E’ un coro. Ma non siamo in una tragedia greca: quella che
ogni anno va in scena, nella settimana d’apertura dell’Assemblea generale delle
Nazioni Unite, è piuttosto un pezzo di commedia dell’arte, dove ciascuno recita
il suo personaggio. E molti, se non proprio tutti, dicono le stesse cose: la
crisi e la ripresa; la Siria e l’Iran; l’anno scorso, le speranze e le fanfare
della Primavera araba; quest’anno, i timori e i violini dell’Autunno arabo. A
dare il là al coro, è il presidente degli Stati Uniti, che parla sempre al
martedì, fra i primissimi. E gli altri, specie gli Occidentali, gli fanno
sovente eco.
Poi, ci sono quelli che cantano fuori dal coro. Sono i
cattivi della situazione: non rispettano i tempi, rompono gli schemi, dicono
quel che vogliono. Ma pur’essi recitano a soggetto, da capitan Fracassa della
diplomazia internazionale : parlano al Mondo, ma parlano soprattutto alla
propria gente –esattamente come gli altri leader -… In passato, il ruolo era
toccato al presidente venezuelano Chavez, o al leader libico Gheddafi, che,
preso il palco, non l’aveva più lasciato, per un tempo ben superiore a quello
pattuitogli. Questa volta, è toccato – e non era un esordio- al presidente
iraniano Ahmadinejad, che mercoledì ha fatto saltare tutta la scaletta di
altrui interventi col suo sproloquio; e che ha anche tratto giovamento
mediatico dalla protesta annunciata di Stati Uniti e Israele, i cui
rappresentanti hanno boicottato il suo discorso, abbandonando l’aula e
lasciando le sedie ostentatamente vuote. Un classico, anche questo.
A rimanersene buono sul banco degli accusati, per via dei
presunti programmi nucleari militari iraniani, Ahmadinejad non ci sta: dice che
chi possiede migliaia di armi atomiche –leggasi, gli Usa- non ha il diritto di
fargli la predica. E gira la frittata: non è l’Iran che minaccia l’esistenza di
Israele, ma sono “i sionisti” che rivolgono minacce all’Iran, i cui valori sono
“la pace e la stabilità”. Nessuna marcia indietro: bolla le sanzioni contro
l’Iran come “una pretesa e una vendetta”; esibisce la propria forza,
assicurando che Teheran neutralizzerà i tentativi di boicottaggio dei suoi
impianti; non chiude la porta al dialogo con Washington, ma chiede “rispetto”.
E non lo turbano le proteste, per altro sparute, che accompagnano il suo
intervento: davanti al Palazzo di vetro, c’è chi vorrebbe “riportare a casa
Bob”, cioè Robert Levinson, un ex agente dell’Fbi, scomparso in Iran cinque
anni or sono, mentre lavorava come investigatore privato.
Il discorso di Ahmadinejad è il paradigma del ‘fuori dal
coro’. Quello del premier Monti, invece, è il paradigma del ‘dentro il coro’: la crisi economica internazionale e il ruolo dell'Italia
nella nuova governance europea; le sfide della Primavera araba, allo snodo tra
evoluzione democratica e involuzione integralista, e del Mediterraneo; e,
ancora, legalità internazionale e lotta al terrorismo; impegno nel peacekeeping
-l’Italia ne è il principale protagonista, fra i Paesi occidentali-, sviluppo
sostenibile e sicurezza dell’ambiente, fino all'ormai annosa riforma del
Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Un intervento in inglese a 360 gradi, durato
20 minuti: la conferma che la missione di Monti a New York, densa di incontri
bilaterali e contatti, è parte dell'azione del governo “per favorire e migliorar
la comprensione e la percezione dell'Italia" a livello internazionale.
Poi ci sono gli outsiders, quelli che non hanno titolo per
esserci, ma vengono lo stesso per sfruttare l’impatto mediatico di questo
grande circo diplomatico. Julian Assange, l’uomo di Wikileaks, diffonde a New
York da Londra, dov’è asserragliato nell’ambasciata dell’Ecuador, un video-link
con cui ringrazia il piccolo Paese latino-americano che gli consente
d’esprimersi da “uomo libero” e accusa
le forze armate Usa in Iraq di "omicidi e corruzione politica". E,
intanto, diplomatici ecuadoregni e britannici si incontrano per risolvere il
caso.
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