.

I risultati dell’Illinois, appena giunti, non hanno riservato sorprese: Romney ha vinto con il 45% dei voti, davanti all’integralista cattolico Rick Santorum (35%), all’ultra-conservatore populista Newt Gingrich (12%) e al libertario Ron Paul (8%).

L’Illinois assegna 54 delegati, su base proporzionale e la ripartizione non è ancora ufficiale. Prima di questa conta, secondo il sito specializzato americano RealClearPolitics, Romney, di delegati, ne aveva 516 -1144 sono quelli necessari per garantirsi la nomination-, Santorum 236, Gingrich 141 e Paul 66: ciascuno più o meno la metà di chi gli sta davanti.

Finora, si sono pronunciati 26 dei 50 Stati dell’Unione e una mezza dozzina di territori: degli Stati, Gingrich ne ha vinti 14; Santorum, che nei giorni scorsi aveva infilato una tripletta in Kansas, Mississippi e Alabama, 10; Gingrich due.

Il successo nell’Illinois, lo Stato del presidente democratico Barack Obama, dove una sconfitta sarebbe stata per Romney una batosta, perché qui era nettamente favorito, ridà slancio alla corsa del milionario mormone, nonostante l’ex governatore del Massachusetts non convinca del tutto la base repubblicana, che non ne avverte forte la leadership. Romney, però, ha una campagna ben organizzata e, soprattutto, meglio finanziata di quelle dei rivali: per blindare l’Illinois, ha speso cifre da capogiro, fino a 21 volte di più rispetto a 'Santo', come i media chiamano l'italo-americano ex senatore della Pennsylvania.

Romney era reduce da due terzi posti consecutivi nel Sud, dietro non solo Santorum, ma anche Gingrich. E adesso è atteso da un altro test sulla carta più favorevole ai suoi rivali, la Louisiana, dove si vota sabato. Il pendolo della nomination potrebbe di nuovo battere per l’italo-americano o l’ex speaker della Camera, ma John King, capo della redazione politica della Cnn, ex corrispondente dalla Casa Bianca, sostiene da tempo che cambiare l’esito della corsa"non è impossibile, ma è molto, molto improbabile".

sabato 17 marzo 2012

Mafie: Malmstroem (Ue), giro di vite europeo, bene Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/03/2012. Altra versione su EurActiv.it

In Italia, la magistratura e le forze dell’ordine “fanno un buon lavoro” sul fronte del sequestro e della confisca dei beni della criminalità organizzata. E quando l’Ue avrà adottato le proposte ora presentate dalla Commissione europea, sarà loro possibile impedire che mafiosi e delinquenti “possano godersi, a distanza di anni, il frutto di guadagni illeciti tenuto fraudolentemente celato”. Cecilia Malmstroem, svedese, commissaria europea agli affari interni, intende venire presto in Italia per rendersi conto di persona di come funzionano “alcuni progetti legati a beni confiscati e al loro utilizzo sociale”: “So –dice a Il Fatto- che ce ne sono molti buoni esempi in Campania, Puglia e pure Sicilia”.

L’annuncio delle proposte della Commissione per migliorare gli strumenti di contrasto alle mafie ha coinciso con la decisione del Parlamento europeo, mercoledì, di creare una commissione per la lotta alla criminalità organizzata, che inizierà a lavorare a fine aprile. L’idea, approvata in plenaria dall’Assemblea di Strasburgo, parte da due eurodeputati siciliani, Rosario Crocetta, Pd, ex sindaco di Gela, e Sonia Alfano (Idv).

Signora Malmstroem, l'Italia è particolarmente esposta alla criminalità organizzata. Come valuta le misure già prese nel nostro Paese?

L’Italia ha una legislazione avanzata in questa materia e non dovrà cambiare granché per adeguarsi alla direttiva, una volta che essa sarà stata approvata e adottata. La legge italiana punta sui profitti della criminalità organizzata di stampo mafioso. Le mie proposte si applicano anche ad altri reati, come la corruzione e il cyber-crimine. Le disposizioni della direttiva toccheranno, quindi, un maggior numero di casi criminali e di settori del malaffare. Un elemento nuovo e importante è la possibilità, per le forze dell’ordine, di continuare ad indagare sui beni di un condannato, anche molti anni dopo la condanna definitiva.


Quali sono i principali obiettivi della sua iniziativa?

Le nuove norme europee mirano a rendere più efficace e diffusa la confisca di denaro, beni e altre proprietà acquisite tramite il crimine; e a rafforzare la capacità degli Stati di sequestrare beni che sono stati trasferiti a terzi, a rendere più facile la confisca anche quando l’indagato sia fuggito e a dare la possibilità alle autorità competenti di congelare temporaneamente beni che rischiano, altrimenti, di volatilizzarsi. Gli Stati dove sono in vigore norme più avanzate in termini di sequestro e confisca di proprietà criminali potranno mantenerle in atto”.


Che cosa conta di ottenere, con la sua proposta?

Favorire la confisca dei beni ostacolerà le attività illegali e sarà un deterrente per la criminalità, mostrando, di fatto, che il crimine non paga. E ciò proteggerà pure le nostre economie dalle infiltrazioni criminali e dalla corruzione. In tempi di crisi, è ancora più importante re-immettere il denaro finito nelle tasche dei criminali nell’economia legale. Recuperare beni e proprietà avrà, inoltre, un impatto sulle vittime del crimine, sui contribuenti e sulla società nel suo insieme. Una volta confiscati, i proventi del crimine potranno essere riutilizzati a scopo sociale o re-investiti per meglio fare rispettare la legge e prevenire la criminalità. Le nostre proposte, infine, garantiranno che le azioni per congelare e confiscare i beni siano bilanciate da misure a tutela dei diritti fondamentali.

Quali sono, in questo momento, gli ostacoli principali ad una cooperazione transnazionale tra magistrature e forze dell’ordine?

Le norme esistenti vengono applicate in maniere diverse e le attività di confisca e recupero dei beni sono ostacolate da differenze sostanziali tra le legislazioni nazionali. Noi miriamo a definire un più completo e coerente quadro giuridico per la confisca di beni e profitti provenienti dalla criminalità organizzata. Ciò semplificherà le norme esistenti e colmerà la lacune di cui, fino ad ora, beneficiano i criminali.

mercoledì 14 marzo 2012

Usa 2012: Santorum gioca il tris nel Sud

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 14/03/2012

Rick Santorum ne vince tre di fila, il Kansas, il Mississippi e l’Alabama, e rimette in discussione la vittoria finale di Mitt Romney, che, con il Super-Martedì, era tornato battistrada nella corsa alla nomination repubblicana per la candidatura alla Casa Bianca. Newt Gingrich non sfonda neppure nel suo Sud, dove ha vinto solo Georgia e North Carolina, e sembra fuori gioco, ma vuole rimanere in lizza. Ron Paul, il libertario, qui affonda, ma non se ne dà per vinto.

Giunta a metà strada, prosegue a quattro la corsa alla nomination repubblicana. Ma in realtà è gara a due, tra Romney, il mormone moderato, e Santorum, il cattolico ultra-conservatore, per giunta italo-americano.

Fronte Stati, s’è finora votato in 25 su 50, oltre che in una manciata di territori del Pacifico: Romney ha vinto 13 volte, Santorum 10, Gingrich due, Paul mai. Fronte delegati, che sono quelli che contano per ottenere la nomination, Romney viaggia tra i 470 e i 480, circa il doppio di Santorum, mentre Gingrich ne ha, a sua volta, circa la metà di Santorum e Paul è fermo a 64, la metà di Gingrich. Vi sono, poi, poche decine di delegati non assegnati. E sono attesi, in giornata, i risultati delle Hawaii.

Le posizioni appaiono delineate. Ma se Gingrich si ritirasse e i suoi delegati espressione d’un elettorato ultra-conservatore come quello di Santorum, passassero all’ex senatore della Pennsylvania le distanze tra Romney e il suo rivale si ridurrebbero sensibilmente. La corsa è dunque ancora aperta e incerta, anche perché restano da assegnare più della metà dei delegati -1144 ne servono per l’investitura della convention-: Si deve ancora votare negli Stati più popolosi, il Texas, New York, la California.

E i sondaggi fanno pure suonare campanelli d’allarme per il presidente democratico Barack Obama: l suo tasso di popolarità è di nuovo sceso sotto il 50% e, se l’Election day fosse oggi, Romney e Santorum non partono battuti. Ma si vota il 6 novembre e di cose ne possono ancora succedere un sacco. Magari gli elettori della Cintura della Bibbia, convinti che Obama sia musulmano, si arrendono all’evidenza che è cristiano: magari non integralista come loro, ma cristiano.

Monti-Merkel: l'emergenza non è superata, avanti così

Scritto per EurActiv.it il 13/03/2012. Altra versione su LIndro.it

In una giornata d’euforia per le borse europee, la notizia che l’agenzia di rating Fitch rivede al rialzo il rating della Grecia corona una serie di segnali d’ottimismo per l’uscita dell’Europa dalla crisi. E fa da sfondo all’incontro tra il premier italiano Mario Monti e la cancelliera tedesca Angela Merkel, che, a Roma, vede pure il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La Merkel e Monti smorzano, però, gli entusiasmi: “Abbiamo fatto un bel pezzo di strada, ma non siamo ancora in vetta”, avverte Angela; e “l’emergenza non è superata, i compiti non sono finiti”, rincara Mario.

La prima voce ottimista di questo 13 marzo europeo è quella di Mario Draghi, il presidente della Bce, che vede “chiari segni di stabilizzazione della situazione finanziaria”. Ora –aggiunge- tocca ai governi fare riforme strutturali che tengano insieme l’eurozona. E la Banca centrale europea non avverte rischi d’inflazione, nonostante le cifre appena pubblicate in Italia lascino pensare il contrario, con un’impennata del ‘carrello della spesa’.

In serata, poi, Fitch esprime il parere che la Grecia non corre più il rischio di fallire, dopo lo swap del debito concordato la scorsa settimana e l’aiuto concessole dai partner europei e dall’Fmi. La valutazione sale a B+, con prospettive stabili, anche se le elezioni politiche subito dopo la Pasqua ortodossa addensano nubi all’orizzonte.

La giornata di Monti è (quasi) tutta europea, divisa tra la riunione dell’Ecofin a Bruxelles, dove si discute, senza un’intesa, della tassa sulle transazioni finanziarie, la Tobin Tax, e dove il premier italiano riceve gli ormai consueti commenti positivi dei ministri delle finanze per i “progressi evidenti” fatti dall’Italia: bene l’asta dei bot, con rendimenti ancora in calo, e lo spread ancorato intorno a quota 300.

La Merkel arriva a Roma accompagnata e accolta dalle esortazioni dei federalisti ad accelerare il percorso verso la federazione europea, ma anche da proclami della destra ostili e bellicosi: la Giovane Italia paragona la sua visita “a una gita nella colonie” d’autarchica memoria, mentre La Destra di Francesco Storace vorrebbe “prenderla a pomodori”. Non succede nulla del genere, però: l’incontro con Monti a Palazzo Chigi avviene in un clima sereno e cordiale.

Nella conferenza stampa, Monti, per una volta, appare più preoccupato della politica –la riforma del lavoro che attraversa un mare in tempesta e l’incontro di giovedì con i leader della maggioranza- che dell’economia, anche se dice a chiare lettere che “non ci si può rilassare”: se il risanamento delle finanze dell’eurozona è fatto e, sostanzialmente, blindato con il Patto di Bilancio, ora c’è da pensare alla crescita. Per cooperare ad accelerarla, e a creare posti di lavoro, c’è “pieno accordo” tra Italia e Germania -assicurano i due leader-, in un contesto di relazioni bilaterali “di consolidata qualità” e di “dialogo aperto”.

La Merkel non si sottrae a pagare a Monti un tributo di complimenti, stavolta per “le riforme coraggiose”. Ma su alcuni punti le posizioni non sono concordanti, come ad esempio sulla Tobin Tax, dove c’è solo l’impegno a cercare “una posizione comune”. Di fronte agli incitamenti dei federalisti, Mario vuole “migliorare la casa comune europea” e Angela “rafforzare il coordinamento fra gli Stati”: parole generiche. E la cancelliera si sottrae alla trappola di una domanda sulla presidenza dell’Eurogruppo, dopo le voci, smentite, di una candidatura di Monti a rimpiazzare il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker a fine mandato: “E presto” per parlane, dice, -aggiunge, “mi piace come lavorano Monti e Draghi” –come dire che l’abbinata italiana Eurogruppo/Bce non le dispiacerebbe-.

Nel colloquio a Palazzo Chigi, c’è pure uno spazio per questioni di politica internazionale: le preoccupazioni per l’Iran e lo sdegno per la Siria.

Marò/Lamolinara: Terzi dà i colpevoli, l'armatore e i britannici

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/03/2012

Per essere un diplomatico di carriera, “un funzionario”, dicono i politici, con un tono di spregio superiore al ”tecnico”, Giulio Terzi, ambasciatore, ministro degli esteri del governo Monti, almeno parla chiaro. Fa rapporto al Senato –oggi, è alla Camera- sulle vicende dei marò prigionieri in India e dell’ostaggio ucciso
in Nigeria, due prove difficili per la politica estera italiana. E punta il dito contro Gran Bretagna e India, ma soprattutto contro la compagnia armatrice della Enrica Lexie, la nave su cui si trovavano i due militari ora detenuti con l’accusa di avere ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati.

Quella nave non avrebbe mai dovuto entrare nel porto di Kochi –aveva già detto Terzi, che non si sottrae alle polemiche, prima di presentarsi in Parlamento-. In aula, puntualizza: “La compagnia armatrice –racconta, ricostruendo le prime ore della drammatica vicenda- ha accolto la richiesta indiana di far entrare la nave in acque indiane”, autorizzandola a deviare la rotta. ''Io non avevo titolo ne' autorità per modificare la decisione del comandante” di dirigersi verso Kochi. Ma il governo aveva subito realizzato che la sicurezza dei marò in un porto indiano era a rischio e, da quel momento, ha subito agito per tutelarla. I risultati sono ancora scarsi, ma la situazione, complicata dal contesto politico locale, è oggettivamente difficile: ci sono stati, da parte indiana, dice Terzi, “sotterfugi e azioni coercitive”.

Per la morte di Franco Lamolinara, l’ingegnere ucciso, con un britannico, giovedì scorso dai suoi rapitori –“terroristi di Boko Haram”- nella Nigeria del Nord, durante un raid della squadre speciali britanniche e nigeriane per liberarlo, Terzi riferisce che il ministro degli Esteri britannico William Hague gli ha garantito la “non intenzionalità della tardiva comunicazione” a Roma del blitz: il ritardo –la prima notizia arrivò a Roma alle 11.30, a battaglia già in corso- non è stato dettato “dal timore che l’Italia potesse opporsi” all’operazione.

Bugie diplomatiche, magari, quelle di Hague, ma a dargli del bugiardo c’è poi solo da sfidarlo a duello. C’è, in aula, chi non s’accontenta, ma la famiglia dell’ingegnere ucciso, che non chiede “vendetta”, non fomenta polemiche, né con Londra né con la Farnesina –“ottimi i rapporti” con la diplomazia italiana, dice; e, intanto, riceve una lettera di condoglianze dal premier britannico David Cameron-. Certo, vorrebbe la verità, anche sulle voci di un riscatto su cui s’intrecciano smentite rituali e nessuna conferma.

Lamolinara e marò non tengono banco solo a Palazzo Madama. Il premier Mario Monti ne parla a Bruxelles con il ‘ministro degli esteri europeo’ Lady Ashton, tardivamente pronta "a intraprendere ogni possibile ulteriore passo per arrivare a una soluzione positiva" della questione indiana: oggi, la Ashton farà rapporto al Parlamento europeo sulle iniziative avviate -una delegazione dell’Ue si recherà in India-. Con Monti, c’è concordanza “sulla necessità di inquadrare questo incidente nel contesto della cooperazione internazionale nella lotta contro la pirateria".

Nell’aula di Strasburgo, ieri la vicepresidente dell’Assemblea Roberta Angelilli ha indossato una maglietta con le foto dei due marò e la scritta "On your side", dalla vostra parte. Steffan De Mistura, il sottosegretario sul posto, li ha incontrati in prigione. E Terzi reitera la “volontà di trasparenza” del governo e l’impegno a riportare a casa vivi tutti e nove gli italiani ancora ostaggio nel Mondo.

Afghanistan: Obama non cambia exit strategy, lì fino a 2014

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/03/2012

L’ ‘exit strategy’ dall’Afghanistan degli Stati Uniti e dei loro alleati non cambia, nonostante il tragico bestiario degli orrori compiuti nelle ultime settimane dai soldati americani si sia allungato, domenica, con la strage di 17 civili, tutti donne e bambini, vicino a Kandahar. Il presidente Barack Obama è "molto preoccupato" delle possibili rappresaglie contro i militari Usa: i talebani giurano di vendicare il massacro, mentre i capi tribù lanciano appelli alla calma.

Obama è “sotto shock”, come il segretario di Stato Hillary Clinton. E il presidente afghano Hamid Karzai parla di “omicidi imperdonabili” e, per di più, “intenzionali”. Il Parlamento di Kabul chiede l’impossibile, che cioè i responsabili della strage siano processati sul territorio afghano. Possiamo già metterli tranquilli noi italiani: dal Cermis a Calipari, sappiamo benissimo che ciò non accadrà. E, infatti, il Pentagono annuncia che il militare presunto colpevole solitario –ma secondo altre versioni i responsabili sono una banda- sarà perseguito dalla giustizia americana.

Il vilipendio ai cadaveri dei nemici, urinandoci sopra, per di più in un video che finisce su youtube; poi, i corano bruciati in una base del Nord; e ora la strage nel Sud: la successione di episodi stupidi e violenti fa pensare a soldati ben al di là della crisi di nervi: le truppe, magari inconsciamente, adesso che sta per iniziare il ritiro, allentano i vincoli della disciplina e trasformano la paura in aggressività. Una risposta potrebbe essere accelerare i tempi del disimpegno, iniziarlo prima.

Ma Jay Carney, portavoce della Casa Bianca, smentisce ogni ipotesi di questo genere: "I nostri obiettivi strategici –dichiara- non sono cambiati e non cambieranno", gli Usa in Afghanistan vogliono sconfiggere al Qaeda e addestrare gli afghani perché possano garantire da soli la loro stessa sicurezza.
In realtà, quel che conta è venirsene via come previsto entro il 2014 (e se fosse possibile prima). E cominciare a farlo in estate, così che il presidente possa presentarsi alle elezioni di novembre avendo chiuso la guerra in Iraq e riportato a casa di là tutti i ‘ragazzi’ e avendo iniziato a chiudere quella in Afghanistan, ormai il più lungo conflitto mai combattuto dagli Stati Uniti.

La linea di Obama trova riscontri fra gli alleati atlantici. Solo la cancelliera tedesca Angela Merkel, in missione a sorpresa fra le truppe al fronte, esprime qualche incertezza sul rispetto delle scadenze. La Nato e il premier britannico David Cameron, invece, insistono sulla necessità di restare laggiù, nonostante quel che è successo.

Il conflitto non ha prodotto democrazia e benessere, ma un Paese instabile, il cui assetto, a partire dal governo corrotto e inefficiente di Karzai, difficilmente reggerà, quando le truppe internazionali se ne saranno tutte andate.

lunedì 12 marzo 2012

Afghanistan: soldati Usa 'sbarellano, un bestiario degli orrori

Scritto per il blog de Il Fatto il 12/03/2012

Dopo 12 anni di guerra, uccisioni, perdite, frustrazioni, si sono stufati di starci: non vedono l’ora di venirne via, e, con la testa, non ci sono più. A meno di non voler pensare male –e con tutto quel che succede, ce ne sarebbe pure motivo-, i militari americani in Afghanistan stanno ‘sbarellando’ (e di brutto). A farne le spese, la popolazione locale, ma anche il l’inefficiente e traballante governo Karzai –e, lì, per quanto ci concerne, poco male-: la guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti non ha prodotto democrazia e benessere, ma un Paese instabile, i cui assetti difficilmente reggeranno quando, nel 2014, le truppe internazionali se ne saranno tutte andate.

Passi il fuoco amico, con i droni che faticano a fare la differenza fra il pashtun buono e quello cattivo, che sarebbe un talebano: in dodici anni di conflitto e di orrori, le popolazioni afghane ci si sono ormai abituate alla trafila consueta, l’errore ‘tragico’, i ‘danni collaterali’ –leggi, vittime innocenti-, le proteste, le scuse, l’inchiesta e, alla fine, l’indennizzo.

Ma il bestiario di queste ultimo settimane fa pensare a soldati ben al di là della crisi di nervi: le truppe, magari inconsciamente, adesso che sta per iniziare il ritiro, allentano i vincoli della disciplina e trasformano la paura in aggressività. Si possono forse spiegare così il vilipendio ai cadaveri dei nemici, urinandoci sopra, per di più in un video che finisce su youtube; poi, i corano bruciati in una base del Nord; e ancora la strage di donne e bambini in due villaggi nei pressi di Kandahar, nel Sud.

In attesa che l’immancabile inchiesta accerti se è stata l’azione di un singolo soldato ‘colto da raptus’, o se invece si sia trattato di un’azione di gruppo, “militari ubrianchi” che sparavano all’impazzata, “ridendo”, i presidenti americano e afghano recitano l’uno il ruolo del contrito (“sono sotto shock”, dice Barack Obama) e l’altro dell’irritato (“Omicidi imperdonabili” e, per di più, “intenzionali”, afferma Hamid Karzai).

Ma Obama, forse, si permette pure di pensare male, perché è difficile ammettere che soldati bene addestrati commettano nefandezze del genere in serie, in un contesto, per di più, di pressione militare inferiore al passato. L’ipotesi che qualcuno al Pentagono voglia mettere i bastoni tra le ruote al presidente, in vista delle elezioni di novembre, non è peregrina: un riacutizzarsi della tensione in Afghanistan impedirebbe a Obama di presentarsi agli americani come il ‘pacificatore’, il presidente che ha portato a casa i ragazzi dall’Iraq e ha cominciato a farlo dall’Afghanistan.

Probabilmente, un ‘dottor Stranamore’ della guerra al terrorismo non esiste. Ma pensarlo non è peccato.

domenica 11 marzo 2012

Nigeria: ostaggio ucciso, Cassini 'Meglio i tecnici che Frattini'

Scritto per Il fatto Quotidiano dell'11/03/2012

“Siamo stati sfortunati ad avere una serie di problemi non prevedibili e non facilmente risolvibili che si sono cumulati insieme”: l’ex ambasciatore Giuseppe Ino Cassini, una voce esperta e critica della diplomazia italiana, vede così il trittico nero Urru/marò/Lamolinara. E non crede che l’Italia in queste vicende sia stata handicappata dal governo tecnico: “Meglio che chi li aveva preceduti”, dice.

L’ambasciatore analizza il caso India e quello Nigeria. “Il caso indiano è un esempio classico di situazione de facto di non ancora disciplinata a livelli giuridico internazionale. In questo vuoto legislativo, solo la diplomazia può trovare una soluzione. E persona migliore di De Mistura non si poteva avere in un negoziato così complesso con gli indiani che sono parte lesa”.

Sul caso Nigeria, “è difficile per ora commentare fatti di cui non conosciamo i dettagli. E’ comunque grave che l’azione sia partita senza avvertire il Paese di uno degli ostaggi. E, certo, in generale il negoziato è la soluzione migliore per liberare gli ostaggi; ed è in particolare sempre così in Somalia”, dove i pirati detengono ancora sei ostaggi italiani.

E allora, perché intervenire? “Nessuno sa con certezza se è vero che gli inglesi hanno sentito d’avere un’ultima chance per salvare gli ostaggi, di dovere agire subito. Potevano forse rischiare, ma non prima di avere sentito il paese dell’ostaggio. C’è l’impressione che abbiano agito d’istinto. E c’è anche la sensazione che, siccome noi non siamo americani, hanno pensato che potevano provarci senza dircelo”.

Con un governo politico, non l’avrebbero fatto? “L’attuale ministro degli esteri Giulio Terzi ha una debolezza intrinseca, in quanto è un funzionario, ma ha un punto a suo favore.: è indubbiamente meglio del suo predecessore”, l’ex ministro degli esteri Franco Frattini. Cassini precisa: “Molti dei funzionari della Farnesina farebbero il ministro meglio del predecessore di Terzi”.

E poi “il fatto che questo governo sia debole sul piano politico e parlamentare conta poco in politica estera, perché le vitù di questo governo in politica estera sono comunque superiori a quelle del governo precedente. E’ una sensazione percepita in tutto il Mondo, persino in Thailandia, dove sono appena stato, s’è avvertito il cambiamento”.

Nigeria: ostaggio ucciso, dal litigio con Londra al litigio fra di noi

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/03/2012

“Non vogliamo accettare che illazioni e diatribe interne si sviluppino sulla pelle dei connazionali a rischio”: la frase del ministro degli esteri Giulio Terzi suona monito a quelle forze politiche come Pdl e Lega che speculano sulla tragica fine di Franco Lamolinara, mentre ancora altri nove italiani sono tenuti sequestrati nel mondo. Fra questi, Rossella Urru e Maria Sandra Mariani, ostaggio da bande in qualche modo assimilabili a quella che ha catturato e poi ucciso l’ingegnere di Gattinara la cui salma è rientrata ieri in Italia dalla Nigeria, accolta dal ministro della difesa Di Paola.

La tensione diplomatica tra Roma e Londra s’è un po’ stemperata nelle ultime ore, dopo che il ministro degli esteri britannico Hague s’è impegnato con il collega Terzi “a fornire una ricostruzione dettagliata minuto per minuto di quanto avvenuto”. Ma s’è invece surriscaldato il clima politico interno.

A dimostrazione della situazione di pericolo in cui operano molti lavoratori italiani all’estero, proprio dalla Nigeria giunge notizia di uno sventato rapimento di un altro ingegnere ad Asaba: qui siamo nel delta del Niger, nel sud, dove episodi del genere sono frequenti, ma non hanno un’impronta terroristica, come nel Nord, dove è stato ammazzato Lamolinara. Secondo quanto riferisce un quotidiano online locale, Renzo Galvagni è sfuggito alla cattura grazie all’intervento della polizia e sta bene. Uno dei rapitori sarebbe stato arrestato, gli altri sarebbero stati identificati. I fatti risalgono a venerdì, ma solo ieri se n’è avuta contezza.

Dopo avere cercato di sopire l’incendio internazionale scatenato tra Italia e Gran Bretagna dall’azione di commando non concordata tra Roma e Londra per liberare Lamolinara e l’ostaggio britannico Chris McManus, poi tragicamente conclusasi, Terzi e il governo cercano di soffocare sul nascere gli strumentali incendi politici interni, anche se c’è qualche malumore e disagio fra diversi corpi dello Stato, gli Esteri, la Difesa, i Servizi segreti, ciascuno incline a mettere in discussione l’operato degli altri.

E, intanto, s’intrecciano voci che non siamo in grado di controllare, sul fatto, ad esempio, che i servizi segreti italiani, e pure la difesa, fossero al corrente dei preparativi del blitz e anche dell’eventualità dell’azione–secondo la stampa di Londra, i commando britannici erano giunti sul posto da due settimane: certo, se ne saranno accorti pure i sequestratori-. C’è pure chi dice che fosse già stato pagato un riscatto per Lamolinara, ma non ve n’è riscontro. Tutti sembrano, invece, concordare sul fatto che l’attacco sia stato lanciataodopo l’arresto di un capo locale di Boko Haram, l’organizzazione terroristica integralista anti-cristiana, che smentisce, però, d’avere avuto un ruolo nel cruento sequestro.

Le versioni sull’accaduto s’intrecciano e si sovrappongono: secondo alcuni testimoni sentiti dall’Afp, il combattimento sarebbe durato ore e ore, ben sette; altre fonti, poco attendibili, però, contraddicono la versione ufficiale, che gli ostaggi sarebbero stati uccisi dai rapitori con colpi alla testa nel bagno dell’appartamento prigione, e li dicono vittime dell’intenso fuoco incrociato –i terroristi avrebbero perso otto uomini-.

L’ordine d’intervenire sarebbe stato dato da Cameron venerdì mattina, ma ci si chiede perché l’azione, condotta da una quarantina di uomini, sia stata lanciata in pieno giorno. Una circostanza che avvalora la tesi che l’attacco sia scattato quando i servizi britannici hanno creduto che gli ostaggi sarebbero stati ceduti a un gruppo ancora più estremista di quello che li aveva presi.

L’appello a non trasformare la tragedia di Lamolinara in un teatrino della politica nostrana non è raccolto da tutti. Se Fini dichiara “piena fiducia” in Terzi e pure nei servizi, proprio uno dei suoi scudieri, Bocchino, dice che “alla Farnesina sono meglio i politici” dei tecnici. Ronchi, un transfuga finiano da andata e ritorno, parla di “figuraccia del governo”, che “ha balbettato”. Linguaggio analogo da parte di Vendola, che accusa il governo di “dilettantismo”. L’Idv dice che l’esecutivo s’è mosso “tardi e male”. Lega e Pdl ci mettono un carico da quaranta. Diverso il linguaggio del Pd: Minniti dice che l’errore è solo britannico; Bersani chiede che Londra chiarisca “una vicenda inspiegabile”, ,

A rispondere in Parlamento, non dovrà essere solo il governo italiano, sollecitato da tutte le forze politiche. L’opposizione laburista, in Gran Bretagna, vuole spiegazioni ai Comuni da Cameron. E, la prossima settimana, anche il ‘ministro degli esteri’ europeo Lady Ashton, guarda caso britannica, riferirà al Parlamento europeo sulle vicende dei marò e degli ostaggi nigeriani.

sabato 10 marzo 2012

Rossella/marò/Lamolinara: e l'Italia si riscopre 'italietta'

Scitto per Il Fatto Quotidiano del 10/03/2012

Rossella, i marò, Lamolinara. L’Italia, in una settimana, si riscopre ‘italietta’, dopo essersi forse illusa di contare (di nuovo?) in Europa e nel Mondo, perché i leader dei 27 ci fanno i complimenti per il risanamento delle finanze che allontana l’euro dall’orlo del baratro e perché Barack Obama riceve Mario Monti nello Studio Ovale, dove non voleva che Silvio Berlusconi mettesse piede.

Ma la bolla della nostra credibilità, gonfiata dalla lotta contro la crisi economica, si sgonfia di botto. E, infatti, non riusciamo a trasformare in liberazione il passaggio
di mano della cooperante sarda sequestrata lo scorso anno in Algeria; non sappiamo come riportare a casa dall’India i due militari accusati di avere ucciso
due pescatori scambiati per pirati; e ci troviamo morto ammazzato un altro ostaggio di cui ci eravamo dimenticati, un ingegnere edile piemontese rapito nel Nord della Nigeria da una banda di terroristi che s’ispira ad al Qaida. Commando britannici e nigeriani lanciano l’assalto che diventa tragedia senza neppure consultarci prima.

Certo, le tre vicende sono diverse l’una dall’altra e nessuna delle tre è facile da gestire e, tanto meno, da risolvere. Ma il filo che le lega è l’impotenza dell’Italia a farsi valere. Salvo poi, a cose fatte, alzare la voce: lil presidente Napolitano giudica “inspiegabile” il comportamento di Londra, che ha informato Roma dell’azione intrapresa solo quando era già in corso, e giudica necessario “un chiarimento politico-diplomatico”; e il ministro degli esteri Terzi chiede conto, a Copenaghen, dove c’è un consulto dell’Ue, al collega britannico Hague.

La stampa britannica segue il crescendo dell’irritazione italiana con titoli che vanno dal “furibondi” del Times alla “rabbia” o ancora alla “furia” di Guardian, Daily Mail, Bbc. Il Telegraph, però, sostiene che “non c’era alternativa all’azione” e rende merito al premier Cameron per averla decisa, anche se “il tentativo di salvataggio degli ostaggi è sempre una scommessa”.

Da una parte, ci si chiede perché Cameron non abbia sentito il dovere d’informare, anzi di consultare, l’Italia prima di dare l’ordine di attacco. Gli ostaggi erano due, uno britannico Chris McManus, e l’ingegnere italiano. Se, invece che italiano, l’altro fosse stato francese, o tedesco, Cameron avrebbe agito allo stesso modo? Certamente no. E se fosse stato americano, il problema non si sarebbe posto, perché l’azione l’avrebbero decisa gli americani e fatta insieme ai britannici.

E allora perché l’Italia di Monti, che riceve elogi per le politiche di risanamento e che riporta la Gran Bretagna nell’Unione europea lanciando insieme la ‘lettera dei liberisti’, subisce un trattamento diverso? Certo, c’è una buona dose di spocchia imperiale, dietro l’atteggiamento di Cameron; ma c’è forse anche il desiderio di evitare gli italici tentennamenti –intervenire?, ma perché?, e se poi va male?- e, magari meno confessato, il fastidio per la patina di inaffidabilità dell’Italia, quasi che i molti ‘peccati originali’ della nostra politica estera, i ‘cambi di campo’ della Triplice Alleanza e dell’8 Settembre e la copertura accordata a qualche terrorista palestinese continuino a gravarci addosso come una lettera d’infamia scarlatta.

L’impressione vera è però che siamo sempre a rincorrere: accade qualcosa di cui non siamo in controllo e da cui anzi siamo esclusi e ci troviamo poi a dovere correre ai ripari, magari sapendo solo fare la voce grossa a cose (tragicamente) finite. A parte chiedere il silenzio stampa, che ci può anche stare, interroghiamoci su che cosa ha fatto il governo italiano nei mesi del sequestro della Urru e di Lamolinara per liberarli.

giovedì 8 marzo 2012

Italia-India: marò, Silvio da Vladi, per salvarli?, o solo bisboccia?

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/03/2012

Insieme, hanno già salvato il Mondo almeno una volta, l’estate 2008, quando a Vladi era preso il ghiribizzo di fare la guerra alla Georgia, ma l’intervento di Silvio lo indusse a consigli più miti. E, quando non salvano il Mondo, insieme si divertono un sacco: nella dacia, là; o nella villa, qua. Questa volta, poi, il compito sarebbe meno impegnativo: non c’è da salvare il Mondo, ma solo da tirare fuori dai guai i due marò italiani finiti in prigione in India con l’accusa di avere ammazzato due pescatori indiani scambiati per pirati. E così, mentre il premier Monti s’attacca la telefono con il premier indiano e non ne cava un ragno dal buco, Mr B tesse la tela dell’amico dell’amico: lui parla a Putin; e Putin parla agli indiani che magari l’ascoltano. Funziona? Non se ne sa nulla, tranne che Silvio è da Vladi in “visita privata” con Valentino Valentini, vecchio sodale di tante avventure: i marò, magari, non c’entrano nulla; e tutto potrebbe ridursi a una bisboccia per la rielezione di Putin. I due amichetti andranno forse a Soci, si dice, con quell’altro compagnone di Dmitri Medvedev.

Usa 2012: candidati repubblicani, nani nascono e nani restano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/03/2012

Nani nascono e nani restano. E se Mignolo Huntsman, Pisolo Perry ed Eolo Cain si sono persi per strada, Gongolo Romney, Mammolo Santorum, Brontolo Gingrich e Dotto Paul restano in pista. Vi ricordate che, al via delle primarie, descrivevamo il campo dei repubblicani come Biancaneve e i Sette nani? Era proprio così, ma, stavolta, la storia non pare destinata al lieto fine: Biancaneve, Michelle Bachmann, suffragetta del Tea Party, è tornata nel Minnesota senza principe azzurro; e i Nani non hanno neppure la prospettiva del “vissero felici e contenti” perché alla reggia,
la Casa Bianca, non ci arriveranno.

Neppure il Super-Martedì ha dato a qualcuno di loro una statura da statisti. Romney traccheggia, vincicchia, non piazza mai un acuto dove non t’aspetti e, qualche volta, stecca. Se non lo fa lui, ci pensa sua moglie, che, forse insoddisfatta del patrimonio del marito, 200 milioni di dollari o giù di lì, va in tv a dire di non sentirsi ricca. Lei, magari, intende spiritualmente, ma l’effetto è ugualmente uno shock.

Gingrich non esce dal Sud: vince in South Carolina, rivince in Georgia, a casa sua, magari vincerà ancora in Alabama e Mississippi. Ma fuori di lì non va. Se il Super-Martedì non ha un vincitore secco, ha uno sconfitto: è lui, l’ex speaker della Camera, uno ‘zombi’ della politica, che vuole però andare avanti almeno fino al Texas.

E Paul il libertario non riesce a conquistare la prima vittoria, in questa sua campagna fotocopia, ma un po’ sbiadita, di quella 2008.

Dei quattro Nani rimasti, l’unico (un po’) più cresciuto rispetto alle prime battute è Rick Santorum, che pareva valesse due soldi di cacio e invece sta lì, vince dove deve, si piazza bene dove non te l’aspetti –in Ohio, per esempio- e va avanti “per volere del Signore”, dice lui, anzi dice la moglie Karen.

Mammolo Santorum è venuto su abbastanza da spaventare i repubblicani saggi e moderati, che temono che il partito vada a sbattere il naso contro la candidatura d’un estremista dei valori, per la famiglia e la vita, contro l’aborto, la contraccezione, i matrimoni omosessuali, e si ritrovi poi alla casella di partenza, perdendo di brutto, oltre che le presidenziali, anche le politiche –il 6 novembre, ci sarà pure il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato-.

Controtendenza, e provocatoriamente, il New York Times scriveva, nell’imminenza del Super-Martedì, che l’affermazione di Santorum potrebbe però essere salutare per il Grand Old Party, il Gop, incapace oggi di esprimere un leader e una linea. Nell’analisi del giornale, la batosta di Santorum contro Obama spingerebbe il partito “a ricollocarsi su posizioni di centro più moderate”, senza inseguire a destra predicatori evangelici e qualunquisti populisti del Tea Party. Il ‘nuovo’ Gop potrebbe essere guidato da nomi nuovi, come il governatore del New Jersey Chris Christie, o
il senatore della Florida Marco Rubio (giunto in Campidoglio targato però Tea Party).

Se guardiamo gli Stati, se ne sono pronunciati 22 nei due mesi di queste primarie: Romney s’è imposto in 12, Santorum in sette, Gingrich in due. Se facciamo la conta dei delegati, ne sono stati già assegnati quasi 800, un terzo circa del totale. Romney è nettamente in testa: s’aggira sui 400, sui 1144 necessari per la nomination. Santorum ne ha una metà, ma ridurrebbe il distacco incamerando quelli di Gingrich, se questi si ritirerà.

In tutta l’Unione, due persone sono felici che l’incertezza si mantenga: Obama, che non deve spendere soldi per attaccare il suo rivale –ci pensano gli aspiranti alla nomination a denigrarsi fra di loro-; e Sarah Palin, che vota in Alaska senza dire chi e che non esclude nulla per il suo futuro. Candidata nel 2016? Forse. E perché no nel 2012? Se Romney e Santorum finissero in stallo, il che è possibile, magari chiamano lei a salvare, o ad affossare definitivamente, la ‘patria’ repubblicana. Non sarà Biancaneve, ma non è neppure una nana, almeno quanto a grinta

mercoledì 7 marzo 2012

Usa 2012: Super-Martedì, Romney non vince per ko

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 07/03/2012. Altra versione su L'Indro

Nel Super-Martedì delle primarie repubblicane –si vota in dieci Stati-, a vincere davvero è un democratico, il presidente Barack Obama: i suoi rivali continueranno per un po’ ad azzuffarsi fra di loro. A perdere , ma lui ancora non lo ammette, è Newt Gingrich, l’ex speaker della Camera, uno ‘zombi’ della politica americana, che s’impone solo nello Stato di casa, la Georgia: troppo poco per ridare smalto alla sua claudicante candidatura.

La partita cruciale è quella dell’Ohio, uno Stato chiave nella corsa alla Casa Bianca: nessun repubblicano è mai stato eletto presidente senza vincere qui. Il testa a testa fra Romney e Santorum è serrato: la spunta Romney e conta, sul piano statistico e anche sostanziale; ma sul piano dei delegati, quelli che servono per la nomination alla convention di Tampa a fine agosto, è quasi fifty-fifty.

Oltre che in Ohio, Mitt Romney s’impone in quattro Stati: il Massachusetts, dove vive e dove è stato governatore; il Vermont, che sta nel New England e che gli era conteso dal libertario Ron Paul; la Virginia, dove Gingrich e Santorum non erano sulla scheda; e l’Idaho, dove la comunità mormone è forte. Successi, dunque, non particolarmente ‘pesanti’, Ohio a parte: Romney non trova il colpo da ko –ed è quello che manda nel suo repertorio-.

Santorum vince in Tennessee e in Oklahoma –nel Sud e nella Cintura della Bibbia- e, più sorprendentemente, nel North Dakota. Gingrich prende solo la Georgia, che, però, ha il bottino di delegati più ricco della giornata, ben 76. Manca alla conta l’Alaska, per una questione di fusi orari.

Se consideriamo gli Stati, se ne sono pronunciati 22 nei due mesi di queste primarie: a otto mesi esatti dall’Election Day del 6 novembre, Romney s’è imposto in 12, Santorum in sette, Gingrich in due. Mancano, però, fra gli altri i tre più popolosi: New York, Texas e California.

Se facciamo la conta dei delegati, ne sono stati finora assegnati quasi 800, un terzo circa del totale. Romney è nettamente in testa: fra quelli che aveva già e quelli che ottiene nel Super-Martedì, s’aggira sui 400, un po’ più d’un terzo dei 1144 necessari per garantirsi la nomination. Santorum ne ha circa la metà, ma potrebbe accorciare radicalmente il distacco incamerando quelli di Gingrich, quando l’ex speaker deciderà di ritirarsi –per farlo, potrebbe però aspettare le primarie del Texas, dove i delegati in palio sono ben 155 e che potrebbero essergli favorevoli-.

Romney non esce consacrato dal Super-Martedì: continua a difettargli il carisma, oltre che il colpo da ko. Santorum si conferma solido al di là delle aspettative; ma l’ex senatore cattolico e d’origini italiane ha bisogno che il campo ultra-conservatore e religioso, attualmente diviso tra lui e Gingrich, si riunisca sotto la sua leadership. La corsa continua, con tappe al Sud –Alabama e Mississippi- e nel Centro –Kansas-, sulla carta non favorevoli a Romney il moderato, mormone milionario.

In tutta l’Unione, due persone sono felici che l’incertezza si mantenga: Obama, che non deve spendere soldi per attaccare il suo rivale –ci pensano gli aspiranti alla nomination a denigrarsi fra di loro-; e Sarah Palin, che vota in Alaska senza dire chi e che non esclude nulla per il suo futuro. Candidata nel 2016? Forse. E perché no nel 2012? Se Romney e Santorum finissero in stallo, il che è possibile, magari chiamano lei a salvare, o ad affossare definitivamente, la ‘patria’ repubblicana.

Italia-India: marò, siamo solo Terzi, a contare dal nulla

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/03/2012

Dal guanto di velluto al pugno sul tavolo (per quello di ferro, si vedrà): il ministro degli esteri Terzi convoca alla Farnesina l’ambasciatore indiano e denuncia come illegittimi il procedimento contro i due marò italiani accusati di avere ucciso due pescatori indiani e il loro arresto. Neppure l’attenuazione della detenzione dei due militari soddisfa la diplomazia italiana: “La situazione è inaccettabile”. E mentre Terzi alza il tono del confronto, il ministro della difesa Di Paola chiama i due marò: “l’Italia è con voi”.

Dopo i toni dimessi dei primi giorni, nella speranza, illusoria, che tutto si risolvesse bene e presto, l’escalation diplomatica potrebbe conoscere ulteriori inasprimenti : ad esempio, un richiamo per consultazioni dell’ambasciatore a New Delhi . Per ora, e almeno fino al 16 marzo, quando una corte indiana deciderà sul ricorso dell’Italia, vengono esclusi passi più radicali: l’affidamento dell’ambasciata a un incaricato d’affari, la chiusura della stessa, la rottura delle relazioni diplomatiche. Tutte mosse capaci di pregiudicare, più che di facilitare, il raggiungimento dell’unica soluzione positiva, cioè il rilascio dei due militari e il loro rientro in Italia.

Con la vicenda dei marò, e con il dramma di Rossella Urru, la cooperante rapita in ottobre in Algeria e di cui, sabato, s’era sperata la liberazione –la giovane è solo passata di mano, in una catena d’estorsioni ancora senza fine-, il governo Monti conosce le sue prime spine sulla scena internazionale. I Professori sono riusciti a restituire all’Italia la credibilità perduta sui fronti tradizionali della sua politica estera, l’Europa e l’America: l’Italia di Monti è ascoltata nell’Ue (ed è, addirittura, additata ad esempio) ed è ben accolta alla Casa Bianca.

Ma ora l’Italia sconta ritardi e latitanze su altri fronti: la vicenda dei marò, e le difficoltà di dialogo con l’India hanno qualcosa in comune con la vicenda Battisti e l’incapacità di farsi valere in Brasile. L’Italia non ha reagito in modo adeguato, alla crescita nel Mondo di nuovi protagonisti, il Brasile, l’India, la stessa Cina, che oggi non la vivono come un interlocutore di rango. E non è certo facile costruire una presenza in pochi giorni, specie in contesti di crisi e di tensione. Diverso il caso della Urru: l’Italia s’è già confrontata con l’intreccio di terrorismo ed estorsione, nel Nord Africa, nel Medio Oriente, in Iraq, in Afghanistan, nello Yemen, in Nigeria, ma uscirne bene non è mai facile.

Riportiamo a casa, certo, Rossella e i marò. Ma come?

martedì 6 marzo 2012

Russia: Putin, pochi amici veri, tanti da real politik

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/03/2012

Alzi la mano che s’aspetta che, adesso, le democrazie occidentali stendano un cordone sanitario intorno a Vladimir Putin, solo perché il neo-rieletto presidente russo è un oligarca poco rispettoso della democrazia e molto insofferente della libertà d’espressione, pure alle urne. Nessuno? Beh, meglio così, che non ci restate male a fantasticare di un isolamento internazionale della Russia, nonostante gli amici su cui Mosca può davvero contare siano alcuni impresentabili di questo mondo come l’Iran e la Siria –Teheran e Damasco si sono subito rallegrate con Putin-, le repubbliche post-sovietiche ma non troppo di Bielorussia, Ucraina, Kazakhstan e via Asia Centrale dicendo, e i post-terzomondisti del XXI Secolo alla Hugo Chavez.

La lista di quanti si sono affrettati a ratificare i risultati del voto, più in nome della real-politik che della democrazia, è lunga: senza neppure aspettare che il verdetto delle urne, netto, venga purgato delle irregolarità emerse, Stati Uniti e Unione europea, e poi singoli Paesi Ue, hanno riconosciuto l’incoronazione di ‘zar Vladi’. Come foglia di fico, i messaggi di congratulazioni sono stati velati con richieste di cambiamento della posizione della Russia sulla Siria.

E mentre la stampa americana, nei suoi commenti, evoca la fine dell’ ‘era Putin’, ipotizzando che l’onda del dissenso finisca con il prevalere, il neo-presidente al terzo mandato non esclude affatto che la sua leadership possa durare fino al 2024 –secondo solo a Stalin, nella longevità al potere della Russia post-zarista-. Con i giornalisti occidentali, Vladi si schermisce: non ha ancora pensato se ricandidarsi nel 2018. E a chi lo tratta da oligarca, cita, come esempi di continuità al vertice, Helmut Kohl e il premier canadese Jean Chrétien (e ci sarebbe pure Silvio Berlusconi, ma lui non lo evoca “perché è mio amico”).

Di nuovo al Cremlino, Putin, dunque, non patirà la solitudine del potere solo perché l’amico Silvio, nel frattempo, ha perso il posto. Lo ‘zar’ non scopa la polvere sotto il tappeto: “Di Berlusconi non ero amico, lo sono sempre”. E l’apprezzamento positivo del governo Monti arriva tramite Mr B, che gliene parla bene, “con grande rispetto”.

Washington e Bruxelles si muovono in parallelo. Tace il presidente Obama, il cui primo mandato è stato parallelo a quello di Dmitri Medvedev, che ora tornerà a fare il premier, e che con Medvedev ha ‘risettato’ le relazioni russo-americane, complicatesi nell’ultima fase delle presidenze Bush/Putin –anche lì, otto anni quasi paralleli-. Il Dipartimento di Stato invita Mosca a indagini “indipendenti” su eventuali irregolarità, dicendosi “pronto a lavorare” con Putin una volta ufficializzati i risultati.

Lady Ashton, l’etereo ‘ministro degli esteri’ europeo, “incoraggia” Mosca a “rimediare alle lacune” del sistema elettorale, ma prende, nel contempo, “nota” della “netta vittoria” del presidente russo. E il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen auspica che la cooperazione tra l’Alleanza e la Russia, specie sulla difesa anti-missile, possa essere “approfondita”.

Poco sofistico, il premier britannico David Cameron giudica il risultato del voto “decisivo”: troppo chiaro, cioè, perché i brogli possano averlo alterato. Neppure la Francia mette in dubbio l’elezione di Putin, visto già come interlocutore “per gli anni a venire”. La cancelliera tedesca Angela Merkel lo chiama per augurargli “un mandato di successo” (e per ricordargli che “Germania e Russia sono partner strategici”).

Il messaggio del presidente cinese Hu Jintao (lui, prossimo all’avvicendamento con Xi Jinping) conforta Putin, se mai ce ne fosse bisogno: Mosca non è sola nel sostegno a Siria e Iran; Pechino è pronta a raffreddare all’Onu i bollori dell’Occidente.

lunedì 5 marzo 2012

Usa 2012: Romney conquista Washington (ma non è DC)

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 05/03/2012

Mitt Romney conquista Washington, ma non è (ancora?) quella giusta: l'ex governatore del Massachusetts ha vinto bene un test senza delegati in palio nello Stato di Washington, all’estremità nord-ovest dell’Unione (lo Stato di Seattle). Un buon viatico politico per il milionario mormone, nell'imminenza del Super-Martedì delle primarie repubblicane e, magari, sulla via di Washington D.C., la capitale degli Stati Uniti..

Nello Stato di Washington, i caucuses si sono svolti sabato. L’attuale battistrada nella corsa alla nomination ha preso circa il 36% dei voti, mentre l’ultra-conservatore Rick Santorum e il libertario Ron Paul hanno avuto ciascuno un quarto dei suffragi. Per Romney, è la quarta vittoria consecutiva: a questo punto, ha 6 successi reali e uno virtuale, lo Stato di Washington appunto, mentre Santorum ha tre vittorie reali e una virtuale, il Missouri. L'ex speaker della Camera Newt Gingrich è fermo alla South Carolina.

Fronte delegati, le posizioni restano invariate: Romney ne ha circa 170, più del doppio di Santorum. Romney, invece, ne ha la meta' dell'ex senatore italo-americano, Paul solo una manciata. Ma la giornata di domani ne assegnerà ben 419 in un colpo solo, più di quanti finora distribuiti in due mesi di elezioni e assemblee, oltre un terzo dei 1143 necessari per garantirsi la nomination alla convention di Tampa a fine agosto.

Si vota in uno stato chiave nell’Election Day, il 6 novembre, l’Ohio (66 delegati), dove Romney e Santorum sono resta a testa nei sondaggi, un terzo dei voti ciascuno, Gingrich è al 17%, Paul non arriva in doppia cifra. E si vota pure in Georgia, lo Stato di Gingrich e quello che assegna il maggior numero di delegati di questa tornata, ben 76. E si vota ancora in Alaska, Idaho, Massachusetts, North Dakota, Oklahoma, Tennessee, Vermont e Virginia.

Di che incidere nella corsa e modificare la geografia dei delegati, senza però dare verdetti definitivi. Tranne, forse, per Gingrich, che, se non va bene, oltre che in Georgia almeno anche in Tennessee, Oklahoma, magari Virginia e Idaho, lascia. E, in tal caso, i suoi delegati andranno, quasi certamente, a ‘gonfiare’ il pacchetto di Santorum e a rendere ancora più incerta la gara tra l’ex senatore e l’ex governatore.

domenica 4 marzo 2012

SPIGOLI: Ue, giudice italiano cercasi, il posto resta vacante

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/03/2012

Resta vacante il posto dell’Italia da giudice del Tribunale europeo, dopo che la candidata designata a sostituire Enzo Moavero Milanesi, divenuto ministro per gli Affari europei nel governo Monti, s’è inopinatamente ritirata: Angela Del Vecchio, è una nota ‘internazionalista’, allieva di Riccardo Monaco e docente alla Luiss dagli Anni Settanta; il ministro della giustizia Paola Severino fu sua preside a Giurisprudenza; e suo marito, Piero Alberto Capotosti, era stato citato fra i possibili ministri nel ‘governo dei professori’.

Non è chiaro se la Del Vecchio si sia ritirata ancor prima di comparire di fronte al comitato di esperti che vaglia le candidature: creato dal Trattato di Lisbona, il comitato mira, fra l’altro, a scoraggiare la politicizzazione delle nomine, verificando la competenza dei designati. La docente della Luiss pare però avere le carte in regola, pur non essendo una specialista di diritto materiale dell’Ue, e in particolare di diritto della concorrenza, che è il pane quotidiano del Tribunale europeo.

Il Governo deve ora designare un altro candidato (ed è già all’opera). In alcuni Paesi, non in Italia, la creazione del comitato ha indotto i governi a modificare le modalità di selezione dei giudici. I ‘saggi’, infatti, non esitano a bocciare: un maltese, un greco e un romeno hanno già fatto le spese della loro severità.

sabato 3 marzo 2012

Ue: Vertice, 25 firmano il Patto, 27 parlano di crescita

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/03/2012. Altre versioni su lindro.it e euractiv.it

L’Unione europea esce dal lungo inverno della crisi del debito e dei musi lunghi: i leader dei 27 lasciano il Vertice sorridenti, come non accadeva da almeno due anni, parlando di crescita e occupazione, più che di tagli e sacrifici. Eppure, a conti fatti il risultato principale è la firma del Patto di Bilancio fra 25 dei 27 – fuori, si sapeva, Gran Bretagna e Repubblica Ceca-: un giro di vite alle regole sui conti pubblici, specie dei Paesi dell’euro; una sorta d’assicurazione preventiva contro nuovi rischi ‘stile Grecia’.

Il clima della firma è intriso d’ottimismo. Il presidente francese Nicolas Sarkozy, che pure potrebbe essere all’ultima passerella europea –lo attendono elezioni incerte, ma lui assicura: “Tornerò”-, dice che l’Unione ha “voltato pagina”. Il cancelliere tedesco Angela Merkel parla di “pietra miliare”, il premier Mario Monti di “sviluppo positivo”. Herman van Rompuy, presidente del Vertice, confermato nel ruolo –“E'un privilegio servire l'Europa in un momento così decisivo”, commenta-, ha fiducia nel successo del processo di ratifica “in tempi brevi”, nonostante l’incognita del referendum in Irlanda –una ‘tegola’ caduta martedì sulla testa dell’Ue-.

La Merkel, giunta a Bruxelles dopo avere visto la sua maggioranza sfaldarsi sul salvataggio della Grecia ed essere stata ‘bacchettata’ per eccesso di rigidità dal suo predecessore Helmut Kohl, smorza alcune sue posizioni: ad esempio, sugli interventi della Bce, insistendo, però, sulla necessità d’evitare i rischi della bolla perché –avverte- “la situazione resta fragile”. E il rafforzamento a 750 miliardi di euro del nuovo fondo ‘salva Stati’ non si fa, ma è solo rinviato “a fine marzo”, nelle previsioni coincidenti di Monti e Sarkozi. Forse, i leader amici voglio regalare al presidente in difficoltà nei sondaggi qualche buona notizia europea sotto il voto, che faccia fieno alle urne.

Nei dibattiti, tiene banco la lettera inviata da 12 premier liberisti, fra cui Monti e il britannico David Cameron. Per ora, sono solo discorsi, con cui Sarkozy, che la lettera non l’ha firmata, dichiara di essere d’accordo “all’85%”, non apprezzando “l’impulso alla deregulation”. Ne escono delle conclusioni che sono una lista di buone intenzioni consegnata al presidente della Commissione europea José Manuel Barroso: al Vertice di giugno, ci saranno sul tavolo proposte di ‘project bonds’, l’attuale versione degli ‘eurobonds’, e ‘Tobin Tax’, misure anti-evasione e per il completamento del mercato unico lato servizi, riduzioni dell’influenza delle agenzie di rating e molto altro ancora. Barroso dichiara con enfasi: “Abbiamo avviato una nuova fase della crescita europea”. E, intanto, parte una raffica d’attacchi alla Svizzera: l’Ue di Monti fa propria la linea anti-elvetica di Giulio Tremonti, che vedeva nelle banche di Lugano e Zurigo le casseforti dell’evasione.
L’Italia riceve i complimenti ormai rituali dalla Merkel, da Sarkozy, da Van Rompuy.

E Monti, che torna da Bruxelles più forte, festeggia in loro compagnia il ‘sorpasso’ della Spagna nella classifica dello spread, sceso vicino a quota 300, nonostante i dati dell’Istat indichino che la crescita nel 2011 è stata solo dello 0,4% e che il rapporto debito / Pil è al top dal 1996 (120.1%), mentre quello deficit/Pil –ora da azzerare- è al 3,9%, l’inflazione sale e la disoccupazione giovanile è record.

Sui fronti politici, i leader dei 27 dicono sì ai negoziati con la Serbia verso l’adesione e inaspriscono l’atteggiamento contro la Siria, impegnandosi a giudica0re i responsabili della repressione –Parigi annuncia la chiusura dell’ambasciata a Damasco. Di intervento, però, nessuno parla.

venerdì 2 marzo 2012

Ue: Vertice; elogi, i soliti, a Monti e non molto di più

Scritto per euractiv.it lo 01/03/2012

La cancelliera tedesca Angela Merkel s’è complimentata con l’Italia per il calo dello spread, che è sceso vicino a quota 300, poco prima dell’inizio dei lavori della prima giornata del Vertice europeo. In apertura della riunione, i leader dei 27 hanno confermato alla presidenza stabile del Consiglio europeo il belga Herman Van Rompuy, che commenta 'E'un privilegio servire l'Europa in un momento così decisivo'. Van Rompuy ha pure parole di elogio per l’Italia: “nella crisi –dice-, siamo a una svolta; guardate all’Italia”.

La Merkel e il premier italiano Mario Monti hannio avuto un incontro bilaterale prima della riunione plenaria. E i lavori del Vertice sono stati preceduti pure da una riunione dell’Eurogruppo, dove Monti ha espresso ottimismo sulla capacità della Grecia di uscire dalla crisi, anche se non pare che la decisione finale sullo sblocco degli aiuti greci sarà presa in queste ore..

Oggi, a fine Vertice, ci sarà la firma del Patto di Bilancio, il Patto sul giro di vite al rigore dei bilanci voluto dalla Germania, mentre l’aumento del nuovo fondo salva Stati a 750 miliardi di euro non sarà ancora deciso, nonostante ammorbidimenti nelle ultime ore della posizione tedesca.

E su input della lettera alle Istituzioni comunitarie di 12 leader Ue liberisti, fra cui Monti e il britannico David Cameron, e con il contributo del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, a Bruxelles si parla del rilancio della crescita e dell’occupazione.

Di Italia, s’è molto discusso a Bruxelles anche a margine del vertice del Ppe, che ha preceduto il Vertice europeo e cui hanno partecipato Silvio Berlusconi per il Pdl e PierFerdinando Casini per l’Udc. Guardando alle elezioni politiche del 2013, Berlusconi non ha escluso un governo delle larghe intese con PdL, Terzo Polo e Pd, sempre guidato da Monti, suscitando commenti contrastanti nelle forze politiche.ù

Dopo il Vertice, Monti rientrerà nel pomeriggio a Roma, dove la trasformazione in legge del decreto sulle privatizzazioni è stata nel frattempo approvata dal Senato, che ha votato la fiducia al governo, tra proteste e polemiche, specie da parte delle banche. Ma sul fronte dell’occupazione e dell’inflazione le notizie non sono positive.

Usa 2012: Romney è di nuovo lepre verso Super-Martedì

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/03/2012

Adesso, molti diranno che il Super-Martedì , il 6 marzo, con le primarie in dieci Stati, sarà decisivo, per la scelta del candidato repubblicano alla Casa Bianca. Ma non è vero: sarà decisivo, certo, per Newt Gingrich, che affida agli Stati del Sud le speranze di rilancio d’una campagna finora poco efficace; ma non lo sarà per dirimere lo scontro tra il moderato Mitt Romney e il campione ultra-conservatore, Rick Santorum, come oggi pare, o ‘zombi’ Gingrich. Quanto a Ron Paul, il libertario, lui sa benissimo che non vincerà, ma noi sappiamo altrettanto bene che resterà in corsa fino in fondo: il gusto di esserci e di dire la sua (e, magari, d’essere decisivo con i suoi delegati per fare pendere la bilancia da una parte o dall’altra).

Certo, vincendo di misura nel Michigan e con agio in Arizona, dove, tra l’altro, ha intascato tutti i delegati, Romney ha tirato un sospiro di sollievo, ha arginato la valanga Santorum ed è ripartito: se non proprio sgommando, con una bella accelerata. Adesso, dopo 10 Stati validi, Romney ha 6 vittorie, Santorum ne ha 3 –più il Missouri, un test senza posta in gioco- e Gingrich è fermo alla South Carolina.

I risultati delle primarie di martedì mostrano, ancora una volta, la volatilità dei sondaggi e delle previsioni, in questa campagna. Nel Michigan, Santorum era stato dato vincente fin quasi all’ultimo: Romney ha chiuso al 41%, Santorum al 38%. In Arizona, si parlava di testa a testa: Romney ha fatto il 43%, Santorum il 28%, Gingrich e Paul non hanno speso soldi in questi due Stati: sono finiti ciascuno una volta terzo e una volta ultimo.

Lato delegati, Romney è in testa e s’avvicina ai 200, ma è ancora lontanissimo dalla soglia di 1143 necessari per ottenere la nomination alla convention di Tampa a fine agosto. L’ex governatore del Massachussetts, alla festa della vittoria nel Michigan, lo Stato dov’è nato e dove suo padre era stato governatore –perdere lì, sarebbe stato proprio una scoppola-, non se l’è più presa con i rivali repubblicani, ma ha attaccato direttamente Barack Obama, parlando già da sfidante: “La sua presidenza –ha detto- è un fallimento: ci porta al declino e non potremmo sopportare una sua rielezione”. Rubandogli lo slogan del 2008, Romney dice ai suoi fans “Yes, we can: lo rimanderemo a casa”. A casa, per il momento, anzi in guardina, finisce una cronista dell’Economist che, senza pass, stava sull’uscio del salone dove il mormone parlava. Un poliziotto zelante le ha messo le manette e se l’è portata via, accusandola di avere passato la soglia a lei proibita.

Pure Santorum s’è detto, con meno baldanza, soddisfatto: ha perso, ma –ha ricordato- giocava in trasferta. Però, pare che molti democratici abbiano partecipato, come è lecito, alla scelta repubblicana e abbiano proprio votato Santorum, ritenendo l’integralista cattolico italo-americano un rivale più facile da battere alle presidenziali di Romney. Il milionario mormone ha anche più soldi da spendere dei suoi antagonisti e godrebbe, contro Obama, del sostegno economico di grandi aziende e della finanza. A livello mediatico, invece, Santorum è messo meglio: ha dalla sua il magnate dell’editoria Rupert Murdoch, mentre si può prevedere che le maggiori testate Usa, NYT, WP, LAT, daranno il loro ‘endorsement’ a Obama.

Che non si scompone: parla e agisce come se dovesse governare altri cinque anni e riceve alla Casa Bianca, per una cena in loro onore, un’ottantina di reduci dall’Iraq, due mesi abbondanti dopo la fine della guerra e il ritiro di tutte le forze Usa combattenti. I repubblicani avrebbero voluto celebrare con una parata militare, ma il presidente ha scelto un ringraziamento meno vistoso: dell’invasione dell’Iraq e dei suoi straschichi, c’è poco di che menare vanto.