Scritto per Il fatto Quotidiano del 20/05/2011
Barack Obama annuncia un nuovo approccio degli Stati Uniti verso il Medio Oriente; e chi non ha proprio fantasia riparla di Piano Marshall. Un piano di aiuti per miliardi di dollari, in effetti, c’è, negli impegni del presidente, ma non è il punto focale, né il fatto nuovo, del discorso, il più importante rivolto al Mondo arabo dopo quello del Cairo all’inizio del mandato.
Nella prima riflessione organica sulla politica internazionale dallo sbocciare della primavera araba e dall’avvio del domino dei satrapi –“due leader hanno lasciato, altri seguiranno… c’era troppo potere in poche mani, ora c’è aria nuova”-, Obama colloca l’America al fianco di quanti manifestano per la democrazia. E giudica la pace in Medio Oriente “più importante che mai”, sollecitando un rilancio dei negoziati –“lo ‘statu quo’ è insostenibile”, dice- e riproponendo, corretta, la formula dei due Stati per due popoli, l’israeliano e il palestinese che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza. E, per questo, aggiunge lo Stato palestinese dovrà essere “smilitarizzato”, e i confini di Israele dovranno essere basati su quelli del 1967. Ma pochi credono che la novità e l’appello possano davvero fare ripartire la trattativa, in un momento di grande incertezza che acuisce la prudenza e la diffidenza israeliane. Il premier Netanyahu dice no a un ritiro sulle posizioni di 44 anni or sono: Hamas non gradisce; solo l'Anp ci sta.
Obama parla anche dell’uccisione da parte di un commando americano di Osama bin Laden, capo e fondatore della rete terroristica al Qaida: ricorda che Osama “respingeva la democrazia e i diritti individuali per i musulmani e propugnava un estremismo violento”. Forse non casualmente, il discorso del presidente è preceduto di poche ore dalla diffusione di un video postumo dello sceicco del terrore, che fa pure lui l’elogio della primavera araba e promette collaborazione ai popoli che stanno abbattendo i loro tiranni. Per Obama, però, gli arabi, oggi, vedono l’estremismo di al Qaida come “un ostacolo”: la rete era già sconfitta prima ancora dell’eliminazione del suo capo, perché “l’immensa maggioranza dei musulmani capisce che il massacro di innocenti non è una risposta al loro desiderio di una vita migliore”.
Parlando al Dipartimento di Stato, introdotto da Hillary Clinton, il presidente prospetta “una profonda rottura” degli Stati Uniti con i regimi arabi, se non ci sarà un cambiamento di rotta “imperativo”, perché “la strategia della repressione non funziona più”. E se la prende in particolare con il dittatore libico Muammar Gheddafi e con il presidente siriano Bachar al-Assad, che –dice- “ha davanti a sé una scelta: può guidare la transizione o farsi da parte”. Se Assad, colpito personalmente da sanzioni americane, e il suo regime, messo sotto scacco pure dagli europei, non cesseranno le violenze contro i manifestanti e non libereranno i prigionieri politici, “continueranno a essere sfidati dall’interno e ad essere isolati dall’estermo”.
Obama accusa la Siria pure di collusione con l’Iran, “un regime ipocrita”, che nega il rispetto dei diritti umani alla sua gente e che aiuta Damasco a organizzare la repressione. E il presidente parla del Bahrein e dello Yemen, Paesi a vario titolo e con diversa affidabilità alleati degli usa nella lotta contro il terrorismo: invita a “un vero dialogo”, lì e altrove, e, per quanto riguarda il presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, al rispetto degli impegni verso la transizione.
Il piano di aiuti studiato per incoraggiare la democratizzazione del Mondo arabo ricalca il modello seguito dagli Stati Uniti per l’Europa orientale negli Anni Novanta, dopo la caduta del Muro e la fine della Guerra Fredda e il superamento del comunismo: due miliardi sono destinati solo all’Egitto, ma ci sono soldi pure per la Tunisia e gli altri paesi impegnati in riforme democratiche. Altri miliardi di dollari verranno dalle banche di sviluppo internazionali che sostengono piani di sviluppo multilaterali.
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