Una campagna di spot, più che di idee: una campagna dove anche l’economia deve diventare immagine, tanto la gente legge niente e ascolta poco. Sul palco delle convention, conta ben più un’espressione che un’affermazione: gli strateghi della campagna rivale sono in agguato per catturare una smorfia, o un lapsus, e trasformarli in micidiali contro spot.
La festa repubblicana a Tampa si congeda con un Romney che recita da moderato, dopo che il suo vice Paul Ryan aveva galvanizzato l’elettorato conservatore. Ma l’immagine che resta è quella di Clint Eastwood, che dialoga come in un film triste con la sedia vuota del presidente Obama. Il quale percepisce il pericolo e risponde più a Clint che a Romney: l’uomo che fu l’ispettore Callaghan della 44 Magnum ha ancora in canna il colpo letale.
Tutto è studiato, nel discorso d’investitura di Romney a candidato repubblicano. Ma non tutto è proprio studiato bene: lo spot finale, per esempio, quello della famiglia, propone sul palco di Tampa lui, lei e i figli cresciuti, tutti perfetti, tutti bianchi, biondo prevalente. Una scena da modello America Anni Cinquanta, una famiglia –diremmo noi- Mulino Bianco (loro pensano a una famiglia da minestre in scatola Campbell). Provate a confrontarla con la famiglia di Obama sul palco della vittoria a Chicago quella notte di novembre 2008: lui e lei, le bimbe ancora piccole, tutti neri, decisamente interprete dell’America multiculturale del XXI Secolo.
Come avevamo facilmente ipotizzato, Romney non abbandona gli indecisi di centro al campo rivale: non ricalca i toni di Ryan e fa un discorso complementare a quello del vice, cercando di stare vicino all’americano medio. Forse troppo: promette impegno per un’America migliore, contrappone il suo pragmatismo a quello che definisce “l’idealismo inconcludente” del presidente democratico, dice che “Obama vuole salvare il Mondo”, mentre lui vuole salvare “le famiglie”. Fin qui tutto bene. Ma poi rimpiazza lo ‘Yes we can’ dell’antagonista con uno slogan senza ambizioni, 'possiamo fare qualcosa': ecché ci vuole un presidente dell’America per riuscirci, non basta un Mr Smith qualsiasi?, un signor Romney, appunto.
A quel punto, Obama poteva quasi credere allo ‘scampato pericolo’: la convention repubblicana è passata, l’uragano è stato Isaac e non Romney e lo stesso Ryan non potrà diventare più di una tempesta tropicale, perché non può certo sovrastare per intensità il suo capo. Ma la ‘tramvata’ che il presidente non s’aspetta è arrivata da un amico suo, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, uno nominato da Bush, ma da lui confermato e che Romney gli ha già fatto una croce sopra, se mai divenisse presidente.
Bernanke parla a Jackson Hole, nel Wyoming, pensatoio annuale della Fed: dice che la stagnazione del mercato del lavoro preoccupa e che la situazione dell’economia non è per nulla soddisfacente; e non esclude il ricorso a “politiche non convenzionali” –proprio così: la stessa espressione usata da Mario Draghi-.
Tutte cose che, se le dice Ryan a Tampa, uno fa spallucce e le mette fra gli spot della politica. Ma se le dice Bernanke ai suoi pari, uno ci crede davvero. E se sei Obama ti preoccupi: perché peggioramento dell’occupazione e raffreddamento dell’economia di qui a novembre darebbero la Casa Bianca al ticket repubblicano.
Che ora ci prova, fabbricando, con i soldi che ha –tanti, grazie al sostegno della finanza e della grande industria-, spot che mirano ad annichilire l’immagine di Obama più che a promuovere quella di Romney. Fin dalla prossima settimana, quando l’assise democratica a Charlotte dovrebbe, sulla carta, permettere al presidente di rimettere a distanza il rivale, avvicinatosi nei sondaggi nei giorni di Tampa. Nonostante alla convention sia giunto terzo: dietro Eastwood e Ryan, medaglia di bronzo ex aequo con la moglie Ann, brava all’apertura.
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