C’erano una volta in America generali che diventavano
presidenti. E ci sono oggi generali che, sulla via della presidenza, vengono
falcidiati da errori tattici o da
scandali rosa, gli uni e gli altri poco appropriati a uomini in uniforme con le
stellette. Dove stia il bene, e dove stia il male, ciascuno giudichi da sé.
La storia degli Stati Uniti è zeppa di generali divenuti
presidenti, fin dagli albori della bandiera allora a 13 strisce e altrettante
stelle: George Washington, comandante dell’esercito della Guerra d’Indipendenza
dal 1775-1783, fu poi il primo presidente dal 1789-1797.
E, dopo di lui, senza pretesa di completezza, ricordiamo William
Harry Harrison, generale nelle Guerre Indiane, 9.o presidente, quello dal
mandato più corto, perché s’insediò in un giorno di pioggia e freddo, il 4
marzo 1841, e morì il 4 aprile della broncopolmonite contratta per avere voluto
cavalcare senza mantella dal Congresso alla Casa Bianca. Il suo nome è pure
legato alla maledizione di Tecumseh, il capo indiano da lui sconfitto, che si
sarebbe abbattuta su tutti i presidenti americani eletti nell’anno zero: non
terminare in vita il proprio mandato. Ronald Reagan fu il primo a uscirne
indenne, dopo quasi un secolo e mezzo.
Dopo Harrison, fu la volta di Ulysses Grant, il comandante
in capo dei nordisti durante la Guerra Civile, 18.o presidente (1869-1877):
fortunato come generale, non granché come presidente, più avvezzo alla
bottiglia che alla politica. Quindi, ci fu Theodore Roosevelt, che non fu mai
generale ma guidò un battaglione di volontari, i Rough Riders, a Cuba nella
guerra ispanico-americana alla fine del 19.o Secolo, divenendo un eroe. Entrò
alla Casa Bianca come 26.o presidente (1901-’09) e si guadagnò pure l’effigie
sul Monte Rushmore, accanto a Washington, Thomas Jefferson e Abraham Lincoln. Infine,
toccò a Dwight Eisenhower, il generale dello Sbarco in Normandia nel
D-Day, 34.o presidente, 1953-’61.
Da allora, e sono passati più di cinquant’anni, i generali
hanno perso il feeling con la Casa Bianca. Altri comandanti della Seconda
Guerra Mondiale covarono ambizioni politiche, come Douglas MacArthur, il
generale della resa dei giapponesi, o il generale d’acciaio George Smith
Patton, se fosse vissuto più a lungo –morì per un incidente poco dopo la fine
del conflitto-.
Poi sulla via della Casa Bianca si sono messi, senza
fortuna, il generale Alexander Haig, comandante in capo delle forze della Nato,
poi segretario di Stato per un breve periodo con Reagan; il generale Colin
Powell, che, dopo l’esperienza del Vietnam, fu consigliere per la sicurezza
nazionale e quindi, con George W. Bush, segretario di Stato, il primo nero in
quell’incarico; e, più di recente, il generale Wesley Clark, anch’egli come
Haig comandante in capo delle forze della Nato e comandante della Guerra dei
Balcani nel 1999. Tutti repubblicani, nessuno mai arrivato per vicende diverse alla
nomination. Come non ci arriverà più il generale David Petraeus, che molti già
consideravano in pole position per il 2016.
In realtà, gli americani sembrano refrattari ai militari
usciti dalle esperienze belliche più recenti, la Guerra di Corea, il Vietnam,
la Guerra del Golfo del 1991 e, ora, l’Afghanistan e l’Iraq. Anche i reduci dal
Vietnam, come se portassero il marchio di quella sconfitta, restano fuori dalla
Casa Bianca: il democratico John Kerry e il repubblicano John McCain furono
sconfitti, rispettivamente, nel 2004 dall’imboscato Bush e nel 2008 dal più
giovane Obama.
Solo al cinema i reduci dal Vietnam conquistano la Casa Bianca.
E ci fanno un figurone: nel 1996, Bill Pullman in Independence Day; e nel 1997,
Harrison Ford in AirForceOne.
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