Quando, il 22 novembre 1990, giunse a sorpresa,
inatteso, l’annuncio delle dimissioni di Margaret Thatcher, un collega
familiare con le contorte logiche politiche italiane mi chiese: “ E adesso?,
che cosa succede?”, cioè come manovrerà la Thatcher per riprendersi il potere
senza i bastoni fra le ruote che negli ultimi tempi il suo stesso partito le aveva
messo? “Non accadrà nulla –risposi-. La Thatcher lascia: ha finito, non tornerà,
non cercherà di farlo”. Quel giorno, ci azzeccai: una settimana dopo, John
Major, il suo delfino, le succedeva come premier. Fu la sua ultima vittoria: da
perdente, aveva fatto fuori il suo rivale, Michael Haseltine, che l’aveva
sfidata. Ma la previsione era troppo facile: quella era la Dama di Ferro, mica
un tiramolla nostrano delle galassie democristiana e socialista che ancora non
lo sapevano, ma erano già avviate al buco nero.
Che la signora in tailleur e borsetta, dai capelli
irrigiditi dalla lacca e dal sorriso esagerato stampato in viso davanti ai
flashes dei fotografi, fosse una tipa tosta i capi di Stato e di Governo
dell’allora Cee, che erano appena nove all'inizio, l’avevano capito fin dal suo
esordio, a un Vertice a Lussemburgo. La discussione s’incancrenì ben presto,
perché la Thatcher cominciò subito a tirare fuori il suo ‘I want my money back’,
‘Voglio indietro i miei soldi’, destinato a diventare per cinque anni, fino
alla metà del 1984, l’unico refrain dei
Consigli europei.
Credendo di esercitare pressione sulla collega
inesperta d’Europa e di potere, unica donna in un consesso fino ad allora
sempre e solo maschile, il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing a un
certo punto diede ordine che si preparasse la sua vettura, perché –disse- aveva
da fare a Parigi; e lo fece sapere alla stampa. Come a significare “qui stiamo
per finire, io me ne vado”. Manco per sogno: la vettura del presidente rimase
per oltre un’ora a motore acceso davanti al palazzo del Kirchberg che ospitava
i lavori. E la Thatcher tenne tutti in scacco. Quella volta e in tutti i
successivi Vertici, fino a che, a Fontainebleau, nel giugno 1984, un altro
presidente francese, François Mitterrand, che non la sopportava, come non la poteva
soffrire –“m’ha sempre dato il mal di testa”- il cancelliere tedesco Helmut
Kohl, non riuscì a confezionare l’accordo sul rimborso alla Gran Bretagna e “a
spazzare dall'uscio della Cee –annunciò- la polvere del passato”.
Nacque da quel compromesso la stagione più fertile
dell’integrazione europea: l’anno dopo, a Milano, ci fu l’atto unico sul mercato
interno, che il liberismo mercantilista della signora Thatcher non ostacolò; e partirono
di lì i preparativi del Vertice di Maastricht che, il 9 dicembre 1991, sancì l’Unione
europea e gettò le basi della moneta unica. Ma, a quel punto, lei non c’era già
più.
Con l’ideologia ostinatamente liberista della Thatcher,
e anche con i suoi modi, uno poteva e talora doveva essere in profondo
disaccordo: pensiamo a Bobby Sands e agli altri dell’Ira lasciati morire di
fame nelle carceri britanniche. Ma la coerenza e la fermezza non le possono
essere negate; e neppure i risultati conseguiti. Nel bene e nel male, con lei
bisognava fare in conti. E con lei bisognava confrontarsi: aggirarla non era
possibile. Lo capì fra i primi Ronald Reagan , che la volle ed ebbe sempre al
fianco, mai contro.
Prese un Paese in crisi e in declino, gli restituì
orgoglio e competitività. Anche con la guerra, impegnandolo in un conflitto da
cui persino gli americani tentarono di scoraggiarla: mandò la flotta in capo al
mondo, per riprendersi le Falkland, isole ‘britanniche’ occupate dalla
dittatura argentina: una guerra atroce, come tutti i conflitti, che Londra non
aveva voluto, ma il cui esito risultò determinante per il ritorno della
democrazia in Argentina. Quando il segretario di Stato Usa Alexander Haig, un
generale, provò a dissuaderla, ricordandole quanto lontane erano le Falkland,
lei gli ricordò che pure la Hawaii sono lontane dall’America, ma che l’attacco
a Pearl Harbor non era rimasto impunito.
Nessun commento:
Posta un commento