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lunedì 30 novembre 2015

Usa 2016: repubblicani; polemiche –e strafalcioni- su rifugiati siriani

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 30/11/2015

Per due settimane, dopo le carneficine di Parigi del 13 novembre, la politica estera, la Siria, la lotta al terrorismo e l’accoglienza dei rifugiati sono state in primo piano nella campagna elettorale per Usa 2016, specie in campo repubblicano, prima che il lungo week-end del Ringraziamento stemperasse toni propagandistici e pressione mediatica. Se il senatore della Florida Marco Rubio è emerso come il più ‘interventista’, sostenendo, in una serie di interviste, la necessità di inviare truppe in Siria e pure in Libia e di avere sul terreno sunniti-e non solo sciiti- che combattano le milizie sunnite jihadiste, Donald Trump e Ben Carson si sono distinti per parole forti e concetti sbagliati, lasciando in qualche caso di stucco la Casa Bianca e i loro interlocutori.

Carson ha definito i rifugiati “cani rabbiosi”, salvo poi compiere una imprevista missione in Giordania per visitare campi profughi e rendersi conto della situazione di persona. Trump ha detto che gli Stati Uniti, per combattere il sedicente Stato islamico, dovrebbero valutare se sorvegliare e chiudere le moschee e non ha escluso la possibilità di schedare i musulmani americani, salvo poi fare marcia indietro su Twitter, mentre la lettera scrittagli da una giovane musulmana diventava virale su Facebook.

Meno chiare di quelle di Rubio le idee di Carson sulla Siria: l’ex neurochirurgo ha denunciato un ruolo della Cina nel conflitto, asserendo di averne le prove. Persino la Casa Bianca ha sussultato: "Per uno che fa il mio mestiere è assurdo rimanere senza parole. Ma in questo caso devo dire di esserlo", è stata la battuta a commento del portavoce Josh Earnest.

L’offensiva repubblicana contro i rifugiati siriani, già manifestatasi, ma rinfocolata dagli attentati di Parigi, ha indotto il presidente Obama, che in questo periodo ha fatto molte missioni internazionali - il G20 in Turchia e l’Apec in Asia e ora la Cop21 a Parigi -, a reagire. Da Manila, ha accusato di "isteria" quei governatori repubblicani che non vogliono più accogliere profughi siriani: hanno paura – ha detto il presidente - di "vedove e orfani”. “Non prenderemo buone decisioni, se ci baseremo sull'isteria o sull'esagerazione dei rischi".

Negli Usa, 34 Stati su 50 hanno un governatore repubblicano. Ed almeno 27 governatori, 26 dei quali repubblicani, sono contro i rifugiati siriani. Uno di essi, candidato alla nomination, Chris Christie, del New Jersey, sostiene che gli Stati Uniti non devono accettare alcun rifugiato, "neppure un orfano di cinque anni". Trump ha definito i rifugiati siriani "cavalli di Troia" e se l’è presa con Obama, chiedendosi se non sia "fuori di testa”.

I repubblicani insistono, anche in Congresso, nel chiedere il blocco dei piani di accoglienza: "La nostra nazione é sempre stata aperta all'accoglienza, ma non possiamo consentire ai terroristi di approfittare della nostra compassione”, afferma lo speaker della Camera Paul Ryan, che ha costituito una ‘task force’ su questo tema. "Dobbiamo essere prudenti e l'azione più responsabile è il blocco del programma sui rifugiati per verificare che non vi siano terroristi infiltrati".

Dal 2011 gli Stati Uniti hanno accolto solo 1.500 rifugiati dalla Siria, ma l'Amministrazione Obama ha annunciato, a settembre, un programma che prevede l'accoglienza di 10.000 siriani nel 2016 su un totale di 85 mila rifugiati.

domenica 29 novembre 2015

Siria: si fa in fretta a dire guerra, ma le bombe non risolvono i problemi

Intervista al settimanale Il Nostro Tempo, data d'uscita 26/11/2015


1 - Si fa in fretta a dire guerra, ma le bombe da sole non hanno mai risolto nulla. Qual è la strada giusta per una risposta mondiale all'Isis?

Le bombe dal cielo da sole non solo non risolvono nulla, ma rischiano di peggiorare la situazione: ciascuna che cade fa nascere più integralisti qui da noi di quanti non ne neutralizzi laggiù, creando una scia di dolore, lutto, astio, odio, vendetta. Ma questo lo sanno tutti, i generali per primi e i leader politici. Se l’obiettivo è lo sradicamento del sedicente Stato islamico e l’eliminazione delle milizie jihadiste, la via militare passa per le Nazioni unite, che possono dare legittimità a un intervento internazionale, con il coinvolgimento sul terreno – si stima – di 60/70 mila soldati che possano sfruttare l’assoluto controllo dello spazio aereo e il migliore equipaggiamento e prevalere così sulle forze dell’auto-proclamato Califfo, valutate a non più di 20mila uomini. Ma la guerra, anche una guerra vinta – e l’Afghanistan 2001, come pure l’Iraq 2003, sono lì a ricordarci come vincerla a lungo termine non sia scontato -, lascerebbe sempre strascichi di rivalsa e non eliminerebbe i rischi da noi – anzi, la frustrazione e la rabbia sarebbero fattori di pericolo -, mentre la dispersione dei miliziani superstiti creerebbe situazioni di contagio altrove (e la mappa dell’integralismo è già molto articolata). La vera risposta è dialogo e sviluppo, equità e redistribuzione: richiede l’impegno di generazioni.

2 -  Ci sono evidenti problemi d’equilibri politici interni al mondo musulmano, tra sciiti, sunniti, e pure tra americani e russi. Da almeno cinque anni ognuno marcia sa solo. Hanno obiettivi diversi. Ma cosa serve ora al Medioriente?

La disunione nel Medio Oriente è totale ed è testimoniata dal fatto che gli stessi Paesi dell’Unione europea hanno posizioni fra loro diverse, più belliciste la Francia e la Gran Bretagna, meno la Germania, l’Italia, la Spagna, per citare solo i Grandi. In questo scenario, un classico della geo-politica di tutti i tempi va continuamente in scena: i nemici che diventano amici quando c’è da combattere un nemico comune; salvo poi tornare ad essere nemici, una volta compiuta la missione congiunta. E, a volte, te li ritrovi contro galvanizzati dal successo ottenuto e resi più pericolosi e più minacciosi da armamenti e da equipaggiamenti che proprio tu hai fornito loro. In questa guerra anomala ‘al terrorismo’, poi, gli intrecci sono molteplici su piani diversi: etnico, religioso, d’egemonia regionale, d’interessi economici. Tutti i più o meno convinti componenti dell’eterogenea galassia anti-jihadista vedono il Califfo come un nemico; ma alcuni non lo vedono come il nemico peggiore. E, talora, sembrano condividerne i valori, più di quanto non condividano quelli dell’alleato. C’è pure chi trae vantaggio dalla conflittualità intestina araba e musulmana ed è portato ad alimentarla. Al Medioriente serve pace e sviluppo, ma non ora: da sempre, da almeno un secolo; e non li ha mai avuti, mai – almeno – in modo armonico. Colpa nostra, ma non solo.

3 - E' possibile in futuro pensare a una divisione dell'Iraq e della Siria?

L’Iraq e la Siria come li conosciamo noi sono Paesi artificiali, fittizi, finti: nomi storici applicati a realtà geografiche, etniche, religiose disomogenee e senza passato: confini disegnati sulla carta geografica nella Grande Guerra, giusto un secolo fa, al momento del dissolvimento dell’Impero Ottomano, che fu l’ultimo legittimo Califfato, tradendo subito le promesse fatte da Gran Bretagna e Francia agli arabi oro alleati contro i turchi. Frontiere, come molte di quelle della colonizzazione, fatte per dividere più che per unire, tenendo conto degli interessi economici delle potenze europee più che delle aspirazioni locali, mettendo insieme sciiti e sunniti in un puzzle che innesca tensioni, negando una patria ai curdi –la più numerosa etnia al Mondo senza una patria-. Nonostante ciò, il mantra della diplomazia internazionale è l’intangibilità delle frontiere, anche quando sono palesemente ingiustificate: qui come in certe regioni africane –Ruanda e Burundi- o nella stessa Europa –l’Ucraina oggi, la Bosnia ieri-; un mantra che, però, ancora una volta, risponde più a logiche d’interesse internazionali che alle aspirazioni locali… Certo che è possibile pensare a un diverso assetto della Regione, a una terra dei sunniti e a una terra degli sciiti, ad esempio. Ma non mi pare che si vada in questa direzione.

4 - Per sconfiggere l'Isis serve una risposta politica ma anche economica...

Certo, lo abbiamo già visto. Ma, attenzione!, alcuni dei Paesi protagonisti di questo conflitto sono intrinsicamente ricchi, almeno da quando il petrolio è un bene prezioso e fin quando lo resterà: lì, il problema non è lo sviluppo, ma l’equità – di genere e di ceto - e la ridistribuzione, perché eccezionali agiatezze convivono con eccezionali povertà, con divari persino più ampi che da noi e un’inferiore percezione di ‘pari opportunità’.

5 - Il fondamentalismo non sarà sconfitto con la possibile fine dell'Isis perchè è un problema culturale. Come affrontarlo?

L’integralismo è malattia infantile, ma persistente, di qualsiasi credo e ideologia: contamina religione e politica, economia e società, persino scienza e sport; è una mala erba che cresce in tutti i giardini e che l’uomo non ha mai estirpato del tutto e definitivamente dentro di sé. Proprio mentre siamo confrontati col fondamentalismo islamico, abbiamo esempi di fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti che conducono ad abiure della ragione e ad eccessi anche violenti. L’istruzione e l’educazione alla tolleranza sono chinini contro l’integralismo, ma l’antidoto non lo abbiamo ancora scovato.

Clima: Cop21, impegni, non vincoli; e il Pianeta si scalda ancora troppo

Scritto per Il Fatto del Lunedì del 16/11/2015, poi saltato per gli attentati di Parigi
Sarà un banco di prova, il più terrificante, della tenuta di Parigi, e della comunità internazionale, contro la minaccia del terrorismo: la capitale francese deve ospitare, dal 30 novembre, per una settimana almeno – ma tempi supplementari non sono esclusi -, la Conferenza sui cambiamenti climatici, la Cop21, 160 e più delegazioni da tutto il Mondo, in apertura almeno un centinaio di capi di Stato e di governo. Se non si fosse fatta, o se fosse stata trasferita altrove, sarebbe stata un segnale che questa battaglia l’hanno per il momento vinta loro, i terroristi integralisti, inducendoci ad anteporre la paura dell’imminente alla paura di una catastrofe planetaria, il riscaldamento globale.

Lo ha subito colto Enrico Brugnoli, direttore del Dipartimento Terra Ambiente del Cnr (Consiglio nazionale delle Ricerche: ''Questo grande evento, che suscita tante speranze per la risoluzione della crisi climatica, dovrebbe svolgersi - dice - nel segno della pace e della convivenza civile di tutti i popoli uniti” nel segno della salvezza del Pianeta, “senza distinzioni politiche, culturali e religiose”. La comunità scientifica auspica, quindi, “una risposta globale per impedire ai terroristi di influenzare negativamente Conferenza''.

Che, se poi si svolge regolarmente, deve però essere un successo, condurre a risultati. Ma, su questo punto, americani ed europei, con maggiore o minore rassegnazione, mettono tutti le mani avanti: John Kerry, segretario di Stato Usa, lo dice senza mezzi termini al Financial Times, “Non aspettatevi un nuovo trattato internazionale, un protocollo come quello di Kyoto che imponga ai firmatari un taglio entro una certa data delle emissioni inquinanti”.

Ci saranno, si prospetta, obiettivi individuali dei singoli Stati di qui al 2030 e quindi appuntamenti di verifica del rispetto degli impegni presi, oltre che – parola di Kerry - "significativi investimenti" per sviluppare un’economia globale più pulita e, soprattutto, tecnologie che offrano alternative energetiche.

Questa è la posizione dell’Amministrazione Obama, nonostante il presidente sia personalmente impegnato, oltre che politicamente, per risolvere il problema. L’Unione europea abbozza: la Commissione di Bruxelles insiste su un nuovo trattato internazionale, proprio come Kyoto, ma molti Stati appaiono già rassegnati e non insoddisfatti del risultato che si profila. La somma degli impegni già raccolti, infatti, assicurerebbe, di qui alla fine del Secolo, un riscaldamento di 2,7 gradi centigradi, un po’ più della soglia ritenuta tollerabile del 2%; ma – ci spiega uno dei negoziatori – “c’è ancora tempo per correggere il tiro, per limare qualcosa”, in attesa che la tecnologia risolva il problema alla radici.

L’Amministrazione statunitense teme che un’intesa con obblighi stringenti possa rivelarsi un boomerang, perché di fatto impossibile da fare ratificare e rispettare ovunque. A partire dagli stessi Stati Uniti: il testo d’un nuovo trattato dovrebbe passare al vaglio di un Congresso in mano ai repubblicani, ostile alle misure per combattere i cambiamenti climatici. E fra i candidati repubblicani alla Casa Bianca più di uno non è pronto a riconoscere la responsabilità dell’uomo nel riscaldamento globale.

Quale ne sia la forma, il nuovo accordo globale sul clima dovrà rimpiazzare proprio il protocollo di Kyoto, i cui obiettivi sono stati largamente disattesi: gli stessi Stati Uniti lo firmarono, ma non lo ratificarono; e la Cina, oggi il Paese che inquina di più la Terra, non vi aveva aderito. L’intesa di Parigi dovrebbe invece essere accettata da tutti, anche se permangono differenze tra gli Stati Uniti, l’Unione europea e altri Paesi: alcune economie emergenti, come la Cina e il Brasile, sembrano ora acquisite alla causa ambientale; ma altre, come l’India, in particolari, restano più riluttanti. Significativa in proposito una recente telefonata di Obama al premier indiamo Narendra Modi.

Usa e Ue esortano a "superare la vecchia mentalità" dei Paesi che ancora resistono al taglio delle emissioni, affermando che dovrebbero essere compensati di più per il loro status di economie emergenti. "Non siamo più nel 1992 o nel 1997", è il leit motiv americano ed europeo, "non siamo più ai tempi di Kyoto". E si discute pure sulla quantità di risorse da stanziare per investire sempre più nelle fonti rinnovabili.

Certo, se gli impegni dei governi e le dichiarazioni politiche di buona volontà stillassero davvero sincerità la Conferenza di Parigi sul clima sarebbe già un successo acquisito. La via maestra d’un Pianeta più pulito e meno caldo l’ha indicata per tempo, nella sua enciclica ‘Laudato si’, Papa Francesco, che è pure andato a presentarla alla tribuna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York. E i compiti a casa, per evitare di trovarsi a Parigi sul banco degli accusati, li hanno fatti l’Unione europea, gli Stati Uniti e persino la Cina: tutti annunciando piani ambiziosi contro l’effetto serra.

In visita all’Expo di Milano, a metà ottobre, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, prima, e Kerry, poco dopo, avevano detto con linguaggi analoghi: "Dobbiamo lavorare per un accordo durevole e inclusivo. La sfida è un Mondo pulito. Dobbiamo investire in alternative che possano resistere ai cambiamenti climatici. Sarà importante per un futuro molto più sicuro, più sano". Kerry ha esortato a spiegare all’opinione pubblica quanto sia importante l'accordo di Parigi e che “il successo del negoziato può essere la notizia più bella in tutte le lingue".

L’obiettivo del vertice di Parigi è contrastare il riscaldamento globale e dare al pianeta nuove regole in tema d’inquinamento, essendo ormai scadute quelle di Kyoto. Il relatore al Parlamento europeo sulla Cop21 Gilles Pargneaux, socialista francese, dice: “Siamo davanti alla lotta del secolo. Se non riusciremo a evitare che il riscaldamento globale superi i 2°C entro fine secolo, avremo sempre più siccità, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai e scomparsa di terreno coltivabile. E il cambiamento climatico sarà una delle cause dell'aumento delle migrazioni". Ma l’Assemblea di Strasburgo appare un’oltranzista verde, rispetto ai governi: chiede più tagli delle emissioni e vorrebbe raggiungere, come finanziamenti e investimenti, i 100 miliardi di dollari l'anno entro il 2020.

venerdì 27 novembre 2015

Siria: contro il Califfo, una Grosse Coalition (ma poca Italia)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/11/2015, a quattro mani con Wanda Marra che ha poi assemblato

Dopo la carneficina di Parigi, un’Europa riluttante, divisa e incerta, va alla guerra contro il Califfo: con un Putin muscolare e un Obama esitante, disegna una grande colazione a geometria variabile. La Francia allineata con la Russia guida il fronte bellico; la Gran Bretagna sta un passo indietro, allineata con gli Stati Uniti; la Germania manda rinforzi nel Mali, così libera forze francesi, e invia una nave con Tornado al largo della Siria; l’Italia non manda nulla perché – sostiene – fa già tanto, più di altri.

Il presidente francese Hollande, che dalla notte del 13 ha il volto turbato e lo sguardo allucinato , completa la sua maratona diplomatica: croissant e caffè all’Eliseo con il premier italiano Renzi; poi il piatto forte al Cremlino con il presidente russo Putin. Prima, era stato a Washington da Obama e aveva ricevuto il premier britannico Cameron e la cancelliera tedesca Merkel.

Renzi all'Eliseo - ... qui la parte non mia ...

Hollande e Putin - Al colloquio con Hollande, Putin arriva scuro in volto, a causa di un battibecco a distanza con il presidente turco Erdogan: Putin gli rimprovera di non essersi neppure scusato dopo l’abbattimento deliberato d’un caccia-bombardiere russo da parte della caccia turca; ed Erdogan lo accusa di non rispondere alle sue telefonate.

Con Hollande, invece, è una grande sinfonia, almeno in conferenza stampa: gli attentati ci uniscono – l’aereo sul Sinai e la strage del Bataclan -, è tempo di assumersi le proprie responsabilità, siamo pronti a cooperare, dobbiamo creare una grande coalizione, ma dobbiamo anche cercare –e qui, magari, la sintonia è minore- una soluzione politica. Perché Parigi è contro Assad, mentre Mosca lo sostiene: la parola che accomuna è transizione, ma su tempi e modi restano le divergenze.

Come non è chiaro il ruolo che la Turchia possa avere nella grande coalizione, dopo quello che è successo e visti i dubbi sulla credibilità del suo impegni anti-Califfo. Il ministero degli Esteri russo, che aveva già raccomandato di evitare i viaggi in Turchia, ha ieri consigliato ai cittadini russi che si trovano in Turchia di tornare a casa. Ufficialmente, per i rischi di attentati da Istanbul ad Ankara.

Le forze in campo – Se l’Italia nicchia, la Germania, di solito molto cauta nelle mosse militari, passa subito all’azione, dopo la cena della Merkel all’Eliseo mercoledì sera: rafforza il contingente nel Mali –che avrà come nuovo comandante un generale tedesco-; e spedisce una nave da guerra con 4/6 Tornado al largo della Siria. C’è la percezione che anche la politica estera e di sicurezza europea stia assumendo una dimensione tedesca: è un diplomatico di Berlino anche l’inviato dell’Onu in Libia.

Con la Germania e la Gran Bretagna, dopo il sì dei Comuni ai raid, sono 14 i Paesi che partecipano ai bombardamenti sulla Siria: cieli affollati, e pericolosi, con caccia e caccia-bombardieri, oltre che da Usa e Russia e Francia, anche da Australia, Canada, Arabia Saudita, Bahrain, Emirati arabi uniti, Qatar, Giordania, Marocco e Turchia. E i missili arrivano pure dalle unità americane, russe, francesi e ora tedesche tra Mediterraneo, Mar Caspio e Golfo Persico.

Terrorismo: neppure il Califfo unisce l’Europa

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 26/11/2015

Neppure le carneficine di Parigi spingono l’Europa all’unità: se la mappa delle alleanze e delle inimicizie nel Medio Oriente e nel mondo islamico è un intreccio inestricabile di Stati, etnie, appartenenze religiose, interessi economici, il quadro dell’Occidente non è più facile da decifrare.

C’è oggi più sintonia tra la Francia di Hollande, colpita il 13 novembre, e la Russia di Putin, colpita il 30 ottobre con l’aereo sul Sinai, che tra la Francia e la gran parte dei Paesi Ue e pure gli Stati Uniti. Lo testimonia l’esito della successione d’incontri che Hollande ha avuto, questa settimana, con i leader di Usa e Russia e di Gran Bretagna, Germania, Italia: risposte tutte improntate a una grande solidarietà dichiarata, ma operativamente diverse.

Il Califfo non induce l’Unione a essere più coesa, né più reattiva. Paralisi da paura? Non credo: piuttosto, percezione del pericolo inadeguata e incapacità di focalizzarsi sull’obiettivo della sicurezza, che è, per sua natura, un bene comune e che insieme si tutela meglio che da soli.

C’è pure chi prova a gabellare la cacofonia come una prova di forza: tipo, “l’integralismo non ci costringe a cambiare le nostre abitudini, divisi eravamo e divisi restiamo”.

Russia e Francia, i Paesi più direttamente colpiti dal terrore, e quelli militarmente più impegnati in Siria, guidano il fronte bellicista, anche se né l’una né l’altra sono poi pronte ad inviare uomini sul terreno contro le milizie jihadiste. Gli Stati Uniti mantengono l’impegno che già avevano, la Gran Bretagna s’appresta a partecipare ai raid sulla Siria.

Ammesso che, poi, gli obiettivi delle azioni, che dovrebbero essere coordinati, siano compatibili gli uni con gli altri e tutti finalizzati alla neutralizzazione delle milizie jihadiste. Ma l’episodio del caccia-bombardiere russo abbattuto dalla caccia turca ci dice che non è sempre così e che inimicizie e diffidenze stratificate nei decenni, o nei secoli, sono più forti dell’impulso emergenziale a combattere il nemico comune, che per molti, però, va ricordato, non è il nemico primario.

Quando i ministri dell’Interno e della Giustizia dell’Ue si riunirono a Bruxelles, venerdì 20, la richiesta francese d’attivare, per la prima volta in assoluto, l’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona, fu accolta all’unanimità: l’articolo prevede che qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel sul territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.

Ma la natura dell’aiuto e dell’assistenza va determinata su base nazionale, come ricordò subito Federica Mogherini, che pure è la sacerdotessa della politica estera e di sicurezza comune. Lo stesso articolo, del resto, precisa che “ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”. Quindi, ciascuno fa quel che può e, sostanzialmente, quel che vuole.

Così, la Germania promette uomini nel Mali, altra zona calda, e manda un’unità da guerra e dei Tornado verso la Siria; e l’Italia potrebbe valutare un rafforzamento del contingente in Libano. Le due mosse libererebbero forze francesi da dislocare altrove. E la Spagna, per chiudere il cerchio dei Grandi dell’Ue, deve ancora elaborare l’offerta d’aiuto a Parigi.

Unanimi nella condanna dei terroristi e nella solidarietà alle vittime. Divisi e inefficaci nell’azione. La grande crisi, l’emergenza immigrazione, l’ansia da attentati: neppure vivendo queste prove, gli europei –leader e cittadini- trovano lo scatto dell’Unione.

giovedì 26 novembre 2015

Usa 2016: Ringraziamento, una pausa per tutti i candidati (e due tacchini)

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 26/11/2015

Nella Festa del Ringraziamento, gli Stati Uniti, com’è tradizione, si fermano, con le famiglie riunite intorno al tavolo dove troneggia il tacchino e, dopo, la partita di football in tv. E domani sarà il venerdì che segna l’inizio della corsa agli acquisti di Natale, il Black Friday, con code già nel cuore della notte davanti ai centri commerciali e ai negozi che promettono super-affari ai primi acquirenti. Tempi di rispetto delle tradizioni e di relativa pausa nella campagna elettorale, con il presidente Barack Obama che, la vigilia, mercoledì 25, ha graziato, come ogni anno, un fortunato tacchino che non finirà in tavola, come decine di milioni di suoi simili. In realtà, i tacchini salvati quest'anno sono due, Abe e Honest, perché Obama ha introdotto la novità di graziare anche il volatile "di riserva", sebbene la scena madre del ‘perdono’ sia riservata solo al prescelto via Twitter dagli americani. Il presidente era accompagnato dalle figlie Malia e Sasha. Nonostante la cerimonia sia un po' ridicola, e un po’ ipocrita, Obama, che è al penultimo Giorno del Ringraziamento alla Casa Bianca, ne ha tratto due considerazioni: una non molto originale ("Non posso credere che sia la settima volta: il tempo vola") e una ‘filosofica’ (l'America è la Terra "delle seconde chance e questo tacchino s’è guadagnato la sua”). Vale per i tacchini Abe e Honest e vale per alcuni candidati a Usa 2016 che ci riprovano, proprio come Hillary Clinton o, fra i repubblicani, Mike Huckabee o Rick Santorum -con meno chances dell'ex fist lady-. Nel lungo week-end del Ringraziamento, la campagna per Usa 2016 rallenta e i contendenti abbassano un po’ i toni, molto intensi, negli ultimi giorni, anche sul fronte della lotta al terrorismo e sul ‘che fare’ in Siria e con i rifugiati. (gp)

Siria: Putin accusa Erdogan il 'doppiogiochista', la frontiera porosa

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/11/2015

Le conseguenze non saranno forse “tragiche”, come in un primo tempo erano state tradotte le parole del presidente russo Vladimir Putin. Ma “serie” di sicuro: i rapporti tra Mosca ed Ankara prendono un ‘colpo di freddo’, dopo l’abbattimento d’un caccia-bombardiere russo ad opera della caccia turca nei cieli sopra il confine tra Siria e Turchia, in zona di guerra alle milizie jihadiste.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov parla di un’azione premeditata. Il presidente Putin punta il dito contro la Turchia ‘doppiogiochista’: il sedicente Stato islamico – osserva, tornando su questioni già sollevate al G20 di Antalya - dispone d’ingenti risorse "provenienti da vendite illecite" ed è protetto “da forze armate di altri Stati": “E’ chiaro perché siano così sfrontati, perché uccidano la gente e perché compiano attentati in giro per il mondo, incluso il cuore dell'Europa". Le Monde fa i conti del terrore: 1600 morti in 18 mesi in 20 Paesi, ad opera degli integralisti.

La tesi è che la Turchia, palesatasi nemica del Califfo solo pochi mesi or sono, tenga la mira puntata in realtà sul regime di Assad e sui curdi. L’abbattimento dell’aereo sarebbe, dunque, una ritorsione per le denunce di Putin che smaschera gli inganni del presidente aspirante dittatore, islamista ed autoritario, Erdogan, che, in 17 secondi –tanto è durata l’intrusione russa- è riuscito a fare succedere quello che non era mai accaduto in oltre trent’anni di confronto Est-Ovest, abbattere un aereo russo. E il Cremlino nega d’essere stato avvertito di possibili reazioni a sconfinamenti aerei.

Che qualcosa di vero ci sia, lo lasciano intuire le ‘difese d’ufficio’, blande, che il presidente Usa Obama e la Nato fanno dell’alleato turco: diritto a difendere il proprio spazio aereo, va bene; ma, ora, la parola d’ordine è “de-escalation”. In visita a Roma, il ministro degli Esteri britannico Hammond è esplicito: “Non vogliamo una mini-Guerra Fredda … Ankara e Mosca riducano la tensione”.

E The Guardian si pone l’interrogativo: “Putin ha ragione quando definisce la Turchia complice dei terroristi?”. Il giornale nota che la frontiera siro-turca è stata la maggiore via d’approvvigionamento in uomini e mezzi del Califfato, ‘foreign fighters’ ed equipaggiamenti passati senza troppi controlli.

Certo, Mosca non sta con le mani in mano: schiera batterie di missili anti-aereo a Latakia, sua base siriana sul Mediterraneo, e minaccia Ankara di tagliarle le forniture di gas, che, intanto, blocca all'Ucraina (la politica non c’entrerebbe: è questione di fatture inevase). I turchi rispondono intensificando il pattugliamento del cielo con gli F16; ed Erdogan replica alle illazioni di Putin sostenendo che i raid russi non attaccano gli jihadisti, ma i nemici di Assad.

Sul terreno, forze lealiste siriane recuperano, sano e salvo, il secondo pilota del jet abbattuto, mentre il primo sarebbe morto, non è chiaro se ucciso mentre scendeva con il paracadute o a terra dai ribelli turcomanni attivi nell’area, dove, ieri, si sono susseguiti almeno 12 raid aerei russi, riferiscono attivisti dell’opposizione ad Assad. Intensi combattimenti sono in corso tra forze governative appoggiate dalle milizie sciite libanesi Hezbollah e gruppi d’insorti.

Il ministro degli esteri siriano Muallem è a Mosca, dove domani incontrerà Lavrov, che non è andato ad Ankara –come previsto prima dell’incidente- e che ha parlato con il collega Usa Kerry: dell’episodio di martedì, ma pure di lotta all’Is e di processo politico in Siria. Per Lavrov, il gesto turco è "una violazione dell'accordo tra Mosca e Washington sullo spazio aereo in Siria, dove Usa e Russia stanno conducendo campagne aeree indipendenti". Kerry insiste sulla necessità di evitare che l’incidente faccia salire la tensione sulla Siria.

Il presidente francese Hollande, che, di ritorno da Washington, ha cenato ieri sera con la cancelliera tedesca Merkel, va oggi a Mosca da Putin, dopo avere riservato al premier Renzi l’ora del croissant: russi e francesi sono già d’accordo per la chiusura della frontiera tra Siria e Turchia e per protrarre i raid sulla Siria. Dopo la carneficina di Parigi, il calendario diplomatico non risparmia imbarazzi: domenica, i leader dei 28 ricevono a Bruxelles Erdogan per dargli un mucchio di soldi, in cambio della missione di tenere sotto controllo la frontiera con la Siria e i milioni di rifugiati siriani in Turchia. Qualche dubbio che Erdogan li spenda bene, i loro soldi, gli europei devono avercelo.

mercoledì 25 novembre 2015

Siria: Turchia abbatte aereo russo, Putin "pugnalata alla schiena"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/11/2015

Battaglia aerea nei cieli tra Siria e Turchia: caccia turchi intercettano due caccia-bombardieri russi che lambiscono e forse invadono lo spazio aereo turco e ne abbattono uno, mentre l’altro si dilegua. Scene da Guerra Fredda, altro che da guerra al terrorismo. E, infatti, il Califfo sta a guardare: lui, aerei non ne ha e può solo ripararsi alla bell’e meglio dalla gragnola di bombe e missili che la notte francesi e russi e pure turchi rovesciano sulle sue postazioni.

Il presidente russo Putin parla di “pugnalata alla schiena”, inferta da un presunto alleato nella lotta contro le milizie jihadiste. Le autorità di Ankara sostengono che i due Su-34 russi siano penetrati nello spazio aereo turco “per 17 secondi”, pubblicano una traccia radar che lo proverebbe e producono un elenco lungo e dettagliato di incidenti simili accaduti negli ultimi giorni. I russi affermano che i due aerei sono rimasti nello spazio aereo siriano e rientravano alla base di Latakia.

La reazione turca era chiaramente pianificata, non è stata improvvisata: l’ordine di abbattimento – si dice – è venuto dal premier Davutoglu, consultato dai vertici militari. Con una catena di comando così lunga, l’azione sarebbe scattata quando i due aerei erano già rientrati alla base: evidentemente, i turchi avevano già deciso d’intercettare e abbattere, sulla scorta degli episodi precedenti. Prima che l’incidente accadesse, Ankara aveva già inviato una lettera all’Onu denunciando la situazione.

L’abbattimento mette a nudo fragilità e divisioni dell’alleanza anti-terrorismo: i presidenti Usa Obama e francese Hollande, che si incontrano a Washington, cercano di contenere l’incendio. Obama riconosce che la Turchia, un Paese della Nato, ha diritto di difendere il proprio spazio aereo e invita la Russia a concentrarsi sulla distruzione del sedicente Stato islamico, invece che difendere il regime di Assad. Hollande invita Ankara e Mosca a evitare l’escalation e chiede più raid su Siria e Iraq, la chiusura della frontiera tra Turchia e Siria e un governo di unità a Damasco senza Assad.

Nelle prossime ore, il presidente francese, che dopo la carneficina di Parigi si dà da fare per trovare il consenso su un’azione muscolare contro le milizie jihadiste, vedrà sia Putin –giovedì a Mosca, dopo un croissant con Renzi all’Eliseo di buon mattino- che il presidente turco Erdogan –domenica a Bruxelles-. Al borsino del terrore, il Califfo, che, dicono fonti britanniche, cerca d’acquisire nucleare ‘sporco’, segna un punto.

Sulla sorte dei piloti del caccia-bombardiere abbattuto, c’è incertezza: i ribelli turcomanni anti-Assad attivi nella zona sostengono di averli uccisi mentre scendevano con il paracadute, dopo essersi eiettati; una fonte di Ankara afferma, invece, che sono vivi e che soccorsi turchi cercano di raggiungerli – oppure, un’altra versione è di riscattarli ai ribelli che li avrebbero catturati-. La zona è stata anche sorvolata da elicotteri russi, uno dei quali sarebbe stato abbattuto. Alpaslan Celik, vice-comandante della brigata di turcomanni, dice che "entrambi i piloti sono stati recuperati morti", offrendo come prova un pezzo di paracadute.

Le relazioni tra Ankara e Mosca, già non idilliache, si sono subito sfilacciate: il ministro degli Esteri russo Lavrov annulla una visita in Turchia oggi –invece, riceverà a Mosca il collega siriano -. I russi rafforzano l’apparato sul terreno e schierano 20 carri armati ad Aleppo, città contesa tra ‘lealisti’ e integralisti.

Per Putin, la pugnalata alla schiena è stata inferta “da complici di terroristi”: l’aereo russo sarebbe caduto 4 km dentro il territorio siriano, colpito da un missile aria-aria sparato da un F-16 turco mentre “non minacciava la Turchia”: l'incidente avrà "serie ripercussioni" sui rapporti tra Mosca e Ankara, avverte il capo del Cremlino. "Abbiamo sempre trattato la Turchia come un Paese amico. E, invece di mettersi in contatto con noi, i turchi si sono subito rivolti agli alleati Nato, come se noi avessimo abbattuto un loro aereo e non loro un nostro". Il Consiglio atlantico s’è effettivamente riunito a Bruxelles nel pomeriggio, evitando di rinfocolare la polemica.

L'Is, insiste Putin, tornando su problemi già sollevati al G20 la scorsa settimana, dispone di risorse per "miliardi di dollari provenienti da vendite illecite" ed è "protetto da forze armate di altri Stati": “E’ chiaro perché siano così sfrontati, perché uccidano la gente e perché compiano attentati in giro per il mondo, incluso il cuore dell'Europa".

Terrorismo: tutti contro il Califfo, ma ciascuno ha un nemico peggiore

Scritto per Metro del 25/11/2015

Non c’è uno solo dei Paesi della Regione impegnati nella coalizione contro il sedicente Stato islamico che consideri il Califfo il suo nemico peggiore. Tutti, nel loro intervento, hanno un secondo fine, che è poi il fine principale: l’Arabia saudita e gli emirati del Golfo, sunniti, si preoccupano di arginare gli sciiti; l’Iran, sciita, vuole tutelare il regime di Assad, sciita seppur alauita, e ripristinare l’ordine pro-sciiti in Iraq; la Turchia martella gli jihadisti, ma tiene pure sotto tiro chiunque non rispetta il suo territorio – lo dimostra, oggi, l’abbattimento dell’aereo russo-, e vuole mano libera contro i curdi dentro i suoi confini; quei curdi che si battono sul terreno contro le milizie, ma hanno soprattutto l’obiettivo d’uno Stato indipendente, che nessuno lì intorno, Turchia e Iran e neppure i malandati Siria e Iraq, vuole concedere.

Le carneficine di Parigi venerdì 13 novembre e quanto ne è seguito, il blitz di St.Denis il 18 e il week-end spettrale di Bruxelles capitale d’Europa e della paura, hanno innescato risposte militari – rabbiose quanto non risolutive - e febbrili intrecci di contatti diplomatici, con il presidente Hollande perno d’incontri con il premier britannico Cameron, il presidente Usa Obama, la cancelliera tedesca Merkel, il premier Renzi il presidente russo Putin.

Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e, ieri, il Consiglio atlantico, oltre che il Consiglio dei Ministri dell’Ue, si sono riuniti: solidarietà alla Francia a bizzeffe e anatemi contro il Califfo a manciate, ma una strategia coerente e coesa non c’è.  C’è chi fa la guerra dal cielo e chi, come Italia e Germania, non ci pensa neppure; però nessuno vuole andare a combattere sul terreno, dove ci si affida a peshmerga e pasdaran, hezbollah e – magari – turchi. Che, per il momento, hanno centrato in pieno un solo obiettivo: il jet russo, colpito e abbattuto.

Di questo passo, lo Stato islamico potrebbe resistere anni. Né è certo che un intervento sul campo risolverebbe il problema: in Afghanistan, 14 anni di presenze militari Usa e Nato non hanno eliminato i talebani. In questa guerra anomala ‘al terrorismo’, poi, gli intrecci amico/nemico sono molteplici su piani diversi: etnico, religioso, d’egemonia regionale, d’interessi economici.

Vi sono Paesi che sembrano talora condividere i valori del Califfo più di quelli degli alleati, sulla libertà di espressione o i diritti dell’uomo. E gli intrecci di rapporti diventano ancora più paradossali quando si parla d’armamenti e d’interessi economici. Nessuno compra il petrolio del Califfo, ma lui ne vende – si dice – un milione di dollari al giorno. E nessuno arma il Califfo, ma i percorsi delle forniture militari sono tortuosi e spesso indecifrabili persino all’intelligence.

martedì 24 novembre 2015

Terrorismo: amici/nemici, gli alleati instabili della strana guerra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/11/2015

Sono un classico della geo-politica di tutti i tempi: i nemici che diventano amici quando c’è da combattere un nemico comune; salvo poi tornare ad essere nemici, una volta compiuta la missione congiunta. E, a volte, te li ritrovi contro galvanizzati dal successo ottenuto e resi più pericolosi e più minacciosi dagli armamenti e dagli equipaggiamenti che proprio tu hai fornito loro.

In questa guerra anomala ‘al terrorismo’, poi, gli intrecci sono molteplici su piani diversi: etnico, religioso, d’egemonia regionale, d’interessi economici. Tutti i più o meno convinti componenti dell’eterogenea galassia anti-jihadista vedono il Califfo come un nemico; ma alcuni non lo vedono come il nemico peggiore. E, talora, sembrano condividerne i valori, più di quanto non condividano quelli dell’alleato.

A Teheran, la condanna della carneficina di Parigi si accompagna alla condanna di chi non mostra rispetto per l’Islam. E la tolleranza per ‘l’altro’, o il rispetto dei diritti umani, non è un punto di forza a Riad come non lo è a Mosul o a Raqqa.

A volte, le acrobazie ‘nemico – amico’ funzionano: nella Seconda Guerra Mondiale, l’alleanza tra le democrazie capitaliste e l’assolutismo comunista seppe sconfiggere Nazismo e totalitarismi suoi sodali, salvo poi restituire a un antagonismo persino più profondo di prima Usa e Urss, divenute con il conflitto Super-Potenze.

Altre volte sono deleterie. Negli Anni Ottanta, gli americani armarono i talebani e li spinsero a cacciare i russi dall’Afghanistan: loro lo fecero, instaurando, però, nel Paese, subito dopo, un regime integralista, che diede santuari e protezione ai terroristi di al Qaida. Nello stesso periodo, in funzione anti-iraniana, gli Stati Uniti sostennero ed armarono l’Iraq di Saddam Hussein, dandogli la sicumera militare per invadere e annettersi il Kuwait, nell’estate 1990.

Nella coalizione anti-Califfo, ci sono l’Arabia saudita e le altre monarchie sunnite del Golfo, che vedono negli jihaidsti una minaccia, ma che guardano con diffidenza almeno pari all’Iran, potenza regionale sciita. Riad e le altre capitali sunnite non sono del resto allineate su tutti i punti: alcune, in passato, hanno armato e foraggiato le milizie integraliste, in funzione anti-sciita in Iraq ed anti-Assad in Siria.

L’Iran gioca nel conflitto la carta della ritrovata legittimità internazionale, dopo l’accordo sul nucleare: combattendo il Califfo, Teheran tutela gli sciiti della Regione e, in Siria, il regime del presidente alauita Assad, mobilitando pasdaran ‘volontari’ o gli Hezbollah. Resta da vedere come l’Iran, dopo il conflitto, vorrà giocarsi le posizioni, o i crediti, acquisiti.

La Turchia ha certo fornito armi agli jihadisti, in funzione anti-Assad, o almeno alle milizie di al-Nusra. Poi, s’è scoperta nemica del Califfo e ha iniziato a bombardarne le postazioni, solo per ottenere la patente di nemica del terrorismo e potersene fregiare contro i curdi. Che, con i loro peshmerga, sono sul terreno l’incubo peggiore delle unità integraliste, battendosi per conservare l’integrità e l’autonomia dei loro territori e sperando di poterne, alla fine, ricavare un’indipendenza che nessuno vuole concedere loro.

E poi c’è la Russia, tenutasi a lungo fuori dai giochi militari, con Putin in veste di protettore di Assad. Adesso, invece, la Russia è in campo, più a fianco di Assad che contro il Califfo. Ma l’impressione è che senza un ravvicinamento trra Washington e Mosca non si uscirà dal pantano siriano: un passo avanti è stato fatto con la risoluzione votata venerdì notte alle Nazioni Unite.

Nei contatti intrapresi per la sua ‘diplomazia di guerra’, il presidente Hollande scoprirà che alcuni amici fidatissimi, come la Germania e l’Italia, gli danno, per la lotta al terrorismo, meno soddisfazione militare di Russia, Usa e Gran Bretagna. Anche se nessuno è pronto a mandare sul terreno i propri uomini e tutti preferiscono affidare il lavoro cruento ad altri, che siano pasdaran o pershmerga.

E gli intrecci di rapporti diventano ancora più paradossali quando si parla d’armamenti e d’interessi economici. Nessuno compra il petrolio del Califfo, ma lui ne vende – si dice – un milione di dollari al giorno. E nessuno arma il Califfo, ma i percorsi delle forniture militari sono tortuosi e spesso indecifrabili persino all’intelligence: dalla Sardegna, è stata recentemente documentata la partenza di armi per Riad, che non servivano a combattere il Califfo, ma l’insurrezione sciita nello Yemen sunnita. Nello stesso filone, il Pentagono – scrive il Washington Post - s’è perso mezzo milione di armamenti inviati nello Yemen, dopo avere già visto volatizzarsi buona parte di quelli forniti ai ‘lealisti’ iracheni.

domenica 22 novembre 2015

Germania: Merkel, cancelliere 10 anni, da leader riluttante a punto fermo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/11/2015

Helmut Kohl, 16 anni da cancelliere, e Konrad Adenauer, 14 anni, sono ancora lontani e, forse, non saranno né raggiunti né superati. Ma Angela Dorothea Merkel, che oggi compie 10 anni alla guida della maggiore potenza economica europea, e terza al Mondo, è già salita sul podio nella classifica dei leader tedeschi più longevi al potere. Nessuno ci avrebbe scommesso un euro nel novembre 2005, quando vinse, per errore, le elezioni tedesche.

L’errore non fu suo, ma del cancelliere uscente, il socialdemocratico Gerhard Schroeder, che, convinto di farcela, aveva convocato elezioni politiche anticipate. E, invece, Schroeder fu battuto, vittima delle riforme lungimiranti imposte a un Paese, che all’inizio del XXI Secolo era il ‘malato d’Europa’ – roba da non crederci, oggi -. Schroeder rimase a lungo incredulo, prima di rassegnarsi - lui e il suo partito, l’Spd – a fare da spalla alla Merkel e alla sua strana solita coppia Cdu/Csu.

Prima donna a diventare cancelliere in Germania, la Merkel ha una storia personale, prima ancora che politica, peculiare, nel dopoguerra tedesco: nacque ad Amburgo nel 1954, quando il suo Paese era ormai spaccato in due, figlia di Host, un pastore luterano, e di Herling, insegnante di latino e d’inglese, iscritta al Partito socialdemocratico. I nonni materni erano della Prussia orientale e, dopo la guerra, si trovarono a vivere in Polonia.

Angela era ancora bebé quando il padre divenne pastore di Templin, nel Brandeburgo, 80 km a est di Berlino. La famiglia Merkel si trasferì, quindi, nella Repubblica democratica tedesca e lì Angela crebbe, studiò, visse, si sposò, fece politica fino alla riunificazione tedesca, nel 1990. Curiosamente, la Merkel, laureata in chimica, porta tuttora il nome del primo marito, Ulrich Merkel, uno studente di fisica conosciuto durante uno scambio universitario a Mosca, sposato nel 1977, ma da cui divorziò già nel 1981. L’attuale marito è Joachim Sauer, un chimico-fisico, sposato nel 1998, incontrato quando lavorava all’Accademia delle Scienze della Rdt.

La sua vittoria elettorale e la sua ascesa a cancelliere nel 2005 sembravano definitivamente sancire il superamento dello spartiacque Est/Ovest fra i tedeschi e colmare il ritardo della Germania, unico fra i grandi Paesi dell’Europa Continentale a non avere ancora avuto una donna a capo del Governo. Ma molti pensavano che Angela sarebbe stata una meteora alla Edith Cresson in Francia piuttosto che una ‘Iron Lady’ alla Margareth Thatcher in Gran Bretagna – e, invece, fra un anno e mezzo diventerà la più longeva ‘donna al comando’ di questa Terra -.

Portavoce dell’ultimo governo post-comunista della Repubblica democratica tedesca, parlamentare del Meclemburgo dopo la riunificazione, presidente della Cdu nel 2000 e leader dell’opposizione – alla testa del gruppo Cdu/Csu al Bundestag - dal 2002, la Merkel, divenuta cancelliera, s’è progressivamente imposta come la leader europea più coerente e più coriacea, capace di perseverare nell’errore –come a molti appare la sua tenacia su rigore e austerità, che però piace ai tedeschi -, ma anche di assumere decisioni coraggiose e inattese – come l’apertura ai rifugiati siriani -.

In Germania, la Merkel è passata vittoriosa attraverso altre due elezioni, nel 2009 e nel 2013, formando e guidando coalizioni diverse: dopo il 2009, governò con i liberali; dopo il 2013, è tornata a governare con i socialdemocratici. Ha presieduto i G8 a due riprese, i Consigli europei nel 2007 Per Forbes, che stila ogni anno una speciale classifica, è “la donna più potente al Mondo”.

Favorita dalla statura non eccezionale dei suoi ‘compagni di strada’ europei, in Francia e in Italia, senza contare la divergente Gran Bretagna, la Merkel, cui bene s’adattava il termine coniato per la Germania, di “leadership riluttante”, è man mano diventata punto di riferimento di tutte le decisioni europee degli ultimi sei anni, dopo lo scoppio della crisi. Ed è stata anche l’interlocutore, se non privilegiato, obbligato del presidente Usa Barack Obama, dopo avere avuto rapporti distaccati con George W. Bush. E pure il presidente russo Vladimir Putin, uno che spesso fa di testa sua, l’ha spesso scelta come referente e qualche volta l’ha pure ascoltata, come nella notte di Minsk, quando si raggiunse un compromesso sull’Ucraina. Dei premier italiani incontrati, il più disprezzato è stato Berlusconi, il più apprezzato Monti, quello non ancora capito Renzi.

Durante il suo primo mandato, la Merkel proseguì l’azione di riforma di Schroeder, modernizzando il sistema sanitario e puntando sull’energia –con scelte parzialmente rinnegate, dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima in Giappone-. Il secondo mandato è stato quasi monopolizzato dalla risposta alla crisi economica, da cui la Germania è uscita prima e meglio dei partner europei. Il terzo mandato ha visto attenuarsi alcune rigidità della Merkel 2, una maggiore attenzione alle crisi internazionali – più l’Ucraina che il conflitto nel Grande Medio Oriente – e, l’estate scorsa, il colpo di scena dell’accoglienza di massa ai rifugiati siriani.

Terrorismo: Bruxelles, il week-end surreale d'una città di anime morte

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/11/2015

Un week-end di pioggia. E fa pure freddo. Come spesso a Bruxelles. Ma nulla è normale, in queste ore, nella capitale belga ed europea: “C’è un’atmosfera surrealista – dice Piet, funzionario di rango in pensione, usando un aggettivo entrato con Magritte nella cultura del Paese -, quasi irreale… In strada, c’è la polizia in tenuta anti-sommossa e non gira nessuno”. Invece, le luci delle case sono tutte accese, perché tutti sono tappati dentro: seguono le notizie alla tv.

Il livello di ansia è molto aumentato, rispetto al momento delle irruzioni, delle perquisizioni e degli arresti a Meulenbeeck, a nord-ovest del centro: quello è un quartiere in cui funzionari europei e belgi benestanti, diplomatici e giornalistici possono vivere una vita senza mai metterci piede.

Questa volta, invece, l’allarme pare proprio concentrarsi sull’ ‘esagono’, il centro, che corrisponde al comune di Bruxelles vero e proprio, circondato da una raggiera di 18 altri comuni tutti parte della ‘agglomération bruxelloise’ – noi diremmo l’area metropolitana-. Margherita, un giovane medico che nei giorni scorsi non aveva esitato ad uscirsene per andare a un concerto, nonostante quanto avvenuto al Bataclan, oggi ammette “un po’ d’ansia”: doveva andare a Lovanio, ha rinunciato.

Chiusi i cinema, i teatri, le sale da concerto, gli uffici postali; sospese le attività sportive, anche le piscine; blindato l’Atomium; quasi impossibile lo shopping del sabato, perché molti centri commerciali sono rimasti chiusi.

C’è chi non si lascia scoraggiare. Tom, irlandese, funzionario europeo, sarebbe andato a cantare nel coro della sua parrocchia, questa mattina, se una caviglia in disordine non lo bloccasse in casa: i luoghi di culto, infatti, sono aperti, preghiere, riti, messe si possono fare.

E Sonia, anche lei funzionaria europea, è regolarmente andata a fare opera di volontariato all’Ospedale St.Luc, alla periferia Est. Rientrando ha notato che Rob, il supermercato ‘gourmet’ di lusso e di qualità, sul Ring, era aperto, ma regolamentava il flusso dei clienti –pochi, del resto -, controllandoli all’ingresso.

Rue Louise e Rue Neuve, le vie dello shopping d’abbigliamento, elegante la prima, popolare la seconda, sono chiuse: l’una di fatto, l’altra d’autorità. “Molti negozianti – testimonia Sonia – hanno scelto di non aprire o, se l’hanno inizialmente fatto, hanno poi chiuso”. Piet dice: “I ristoranti rimasti aperti sono deserti”. Antonio, giornalista, racconta: “Sono andato al Bricocenter, il sabato è sempre affollatissimo, non c’era un’anima”.

Mary-Ann, insegnante, ha i genitori che vivono nelle Fiandre: “Mi tempestano di telefonate, sono preoccupatissimi”. E Patrizia racconta che chi vive ad Anderlecht da tempo riferisce che s’avverte tensione, nei quartieri a ovest, con sintomi d’intolleranza integralista.

Il centro della politica e delle istituzioni è blindato: al Sablon, dove il sabato e la domenica c’è un mercatino degli antiquari, frequentatissimo, i commercianti sono arrivati di buon’ora con la loro mercanzia, senza essere stati avvertiti della situazione, ma hanno dovuto rinunciare ad allestire i banchi. Oggi, il mercato du Midi, vicino alla stazione dei teni principali, e il mercato delle pulci alle Marolles, non si faranno.

Hanno rinviato anche il concerto di Johnny Hallyday. “E’ molto demoralizzante”, commenta Piet. E non si riferisce al fatto che Johnny canti ancora: questa Bruxelles è – l’immagine è d’Antonio - “una città di anime morte”.

sabato 21 novembre 2015

Mali: attacco all'hotel degli stranieri, vittime, ostaggi


Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/11/2015

Profeta di sventure: parlando in pubblico giovedì, il presidente Hollande aveva detto che il sedicente Stato islamico ce l’ha con la Francia non solo perché Parigi lo bombarda in Siria, ma anche perché intervenne nel Mali nel 2013, ottenendo una "vittoria".

Meno completa e meno risolutiva, però, di quanto Hollande si illudesse: ieri, ci sono state almeno 27 vittime in un’azione terroristica, a Bamako, circa 150 ostaggi sono stati liberati, tre integralisti uccisi.

A una settimana esatta dalla carneficina di Parigi, il terrore jihadista torna a colpire la Francia e i suoi interessi. Lo fa nel Mali, una delle tante ex colonie. "I terroristi nel 2012 si sono accaniti contro la cultura di quel Paese", "hanno imposto divieti, hanno sottomesso le donne", "la Francia ha dovuto prendersi le sue responsabilità", aveva detto Hollande. Sollecitando l’aiuto dei partner europei, lunedì, a Bruxelles, dopo la carneficina del venerdì 13, il governo di Parigi non aveva fatto riferimento alla Siria, ma aveva chiesto di non essere lasciato solo proprio nel Sahel e nell’Africa sub-sahariana. Dove, a dire il vero, nessuno ha mai dato mandato alla Francia di essere militarmente presente, come retroguardia della colonizzazione o avanguardia dell’Occidente.

Ieri mattina, un albergo nel centro di Bamako, il Radisson/Blu, è stato attaccato e occupato da un commando armato integralista, composto – pare – da una decina di persone e giunto a bordo di un veicolo con targa diplomatica. Sono state prese in ostaggio almeno 170 persone, 130 clienti e una quarantina di dipendenti. Dopo ore di assedio, le forze speciali maliane hanno dato l’assalto a più riprese e a metà pomeriggio hanno completato la liberazione degli ostaggi superstiti, rinvenendo 27 cadaveri – 15 al piano terra e 12 al primo piano – fra cui almeno un francese e un belga -.

Gli jihadisti avevano lasciato andare, per loro scelta, quelli che sapevano recitare il Corano: tra questi, cinque dipendenti della Turkish Airlines e 12 dell’Air France.

Fuori dall’hotel, transennato e isolato, si sono raccolti soldati, polizia e forze speciali maliane, con elementi della forza di peacekeeping dell’Onu, oltre a militari francesi di stanza nella vicina ambasciata. Da Parigi partivano alla volta di Bamako una quarantina di 'teste di cuoio' della gendarmeria e una decina di esperti della polizia scientifica.

Al momento della presa d’ostaggi, dentro l'hotel c'erano francesi, americani, turchi, indiani, cinesi e guineiani. Il Radisson/Blu è un albergo con clientela internazionale, molto frequentato da diplomatici e da uomini d'affari stranieri, considerato il più sicuro della capitale.

L'attacco jihadista all'hotel, situato nella zona residenziale della citta, è cominciato di buon’ora, intorno alle 7:00 di mattina. Gli assalitori sparavano colpi di arma da fuoco e urlavano in arabo ‘Allah è grande’, ha raccontato un testimone. Sekouba Bambino Diabate, un cantante guineiano, ha detto di aver sentito i terroristi parlare tra di loro in inglese. Le autorità francesi hanno chiesto ai loro connazionali in città di non uscire dalle case e hanno chiuso le loro scuole.

Per varie ore, la confusione è stata massima. In un primo tempo i servizi di sicurezza maliani indicavano che il commando apparteneva ad Ansar Din, di cui numerosi attentati nella capitale maliana sarebbero già stati sventati. Poi, l’intelligence maliana chiamava in causa il gruppo militante al-Mourabitoun, legato ad al Qaeda e che avrebbe pure rivendicato l’azione su twitter. Il gruppo al Mourabitoun, fondato da Mokhtar Belmokhtar, un ex comandante di al Qaeda nel Maghreb, recentemente si sarebbe unito all'Isis. Belmokhtar lo ha però smentito.

Nel 2012, il Malì settentrionale fu occupato da milizie jihadiste, in parte legate ad al-Qaeda. Molti gruppi jihadisti furono snidati grazie a un'operazione militare internazionale su iniziativa francese, lanciata nel gennaio 2013 e che è ancora in corso. Ma alcune zone del Paese, specie nel Nord, al confine con l’Algeria, rimangono fuori dal controllo delle forze maliane e straniere loro alleate. Dall'inizio del 2015 gli attacchi si sono estesi al centro e, da giugno, al sud del Paese, fino a raggiungere la capitale.

Clima: Cop 21; Gaiani, non sarà un fiasco come Copenaghen

--> Scritto per LaPresse il 20/11/2015 

La conferenza sul clima di Parigi, la Cop21, non sarà un fiasco come quella di Copenaghen del 2009: ne è sicuro l’ambasciatore Massimo Gaiani, direttore generale alla Farnesina per la mondializzazione e le questioni globali, uno degli italiani più coinvolti nella preparazione dell’evento che s’aprirà il 30 novembre, presenti capi di Stato o di governo, ministri e delegazioni di 194 Paesi.
L’ambasciatore Gaiani è in grado di valutare le differenze d’approccio tra allora ed oggi, perché visse pure la preparazione di quell’appuntamento, in altra veste, come negoziatore da Palazzo Chigi.
In una conversazione con LaPresse, rileva che “alla vigilia di Copenaghen, le condizioni erano completamente diverse, l’atmosfera non era quella che si respira ora, non c’era assolutamente determinazione a chiudere da parte di alcuni dei principali attori. L’Unione europea portò avanti una posizione di ‘guidare con l’esempio’, che ci costò pure qualcosa, ma che non funzionò. Oggi, le condizioni sono molto più rassicuranti, anche se gli obiettivi sono leggermente diversi. Tantissimi Paesi partecipano convinti”.
La differenza maggiore è che “ormai il cambiamento climatico è veramente entrato nell’agenda di ogni incontro internazionale, multilaterale e bilaterale”. E “l’Italia ha fatto della campagna di sollecitare tutti gli altri Paesi ad una politica più virtuosa una delle sue linee guida”.
D – L’Italia si riconosce totalmente nella posizione dell’Unione europea, che conduce il negoziato per i 28?
L’Ue ha indicato con largo anticipo – l’ha fatto sotto presidenza italiana, lo scorso autunno – l’impegno di ridurre entro il 2030 del 40% le emissioni rispetto al 1990: è un impegno molto significativo, perché è evidente che più si arretra il punto di partenza - in anni in cui le emissioni continuavano a crescere - più l’impegno è difficile da realizzare. Questo è l’impegno complessivo europeo: resta da determinare come i 28 se lo suddivideranno.
D – Come l’Ue pensa di rispettare il proprio impegno?
Si dovrà prendere in considerazione un mix di politiche perché la riduzione delle emissioni si può realizzare in tanti modi: migliorando l’efficienza energetica, che è la prima fonte rinnovabile o verde; aumentando la quota delle rinnovabili; con atteggiamenti virtuosi dei grandi emettitori che pesano per un 60-70% sulla produzione di gas serra. E’ evidente che c’è tutto un negoziato da fare; e che bisognerà tenere conto della nostra costante posizione, spingere l’Ue e tutti gli altri Paesi partner a fare di più, anche perché l’Italia ha un territorio naturalmente fragile ed è quindi soggetta più di altri Paesi all’impatto del riscaldamento globale. Ricordiamoci che c’è un costo della ‘non-azione’ molto più alto del costo dell’azione.
D – Per l’industria europea, e italiana, non ci sono rischi?
Va tenuto ovviamente conto delle conseguenze industriali. Il basso costo del petrolio riduce l’impatto degli impegni sul nostro sistema industriale: non si vedono oggi casi in cui i diversi parametri ambientali possano portare fuori competizione interi apparati industriali. C’è ancora molta flessibilità; e chi è soggetto a limiti ha ancora modo di acquistare diritti di emissione a prezzi relativamente contenuti.
Bisogna trasformare la de-carbonizzazione dell’economia da un fattore di debolezza in un’opportunità. E l’Italia ha fatto abbastanza per questo, forse più in chiave esterna che in chiave interna: le aziende italiane che si sono collocate su questo mercato e che stanno operando all’estero, vendendo tecnologie ambientalmente sane, sono moltissime: stiamo vendendo tecnologia verde all’estero. Io credo che tutto si giocherà sull’innovazione, sullo sforzo di ricerca: ci sono prospettive per giungere a una costante, importante riduzione dei costi delle energie rinnovabili. E’ su questa frontiera che si gioca tutto.
D - L’enciclica ‘Laudato si’ di Papa Francesco ha avuto un impatto sulla preparazione della Cop21?
In effetti, non era mai successo prima di avere una simile posizione da parte della Chiesa. D’altra parte i segni dell’impatto dei cambiamenti climatici in termini sociali, di trasferimenti di popolazioni che si trovano a fuggire da situazioni non più sostenibili, sono sotto gli occhi di tutti. E direi che questo è uno dei fattori che ha spostato molte posizioni. Sono convinto che alla base del forte cambiamento che c’è stato da parte dei due maggiori emettitori – per le dimensioni della loro economia –, cioè Cina e Usa, sono dettati anche da ragioni interne, dalla situazione dell’ambiente in Cina, che ormai è difficilmente sostenibille, o dalla siccità in California. Entrambi i Paesi hanno assunto una posizione coraggiosa e tanti altri li hanno seguiti, come, ad esempio, il Brasile.

venerdì 20 novembre 2015

Clima: Cop21; Gaiani, niente vincoli, ma riscaldamento più che dimezzato

 Scritto per La Presse il 19/11/2015, insieme a Matteo Bosco Bortolaso

"L'accordo vincolante, che ovviamente noi auspicheremmo fortemente come italiani ed europei, non sembra realizzabile. Ma io sono sempre del parere di vedere nel bicchiere mezzo pieno la parte piena: partiamo da una situazione in cui 160 Paesi hanno dichiarato i loro impegni. Non era mai successo prima. Questi 160 Paesi rappresentano il 90% delle emissioni mondiali. Dai calcoli fatti, la totalità degli impegni rispettati porterebbe a fine secolo ad un aumento della temperatura di 2,7 gradi. E' troppo, ma siamo lontani 85 anni. Si parte quindi da una base di tutto rispetto, molto importante. Se si andasse avanti con i ritmi attuali, l'aumento della temperatura a fine secolo sarebbe di 6 gradi. Riusciamo, quindi, a più che dimezzare questa previsione".

L'ambasciatore Massimo Gaiani, direttore generale alla Farnesina per la mondializzazione e le questioni globali, è uno degli italiani più coinvolti nella preparazione della Cop21, la conferenza sul clima che, nonostante la carneficina a Parigi del 13 novembre, si aprirà nella capitale francese il 30 novembre, presenti capi di Stato o di governo, ministri e delegazioni di 194 Paesi.

In una conversazione con LaPresse, l'ambasciatore Gaiani conferma le indicazioni venute da più parti sulla difficoltà di giungere a Parigi a un accordo vincolante, ma sottolinea i risultati positivi già raggiunti e ulteriormente migliorabili. "Noi insisteremo particolarmente - dice, riferendosi all'Italia e all'Ue - sul carattere vincolante delle revisioni periodiche: è un obiettivo assolutamente alla portata, anche se bisogna vedere con quale cadenza, con quale regolarità ci saranno le revisioni periodiche.

D - Ma se i risultati sono già conseguiti, perché riunire a Parigi una conferenza così importante, con tutti i rischi -di fallimento, oltre che di sicurezza- che ciò comporta?

Le cose non sono così semplici: dopo lunghe trattative, abbiamo un testo di una cinquantina di pagine con una serie d'opzioni aperte. Una, in particolare, riguarda il nesso tra l'impegno degli Stati Ocse più ricchi della Terra - e di quelli emergenti che possono farlo - e il sostegno a quei Paesi che hanno invece bisogno di aiuti. E' una questione estremamente importante: siamo usciti dalla logica di Kyoto, che prevedeva allegati con impegni precisi solo per una categoria di Paesi. Adesso c'è un obiettivo comune, pur in base a responsabilità differenziate, in funzione di ciò che ciascuno può fare e del punto da dove ciascuno parte. Ci sono ancora sul tavolo gli aspetti finanziario e del trasferimento tecnologico, altrettanto importanti.

D - Ci sarà qualcosa di analogo al protocollo di Kyodo, che prevedeva un preciso taglio percentuale delle emissioni prendendo come dato base il 1990?

Il concetto degli impegni nazionali è molto più elastico. Ogni Paese ha scelto la base che ha ritenuto più opportuna, per cui c'è chi parte, come l'Unione europea, dal 1990, e chi parte, come Stati Uniti e Cina, dal 2005; c'è chi parla di riduzioni delle emissioni in termini assoluti e c'è chi invece si riferisce alla intensità energetica o parla di rapporto della crescita delle emissioni in funzione dell'andamento del Pil. E' come se qualcuno contribuisse con la propria moneta e qualcun altro con beni in natura. Però, l'insieme di questi impegni porta ad un risultato estremamente significativo. Il problema maggiore - ed è un'altra delle questioni sul tappeto - è che tipo di sorveglianza e di valutazione verrà poi fatta.

D - Per i controlli, si prevede di costituire una struttura 'ad hoc'?

Ci penseranno le organizzazioni già esistenti, a livello di Nazioni unite e di altre agenzie specializzate. Si tratterà di vedere come il meccanismo funzionerà. E ci sarà tutta una serie di elementi che daranno una certa flessibilità a questo sistema. I Paesi emergenti hanno ad esempio insistito perché, in caso di catastrofe naturale o di altri eventi, il loro impegno potrà essere riconsiderato.

D - Quindi è possibile immaginare una sorta di foro dell'Onu in cui i Paesi ciclicamente s'incontrano e si rileva, più o meno perentoriamente, che alcuni impegni non sono stati rispettati...

Esatto. Però direi che, rispetto a precedenti esperienze, qui ci sono spinte molto forti. Il fronte non è più tra Paesi ricchi che chiedevano riduzioni - avendo già fatto loro un percorso di crescita - e Paesi in via di sviluppo che attraversavano la fase in cui i Paesi industrializzati avevano inquinato senza attenzione. Ora abbiamo gruppi di Paesi come le piccole isole o che si trovano su coste particolarmente a rischio che esercitano una fortissima pressione. Per cui le voci a sostegno sono forti. E devo dire che è radicalmente cambiato anche l'approccio di molte grandi imprese. Ne abbiamo due esempi piuttosto importanti in casa nostra: Enel e Eni sono molto impegnate e hanno ben compreso che si deve cambiare, si deve fare qualche cosa.

D - Però non sono previste sanzioni, se uno non rispetta gli accordi?

No, non c'è un impianto sanzionatorio.

D - E c'è un piano di aiuti?

Al di là di un primo contingente di 100 miliardi l'anno che era stato promesso a Copenaghen e che è in fase d'allocazione, è chiaro che il sistema ha margini di miglioramento ampi. Siamo, però, confrontati ad atteggiamenti virtuosi da parte di molti Paesi: negli ultimi due, tre anni, a fronte d'un incremento importante del Pil, non c'è stato un incremento delle emissioni a livello globale ed è la prima volta nel secolo che accade. Alcuni Paesi emergenti, nel loro ritmo di sviluppo, continuano a incrementare le emissioni, ma vengono compensati dalle riduzione di altri.

D - Se ci proiettiamo a gennaio 2016, che cosa avremo?, un protocollo di Parigi? E ne servirà una ratifica?

L'accordo che salterà fuori da Parigi avrà un punto di partenza nel 2020. E quindi avremo da lavorare anche sulla transizione da qui ad allora. Si sta immaginando una specie di midterm review, nel 2017-'18, per vedere che cosa è stato fatto e che cosa rimane da fare. Però il senso di urgenza si avverte da parte di tutti. 

giovedì 19 novembre 2015

Usa 2016: repubblicani; lascia pure Jindal, ne restano 14

Scritto per www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net il 19/11/2015

La stragrande maggioranza degli americani non sapeva chi fosse prima e continua a non saperlo ora: il governatore della Louisiana Bobby Jindal, di origine indiana, ha lasciato la corsa alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, riconoscendo con realismo che “non tocca a me, questa volta”.

Jindal, 44 anni, il più giovane del lotto alla pari con Marco Rubio, non ha partecipato a nessuno dei quattro dibattiti in diretta televisiva finora svoltisi fra i candidati repubblicani, perché i sondaggi lo hanno sempre relegato nell’evento “di serie B”, non trasmesso in diretta nazionale.

Jindal è il terzo degli aspiranti repubblicani a farsi da parte, dopo l'ex governatore del Texas Rick Perry ed il governatore in carica del Wisconsin Scott Walker: un trend che pare indicare come questa non sia una buona tornata per i governatori e gli ex, anche se in corsa, fra i 14 restanti, vi sono due governatori in carica e quattro ex.

Jindal, che nei sondaggi raramente andava oltre l’1% di suffragi, ha annunciato il suo ritiro sugli schermi della Fox da Baton Rouge, la capitale del suo Stato, senza per il momento appoggiare nessun altro aspirante alla nomination, ma dichiarando il suo sostegno a quello che sarà il candidato repubblicano. Poi, su twitter, ha scritto: “E’ stato un onore incredibile per me essere candidato alla presidenza di questo grande Paese”.

Il governatore, oltre e non fare breccia nell’elettorato, stava anche incontrando difficoltà finanziarie. In gennaio, terminerà il suo mandato e, non potendo essere rieletto, lavorerà per il think tank che ha creato pochi anni or sono, ‘America Next’, con l’obiettivo che il 21° Secolo sia “un secolo americano”.

In testa alla corsa, secondo l’ultimo rilevamento Reuters/Ipsos, è tornato il magnate dell’immobiliare Donald Trump, che, dopo il dibattito di Milwaukee, ha guadagnato 17 punti rispetto al 6 novembre quando era praticamente alla pari con il rivale Ben Carson, ex neuro-chirurgo e unico nero in lizza, intorno al 25%: lo showman è balzato al 42%, mentre Carson è sceso a circa il 20%. Se Trump non era svettato nell’ultimo dibattito televisivo repubblicano, la differenza l’ha fatta la sua partecipazione a "Saturday Night Live" sulla Nbc, con il picco degli ascolti degli ultimi due anni per il popolare programma, 9,3 milioni di telespettatori. (fonti vv - gp)

mercoledì 18 novembre 2015

Siria: l'opzione militare di Mosca e Parigi, contro il Califfo come contro Hitler

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/11/2015

Con l’istinto primordiale dell’occhio per occhio dente per dente, la Francia e la Russia vanno rabbiosamente alla guerra contro lo Stato islamico. A 72 ore dalla carneficina di Parigi, l’aviazione francese bombarda per la seconda notte Raqqah, la capitale siriana del Califfo. E i russi, i cui servizi segreti hanno ora la certezza che l’Airbus sul Sinai è stato vittima di un attentato integralista, colpiscono sempre Raqqah con furia inusitata: testimoni riferiscono che i bombardamenti sono andati avanti tutta la giornata.

Sulla Siria, piovono anche missili cruise da unità navali nel Mar Caspio, che, per la prima volta, sorvolano lo spazio aereo turco –un segno, forse, di maggiore integrazione delle operazioni militari contro le milizie jihadiste-. Il presidente Putin proclama: “La vendetta è inevitabile, puniremo i responsabili”, riecheggiando “la Francia sarà senza pietà per i terroristi” del presidente Hollande. Mosca intende agire sulla scorta dell’articolo 51 della Carta dell’Onu, che prevede il diritto all’autodifesa.

Se Papa Francesco non esita ad agitare l’immagine di una Terza Guerra Mondiale, il presidente della commissione Affari internazionali della Duma, Alexei Pushkov, richiama la Russia e l’Occidente a superare le divergenze e a costituire una coalizione contro lo Stato islamico come contro il Nazismo. "Siamo stati in disaccordo negli Anni Trenta (del '900) – ricorda Pushkov -, ma ciò non ci ha impedì di coalizzarci efficacemente contro Hitler. E oggi dovremmo fare lo stesso".

Pushkov parlava a un convegno a Bruxelles. Dove tutti i 28 Stati Ue hanno risposto sì alla richiesta di "aiuto ed assistenza" della Francia dopo gli attentati di Parigi. I ministri della Difesa dei Paesi dell’Unione, riuniti per un consulto già previsto, hanno accettato all'unanimità la richiesta di Parigi di ricorrere all'articolo 42.7 del Trattato dell'Unione, finora mai invocato: se uno Stato membro è vittima di un'aggressione, gli altri sono tenuti ad aiutarlo con tutti i mezzi in loro potere.

Il che, però, non implica automaticamente l’uso della forza, che dovrebbe essere comunque autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu per avere legalità internazionale. E, del resto, non tutti gli europei condividono la linea bellicosa di Parigi e Mosca, anche se il premier britannico Cameron, parlando ai Comuni, apre all’ipotesi di raid in Siria.

L'aiuto della Ue potrebbe includere un maggiore supporto in Siria, Iraq e Africa, afferma il ministro della Difesa francese Le Drian: Parigi ringrazia i partner e lavorerà con loro per "fare l'inventario" delle azioni possibili. L'assistenza "deve essere rapida, altrimenti non ha senso": "La Francia non può fare tutto da sola nel Sahel, in Libano, e garantire la sicurezza sul territorio nazionale".

La responsabile della politica estera e di sicurezza europea Federica Mogherini precisa, però, che l'appoggio sarà accordato su basi bilaterali. E nessuno obietta a che la Francia deroghi ai vincoli sul deficit per rafforzare la sicurezza.

Segnali di un clima di collaborazione migliorato fra i nemici del Califfo vengono da Washington, dove fonti del Pentagono confermano che la Russia ha condotto "un numero significativo" di raid contro Raqqah, precisando che Mosca aveva preventivamente comunicato le azioni a Washington.

Il ministro della Difesa russo Shoigu torna ad escludere operazioni di terra e spiega: "I bombardieri a lungo raggio Tu-22 hanno condotto attacchi contro obiettivi dell'Is nelle province di Raqqah e  Deir Ezzor", mentre i missili cruise hanno colpito nelle aree di Aleppo e Idlib.

Hollande, che parla al telefono con Putin e con l’iraniano Rohani, decide, con il russo, di coordinare l’intelligence militare. Fra i nodi da sciogliere restano tempi e modi del ‘dopo Assad’ in Siria: il segretario di Stato Usa Kerry, in visita a Parigi, pensa che potremmo essere “a qualche settimana” dall’inizio della transizione, ma, sul terreno, i lealisti paiono all’offensiva, grazie al sostegno russo.

martedì 17 novembre 2015

Siria: G20, "colpire il Califfo", tra contraddizioni e distinguo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/11/2015

Colpire il Califfo. Nel portafogli. E’ una delle indicazioni che escono dal G20 di Antalya, svoltosi tutto sotto la cappa di lutto per la carneficina di Parigi. Peccato che fra la quarantina di Paesi che partecipano, a vario titolo, alla coalizione contro lo Stato Islamico, e persino fra i Venti Grandi, ve ne siano da cui partono, o sono partiti in passato, finanziamenti alle milizie jihadiste.

E’ una delle contraddizioni tra il dire e il fare che minano la credibilità delle conclusioni del G20. Un’altra è quella degli armamenti: al Califfo, nessuno ammette di venderli; ma lui, si direbbe, non ha proprio difficoltà a procurarseli.

Ma nessuno dei leader ha voglia di sottolineare le differenze, lasciando Antalya: si punta sul patto tra Obama e Putin, che sarebbe scaturito dal loro incontro di mezz’ora domenica pomeriggio, mentre le parole di Hollande al parlamento francese riunito in sessione plenaria a Versailles risuonano forti pure qui, “siamo in guerra”.

Ma il generale Camporini, un ex capo di Stato Maggiore italiano, avverte che le bombe su Raqqah hanno valenza solo politica, non militare: per sradicare la minaccia delle milizie jihadiste, stimate tra i 14 e i 20 mila uomini, non bastano i raid, bisogna schierare sul terreno tra i 60 e i 70 mila militari.

Impegni di maniera – La dichiarazione sul terrorismo del Vertice suona un po’ di maniera, quasi obbligata: i leader dei Grandi indicano come "priorita'" la lotta al fenomeno e si dicono preoccupati dal "crescente flusso di combattenti stranieri" e dalla "minaccia per tutti gli Stati, inclusi i Paesi d'origine".

"Siamo decisi a far fronte a questa minaccia –dicono- migliorando la cooperazione e sviluppando misure per prevenire e combattere il terrorismo, tra cui lo scambio d’informazioni e la gestione delle frontiere per monitorare i viaggi": un passaggio che suona quasi ironico, mentre la cronaca testimonia le difficoltà a comunicare fra di loro di Francia e Belgio, Paesi contigui.

I leader del G20 sottolineano che il terrorismo non dovrebbe essere associato a nessuna religione, nazionalità o etnia. E viene respinta l’equazione “rifugiati – terroristi”.

Mosca, l’Occidente troppo diviso – Per il Cremlino, la Russia e i Paesi occidentali “hanno capito la necessità di cooperare nella lotta al terrorismo internazionale”, ma “un accordo è impossibile” perché l'Occidente è diviso nei suoi approcci: “Non c’è una linea occidentale”, perché ogni Paese ha sfumature diverse di posizione e di atteggiamento.

Insomma, Putin, che non ha il problema di coordinarsi con altri, è pronto, ma non ha interlocutori, anzi ne ha troppi, anche se Obama è drastico: l’Is “è il volto del male e va distrutto”. “Se pensate che l’Occidente sia unito al 100% nei suoi approcci, vi sbagliate”, assicura una fonte russa: come darle torto, visto che neppure l’Ue ha una posizione comune.

Siria, verso il dopo Assad – Antalya, dopo Vienna, pare  avvicinare l’inizio della fine d’Assad, che – afferma la Turchia - "non si candiderà" nelle elezioni in Siria, dopo il periodo di transizione. Ankara la fa facile, Mosca ancora frena: si prospetta una nuova Costituzione entro 18 mesi e, quindi, nuove elezioni; ma Assad potrebbe lasciare il posto già prima a un governo di transizione.