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venerdì 28 settembre 2012

Onu: un coro; e pure chi stecca rispetta il canovaccio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/09/2012

E’ un coro. Ma non siamo in una tragedia greca: quella che ogni anno va in scena, nella settimana d’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è piuttosto un pezzo di commedia dell’arte, dove ciascuno recita il suo personaggio. E molti, se non proprio tutti, dicono le stesse cose: la crisi e la ripresa; la Siria e l’Iran; l’anno scorso, le speranze e le fanfare della Primavera araba; quest’anno, i timori e i violini dell’Autunno arabo. A dare il là al coro, è il presidente degli Stati Uniti, che parla sempre al martedì, fra i primissimi. E gli altri, specie gli Occidentali, gli fanno sovente eco.

Poi, ci sono quelli che cantano fuori dal coro. Sono i cattivi della situazione: non rispettano i tempi, rompono gli schemi, dicono quel che vogliono. Ma pur’essi recitano a soggetto, da capitan Fracassa della diplomazia internazionale : parlano al Mondo, ma parlano soprattutto alla propria gente –esattamente come gli altri leader -… In passato, il ruolo era toccato al presidente venezuelano Chavez, o al leader libico Gheddafi, che, preso il palco, non l’aveva più lasciato, per un tempo ben superiore a quello pattuitogli. Questa volta, è toccato – e non era un esordio- al presidente iraniano Ahmadinejad, che mercoledì ha fatto saltare tutta la scaletta di altrui interventi col suo sproloquio; e che ha anche tratto giovamento mediatico dalla protesta annunciata di Stati Uniti e Israele, i cui rappresentanti hanno boicottato il suo discorso, abbandonando l’aula e lasciando le sedie ostentatamente vuote. Un classico, anche questo.

A rimanersene buono sul banco degli accusati, per via dei presunti programmi nucleari militari iraniani, Ahmadinejad non ci sta: dice che chi possiede migliaia di armi atomiche –leggasi, gli Usa- non ha il diritto di fargli la predica. E gira la frittata: non è l’Iran che minaccia l’esistenza di Israele, ma sono “i sionisti” che rivolgono minacce all’Iran, i cui valori sono “la pace e la stabilità”. Nessuna marcia indietro: bolla le sanzioni contro l’Iran come “una pretesa e una vendetta”; esibisce la propria forza, assicurando che Teheran neutralizzerà i tentativi di boicottaggio dei suoi impianti; non chiude la porta al dialogo con Washington, ma chiede “rispetto”. E non lo turbano le proteste, per altro sparute, che accompagnano il suo intervento: davanti al Palazzo di vetro, c’è chi vorrebbe “riportare a casa Bob”, cioè Robert Levinson, un ex agente dell’Fbi, scomparso in Iran cinque anni or sono, mentre lavorava come investigatore privato.

Il discorso di Ahmadinejad è il paradigma del ‘fuori dal coro’. Quello del premier Monti, invece, è il paradigma del ‘dentro il coro’: la crisi economica internazionale e il ruolo dell'Italia nella nuova governance europea; le sfide della Primavera araba, allo snodo tra evoluzione democratica e involuzione integralista, e del Mediterraneo; e, ancora, legalità internazionale e lotta al terrorismo; impegno nel peacekeeping -l’Italia ne è il principale protagonista, fra i Paesi occidentali-, sviluppo sostenibile e sicurezza dell’ambiente, fino all'ormai annosa riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Un intervento in inglese a 360 gradi, durato 20 minuti: la conferma che la missione di Monti a New York, densa di incontri bilaterali e contatti, è parte dell'azione del governo “per favorire e migliorar la comprensione e la percezione dell'Italia" a livello internazionale.

Poi ci sono gli outsiders, quelli che non hanno titolo per esserci, ma vengono lo stesso per sfruttare l’impatto mediatico di questo grande circo diplomatico. Julian Assange, l’uomo di Wikileaks, diffonde a New York da Londra, dov’è asserragliato nell’ambasciata dell’Ecuador, un video-link con cui ringrazia il piccolo Paese latino-americano che gli consente d’esprimersi da “uomo libero” e accusa le forze armate Usa in Iraq di "omicidi e corruzione politica". E, intanto, diplomatici ecuadoregni e britannici si incontrano per risolvere il caso.

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