La diplomazia internazionale sembra sul punto di riuscire
a evitare che la fiammata di tensione, già tragica per il numero delle vittime,
tra israeliani e palestinese evolva in conflitto aperto e faccia deflagrare il
Medio Oriente. C’è poca Europa, in questo risultato; c’è più America; c’è molto
Egitto; e c’è pure il fatto che Israele e Hamas paiono più interessati a testarsi
l’un l’altro, e magari a mettere alla prova i loro nuovi interlocutori, che ad
avviare uno scontro sul terreno. Israele è pronta all’offensiva, ma riconosce
che una soluzione diplomatica è meglio; e Hamas vaglia le condizioni d’una
tregua. Ieri, l’Egitto, il Cairo, è stato l’epicentro della diplomazia; oggi,
Israele e I Territori vedono l’arrivo del segretario generale delle Nazioni
Unite Ban ki-moon e del segretario di Stato Usa Hillary Clinton.
La fiammata mediorientale è una prova delicata su
molti fronti: è la prima crisi israelo-palestinese dalle implicazioni potenzialmente
incandescenti dopo le Primavere arabe; è una cartina di tornasole per l’Egitto
dopo Mubarak; ed è, infine, la prima sfida di politica internazionale dell’ ‘Obama
2’. Il presidente appena rieletto non tocca la linea dell’alleanza con Israele,
che “ha diritto di difendersi” dagli attacchi di Hamas, e insiste perché i tiri
di razzi da Gaza cessino. Ma la conferma dell’alleanza, ribadita dal freno
degli Usa a iniziative del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, s’accompagna
all’invito alla moderazione.
Una linea analoga, seppure speculare, a quella
tenuta dal presidente egiziano Mohamed Morsi, uno dei Fratelli Musulmani: a
parole, non fa mancare il proprio sostegno ai ‘fratelli palestinesi’; ma poi invia
a Gaza ‘solo’ il primo ministro Hiisham Qandil, che afferma la necessità di
“fermare l’aggressione di Tel Aviv”, senza andare oltre, e trasforma il Cairo
in un laboratorio della ricerca della tregua.
C’è la diffusa consapevolezza che la frammentazione
e la friabilità del quadro arabo, con la Siria nel pieno di una guerra civile,
la Libia ancora alla ricerca di un assetto post Gheddafi e il confronto tra sciiti
e sunniti forse più aspro che mai, accresce l’instabilità potenziale di tutta
la regione e può pure alimentare, ai confini di Israele, tentazioni di colpi di
mano in Hamas o negli Hezbollah, mentre l’incertezza dovrebbe piuttosto
suggerire prudenza.
La voce di Barack Obama giunge dall’Asia, dov’è in
missione. A sorpresa, l’ ‘Obama 2 comincia nel segno della politica estera: in
parte, questa è una scelta del presidente americano, che vuole partecipare al Vertice
dell’Apec, appuntamento annuale dei Paesi che s’affacciano sul Pacifico; ma, in
parte, è una scelta subita, perché delle tensioni mediorientali Obama avrebbe
sicuramente fatto volentieri a meno.
Il lunedì del presidente è una giornata
faticosissima, su tre fusi orari diversi: quello di Washington, dove i
negoziati finanziari fra l’Amministrazione democratica e l’opposizione
repubblicana vanno avanti; quello di Gaza -in serata, telefona al presidente
Morsi e al premier Netanyahu-; e, infine, quello di Rangoon e Phnom Penh –in
meno di 24 ore, diventa il primo presidente Usa a mettere piede in Birmania e
in Cambogia-.
E l’Europa? Dal Consiglio dei Ministri degli Esteri
dell’Ue, riuniti ieri a Bruxelles, viene un appello a un cessate-il-fuoco
immediato, che sarebbe “nell’interesse di tutti”. E il ministro degli Esteri
italiano Giulio Terzi vede “le premesse perché si arrivi a una tregua nelle
prossime ore", ma Israele - aggiunge – può "autolimitare la propria
forza solo se ha la sicurezza assoluta che i lanci di razzi non si
ripetano". Tony Blair, inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente
(Usa, Russia, Ue e Onu) e pure il ministro degli esteri tedesco Guido
Westerwelle si fanno vedere in Israele, ma Blair è, diplomaticamente, un
fantasma e la Germania, qui, conta poco.
C’è chi crede che Netanyahu, che non ha con Obama un
buon rapporto - gli preferiva il suo rivale Mitt Romney - abbia inasprito, in questo caso, la
ritorsione militare proprio per mettere alla prova la fermezza dell’America
nello stare al fianco di Israele. Quali che siano le ragioni dell’azione, la
reazione delinea una sorta di asse Obama – Morsi: equilibrio senza equidistanze
ma, soprattutto, senza drammatizzazioni. Dai razzi di Hamas e dai raid di
Israele, vengono morte e devastazione, ma anche il barlume di speranza di
un’intesa, e magari di un’amicizia, fra Barack e Mohamed.
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