Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/03/2012
Adesso, molti diranno che il Super-Martedì , il 6 marzo, con le primarie in dieci Stati, sarà decisivo, per la scelta del candidato repubblicano alla Casa Bianca. Ma non è vero: sarà decisivo, certo, per Newt Gingrich, che affida agli Stati del Sud le speranze di rilancio d’una campagna finora poco efficace; ma non lo sarà per dirimere lo scontro tra il moderato Mitt Romney e il campione ultra-conservatore, Rick Santorum, come oggi pare, o ‘zombi’ Gingrich. Quanto a Ron Paul, il libertario, lui sa benissimo che non vincerà, ma noi sappiamo altrettanto bene che resterà in corsa fino in fondo: il gusto di esserci e di dire la sua (e, magari, d’essere decisivo con i suoi delegati per fare pendere la bilancia da una parte o dall’altra).
Certo, vincendo di misura nel Michigan e con agio in Arizona, dove, tra l’altro, ha intascato tutti i delegati, Romney ha tirato un sospiro di sollievo, ha arginato la valanga Santorum ed è ripartito: se non proprio sgommando, con una bella accelerata. Adesso, dopo 10 Stati validi, Romney ha 6 vittorie, Santorum ne ha 3 –più il Missouri, un test senza posta in gioco- e Gingrich è fermo alla South Carolina.
I risultati delle primarie di martedì mostrano, ancora una volta, la volatilità dei sondaggi e delle previsioni, in questa campagna. Nel Michigan, Santorum era stato dato vincente fin quasi all’ultimo: Romney ha chiuso al 41%, Santorum al 38%. In Arizona, si parlava di testa a testa: Romney ha fatto il 43%, Santorum il 28%, Gingrich e Paul non hanno speso soldi in questi due Stati: sono finiti ciascuno una volta terzo e una volta ultimo.
Lato delegati, Romney è in testa e s’avvicina ai 200, ma è ancora lontanissimo dalla soglia di 1143 necessari per ottenere la nomination alla convention di Tampa a fine agosto. L’ex governatore del Massachussetts, alla festa della vittoria nel Michigan, lo Stato dov’è nato e dove suo padre era stato governatore –perdere lì, sarebbe stato proprio una scoppola-, non se l’è più presa con i rivali repubblicani, ma ha attaccato direttamente Barack Obama, parlando già da sfidante: “La sua presidenza –ha detto- è un fallimento: ci porta al declino e non potremmo sopportare una sua rielezione”. Rubandogli lo slogan del 2008, Romney dice ai suoi fans “Yes, we can: lo rimanderemo a casa”. A casa, per il momento, anzi in guardina, finisce una cronista dell’Economist che, senza pass, stava sull’uscio del salone dove il mormone parlava. Un poliziotto zelante le ha messo le manette e se l’è portata via, accusandola di avere passato la soglia a lei proibita.
Pure Santorum s’è detto, con meno baldanza, soddisfatto: ha perso, ma –ha ricordato- giocava in trasferta. Però, pare che molti democratici abbiano partecipato, come è lecito, alla scelta repubblicana e abbiano proprio votato Santorum, ritenendo l’integralista cattolico italo-americano un rivale più facile da battere alle presidenziali di Romney. Il milionario mormone ha anche più soldi da spendere dei suoi antagonisti e godrebbe, contro Obama, del sostegno economico di grandi aziende e della finanza. A livello mediatico, invece, Santorum è messo meglio: ha dalla sua il magnate dell’editoria Rupert Murdoch, mentre si può prevedere che le maggiori testate Usa, NYT, WP, LAT, daranno il loro ‘endorsement’ a Obama.
Che non si scompone: parla e agisce come se dovesse governare altri cinque anni e riceve alla Casa Bianca, per una cena in loro onore, un’ottantina di reduci dall’Iraq, due mesi abbondanti dopo la fine della guerra e il ritiro di tutte le forze Usa combattenti. I repubblicani avrebbero voluto celebrare con una parata militare, ma il presidente ha scelto un ringraziamento meno vistoso: dell’invasione dell’Iraq e dei suoi straschichi, c’è poco di che menare vanto.
venerdì 2 marzo 2012
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