Usa 2012 non è
ancora archiviata. Eppure è già Usa 2016. Formalmente, il presidente 2013-2016
degli Stati Uniti sarà eletto il 6 gennaio, quando il Congresso, convocato in
seduta congiunta, verificherà i voti espressi dai Grandi Elettori, che, il 17 dicembre,
si riuniranno in ogni Stato. Ma nessuna sorpresa è possibile: il mandato
affidato ai Grandi Elettori nell’Election Day è pressoché vincolante e, dunque,
il risultato delineatosi il 6 novembre non è in discussione. Il secondo mandato
di Barack Obama inizierà il 20 gennaio, con giuramento e discorso
d’insediamento sulla scalinata del Campidoglio di Washington.
Mentre Obama prepara “il meglio” dell’America che –assicura- “deve ancora
venire”, c’è già chi s’interroga sulla corsa 2016: dopo il primo nero, la prima
donna?, o il primo ‘latino’?, oppure, ci sarà una pausa con il ritorno a un
bianco? Molti pensano che fra quattro anni il match presidenziale sarà fra due
volti nuovi, magari due figure oggi ancora poco note. Ma c’è pure chi ipotizza
un testa a testa fra due ‘super-veterani’: Hillary Clinton per i democratici e
Mitt Romney per i repubblicani.
Fra i due
grandi partiti, quello repubblicano esce peggio dal voto 2012, nonostante abbia
conservato la maggioranza alla Camera. E Romney non può essere il futuro, anche
se, a un certo punto, complice
l’appannamento di Obama, aveva dato l’impressione di potercela fare, malgrado le
gaffes e la fama da ‘flip-flop’, noi diremmo ‘girella’, e il paradosso
dell’ostracismo alla riforma sanitaria nazionale democratica ricalcata su
quella da lui attuata in Massachusetts.A tradirlo, negli ultimi giorni, è stata la voglia dell’America di andare avanti, forward, come diceva lo slogan elettorale di Obama, 51 anni. Lui, 65 anni, puntava sul cambiamento, quello vero, diceva, real, giocando su un tema cavalcato nel 2008 dal suo rivale. Gli elettori hanno però deciso di dare altri quattro anni al presidente nero per realizzare il ‘suo’ cambiamento, anche perché hanno capito che il nuovo di Romney era un andare indietro, alle vecchie ricette del liberismo reaganiano, aggravato dai toni esasperati del populismo Tea Party corteggiato dal suo vice Paul Ryan. E c’era pure il rischio di ripiombare nella melassa finanziaria dell’era Bush, finita con lo scoppio della crisi.
Per Romney, pare proprio la fine della corsa. Verso le
presidenziali 2016, il partito repubblicano deve porsi degli interrogativi:
migliorare il proprio rapporto con le minoranza americane, specie neri e
latini, ed allargare la propria base demografica, che va restringendosi agli
uomini bianchi sopra i 65 anni; ed evitare di identificarsi con il Tea Party,
la cui presa sull’elettorato s’è attenuata.
La linea del confronto duro
Amministrazione–opposizione, praticata negli ultimi due anni, potrebbe essere
rivista: Obama non è più il nemico da abbattere, perché nel 2016 sarà fuori gioco;
e cercare di costruire rende più credibili che limitarsi a distruggere. Dietro
Romney, già spuntano gli aspiranti alla nomination 2016: personaggi che erano
potenziali protagonisti questa volta, ma che si sono tirati indietro, come gli
ex governatori Mike Huckabee e Sarah Palin; o giovani rimasti alla finestra,
come il senatore Marco Rubio o il governatore Chris Christie; o, infine, astri
nascenti, come il vice di Romney Ryan, se la sconfitta del capo non l’avrà
bruciato.
Fra i democratici, meno problemi di partito, perché
Clinton prima e Obama poi ne hanno fatto l’interprete della multi-etnicità
americana; ma più incognite su chi dopo l’attuale presidente, che sarà fuori
gioco al prossimo giro. L’incognita maggiore è Hillary Clinton, che aveva
annunciato l’abbandono del posto di segretario di Stato, ma che, nei giorni
scorsi, in un’intervista al WSJ, non ha escluso un nuovo incarico nell’ ‘Obama due’:
"Me l'hanno chiesto in molti, ma è improbabile".
A chi gli chiedeva chiarimenti, il portavoce di
Hillary ha risposto in modo sibillino: "Improbabile: aggettivo: 1, difficile
che accada, in dubbio; 2, con poche prospettive di successo". Era stato
più chiaro Bill Clinton, ma un mese fa, dicendo della moglie: "Non so che cosa
farà, ma ha bisogno di riposarsi: è stata first lady, senatore, candidata alle
primarie e poi segretario di Stato".
Una pausa prima di cosa, di ricandidarsi? Lei non lo dice, e non ne ha bisogno. Ma molti pensano che non abbia digerito la sconfitta alle primarie 2008 e che voglia riprovarci, prendendo le distanze dall ‘Obama due’. Lo stesso WSJ ricordava una battuta del consigliere di Stato cinese Dai Bingguo: "Sarai ancora giovane, quando diventerai presidente".
Hillary o non Hillary, a Washington è già cominciato un nuovo gioco: cercare il volto democratico 2016. Giochiamolo con l’aiuto di Stefano Citati, responsabile Esteri de Il Fatto Quotidiano. Un nome ricorrente è Julian Castro, sindaco di San Antonio, ‘latino’ che ha fatto il discorso principale alla Convention di Charlotte (come Obama lo fece alla convention del 2004). Ma Castro dovrebbe prima candidarsi al Senato: gli Stati Uniti sono troppo grandi perché un sindaco, che non sia quello di New York, salga alla ribalta nazionale senza passare da un incarico come senatore o governatore. Di lui, magari, si parlerà nel 2020.
Una pausa prima di cosa, di ricandidarsi? Lei non lo dice, e non ne ha bisogno. Ma molti pensano che non abbia digerito la sconfitta alle primarie 2008 e che voglia riprovarci, prendendo le distanze dall ‘Obama due’. Lo stesso WSJ ricordava una battuta del consigliere di Stato cinese Dai Bingguo: "Sarai ancora giovane, quando diventerai presidente".
Hillary o non Hillary, a Washington è già cominciato un nuovo gioco: cercare il volto democratico 2016. Giochiamolo con l’aiuto di Stefano Citati, responsabile Esteri de Il Fatto Quotidiano. Un nome ricorrente è Julian Castro, sindaco di San Antonio, ‘latino’ che ha fatto il discorso principale alla Convention di Charlotte (come Obama lo fece alla convention del 2004). Ma Castro dovrebbe prima candidarsi al Senato: gli Stati Uniti sono troppo grandi perché un sindaco, che non sia quello di New York, salga alla ribalta nazionale senza passare da un incarico come senatore o governatore. Di lui, magari, si parlerà nel 2020.
Il vero astro nascente sembra essere una docente di
Harvard: Elizabeth Warren, che ha riconquistato ai democratici il seggio al
Senato del Massachussetts che fu di Ted Kennedy. Cero, la maggior parte degli
americani non ne hanno mai sentito parlare; ma tutti hanno sentito senza
saperlo le sue parole. Lo slogan "you didn't built that" - non l'hai
fatto da solo, con cui Obama trasmette il messaggio che, senza un governo che
investa nelle infrastrutture, nemmeno le più grandi aziende crescerebbero - è
in realtà della Warren: "Non c'è nessuno in questo paese che sia diventato
ricco da solo, le strade su cui viaggiano i prodotti per raggiungere i mercati
sono state costruite con i soldi di tutti".
Il New Yorker, che ha l'occhio lungo - nel 2004, dedicò un profilo a Obama definito Il Candidato-, le ha dedicato otto pagine, con un aneddoto malizioso. Nel febbraio 2011, Barney Frank, quello della riforma di Wall Street, la Dodd-Frank Bill, incontrando Obama, gli fece il nome della Warren per un'agenzia governativa, aggiungendo che la professoressa intendeva però candidarsi al Senato. "Davvero punta al Senato?" chiese Obama. E Frank: "Mr. President, penso che punti al lavoro che fa lei adesso, ma deve pur cominciare da qualche parte".
Il New Yorker, che ha l'occhio lungo - nel 2004, dedicò un profilo a Obama definito Il Candidato-, le ha dedicato otto pagine, con un aneddoto malizioso. Nel febbraio 2011, Barney Frank, quello della riforma di Wall Street, la Dodd-Frank Bill, incontrando Obama, gli fece il nome della Warren per un'agenzia governativa, aggiungendo che la professoressa intendeva però candidarsi al Senato. "Davvero punta al Senato?" chiese Obama. E Frank: "Mr. President, penso che punti al lavoro che fa lei adesso, ma deve pur cominciare da qualche parte".
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