Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 05/09/2012
Sono i tre moschettieri di Mitt Romney. E la parte di
d’Artagnan la fa Paul Ryan, uno che le guardie del Cardinale è meglio non
l’incontrino. Però, e non ce ne voglia Alexandre Dumas, questa volta stiamo con
quelli che, nei suoi romanzi, sono gli scherani di Richelieu. Perché quei tre
moschettieri hanno le fattezze delle agenzie di rating per antonomasia, se non
proprio per eccellenza: adesso che la campagna presidenziale negli Stati Uniti
è nella fase decisiva, hanno gettato la maschera –no: non quella di ferro,
quella è un’altra storia-e si sono schierate al fianco del candidato
repubblicano, unite al mondo della finanza nella crociata contro il presidente
democratico Barack Obama.
Vi ricordate che, in Europa, dove le agenzie di rating
erano molto ascoltate, abbiamo cominciato, mesi fa, a interrogarci sul timing
di certe loro sortite, nell’imminenza di elezioni o alla vigilia d’appuntamenti
cruciali per l’euro e l’Eurozona? Quasi a volerne vanificare a priori ogni
risultato. Con l’effetto che, a forza di
gridare al lupo, magari a sproposito, la banda delle tre –Standard&Poor,
Moody’s e Fitch- ha perso credibilità. E, oggi, quando dicono la loro, molti
fanno spallucce.
Beh, in America sta accadendo un po’ l’opposto:
laggiù, alle agenzie di rating non ha mai badato nessuno, almeno a livello di
Amministrazione, un po’ perché parlavano sempre degli altri e un po’ perché
l’America e gli americani si sentivano al di sopra del loro giudizio. Ma, ora
che c’è la crisi e che loro fanno le pulci anche all’economia statunitense,
analisti ed opinione pubblica cominciano –un po’- a farci caso. E magari a dare
loro credito, soprattutto se, politicamente, fa gioco.
Dalla convention repubblicana, la settimana scorsa, è
stato uno stillicidio anti-Obama. Mancava all’appello Moody’s, uscita allo
scoperto ieri, all’avvio della convention democratica: le prospettive per il
sistema bancario statunitense sono stimate negative per difficoltà interne e
rischio di contagio dall’Europa che “potrebbe minare la ripresa negli Usa ed
esporre le banche” a nuovi shock. Tassi d’interesse bassi, disoccupazione
elevata, crescita debole e incertezze sulla fiscalità: gli istituti di credito americani
resteranno, prevedibilmente, sotto pressione per i prossimi 12-18 mesi.
Il
28 agosto, Fitch giudicava “a rischio significativo” la tripla A degli Stati
Uniti, senza un aumento delle tasse o una stretta delle spesa entro la fine
dell’anno, mentre distribuiva giudizi in chiaroscuro sull’Eurozona, senza
escludere tagli dei rating. E il giorno dopo S&P Usa abbassava il voto dell’Illinois,
lo Stato di Obama, avvilito a semplice A.
Dillo ieri, ridillo oggi, gli elettori s’interrogano.
Un sondaggio di The Hill Global Affairs Blog indica che il 54% degli americani
pensano che Obama non meriti un secondo mandato e che il 52% ha l’impressione
di stare peggio oggi rispetto a 4 anni fa. Certo, i pareri risentono
dell’ubriacatura mediatica repubblicana della scorsa settimana e andranno,
quindi, verificati a fine settimana.
Contro Obama, ci sono le cifre della disoccupazione.
Il tarlo del dubbio rode il presidente: intervistato da una tv del Colorado, si
dà un insufficiente in economia, perché il lavoro svolto è “incompleto” e l’Unione
sta attraversando “uno dei periodi più duri” della storia recente, anche se - dice lui - sta andando “nella giusta
direzione”.
Non certo a giudizio delle agenzie di rating. A
migliorare il clima tra agenzie e Amministrazione non contribuisce l’accusa di
frode mossa a Moody’s e a S&P dagli inquirenti di New York (non solo Trani,
dunque): avrebbero ‘tenuto su’ titoli venduti da Morgan Stanley e garantiti da
mutui sub-prime. Una causa nata nel
2008, che matura proprio nella stretta elettorale.
mercoledì 5 settembre 2012
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento