Willard Mitt Romney, 12 marzo
1947 – Imprenditore di successo,
governatore del Massachusetts, mormone, il candidato repubblicano alla Casa
Bianca è, per molti repubblicani, “l’uomo giusto”, un presidente predestinato.
Molti altri, però, lo vedono all’opposto come un perdente predestinato: man
mano che la campagna andava avanti, lui si è affinato, meno le gaffes (ma
pesanti), buoni i dibattiti, ma senza mai cancellare l’impressione che gli
mancasse qualcosa per vincere –gli basteranno le 48 ore che restano di qui al
voto per trovarlo?-.
Sposato con Ann, cinque figli, Romney è stato organizzatore
dei Giochi d’Inverno a Salt Lake City nel 2002, governatore del Massachussetts dal
2003 al 2007, candidato alla nomination repubblicana già nel 2008 – fu
l’ultimo a cedere le armi a John McCain –. Figlio d’arte (il padre, George W.,
fu governatore del Michigan, la madre Lenore provò a diventarne senatore);
esperienze da missionario in Francia (i mormoni mandano i figli a cercare di
fare proseliti nella miscredente Europa); laureato alla Brigham Young University (l’ateneo mormone di Salt Lake
City) e poi ad Harvard, dopo gli studi si mise in affari con risultati
brillanti.
La fortuna accumulata e l’abilità a proteggerla dal fisco
–un punto debole nella sua campagna- gli permisero di finanziarsi gli esordi in
politica. Si candidò a senatore nel 1994, ma scelse Stato e collegio sbagliati:
il suo avversario era Ted Kennedy, destinato a tenere il seggio fino alla morte,
uno praticamente imbattibile. Poi si dedicò alla candidatura di Salt Lake City ai
Giochi invernali e, quindi, alla preparazione delle Olimpiadi come presidente
del comitato organizzatore: pareva dovesse essere un disastro finanziario; invece,
divenne un affare. Nel novembre 2002, fu eletto governatore del Massachussetts:
un’impresa, perché lo Stato di Boston ha una grossa tradizione democratica.
Nei quattro anni del suo mandato realizzò, da buon repubblicano,
tagli della spesa pubblica e aumenti delle tariffe, azzerando un deficit
ipotizzato di tre miliardi di dollari. Il suo risultato di maggiore spicco, che
ora gli causa imbarazzo, fu la riforma dell’assistenza sanitaria statale:
Romney garantì una copertura a quasi a tutti i cittadini per la prima volta in
tutta l’Unione. Proprio a quella esperienza s’ispirò in parte il presidente Barack
Obama, nel varare la sua riforma sanitaria nazionale, l’Obamacare, che adesso
Mitt promette di abolire appena sarà in carica, se mai lo sarà.
Nel 2006, Romney non cercò un secondo mandato. Pensava già
alla nomination 2008 e,
intanto, spostava la sua retorica su posizioni più conservatrici, così da non
essere percepito come un corpo (troppo) estraneo all’anima più profonda (populista,
sudista, evangelica) del partito repubblicano. Conclusa l’avventura delle
primarie 2008 e perse poi dai repubblicani le presidenziali, Mitt continuò a
prepararsi alla Casa Bianca.
Nella campagna 2012, il miliardario mormone ha dimostrato
tenuta e costanza: è praticamente sempre rimasto in testa ai sondaggi e alla
conta dei delegati. E i repubblicani dell’establishment, quelli che hanno posto
di lavoro a Washington e casa a Georgetown, oppure nei sobborghi eleganti della
Nord Virginia intorno al District of
Columbia, preferivano, sotto sotto, il rischio di perdere con Romney che
quello di vincere con qualche ingombrante e ingestibile alfiere del Tea Party.
Famiglia con pedigree, le stimmate dell’uomo di successo
conservatore (moglie a casa –Ann gli è sempre stata un valido supporto- e figli
in carriera), Romney ha abbastanza esperienza per evitare, da presidente ai
primi passi, errori o ingenuità. Contro di lui ci sono, però, il grigiore,
l’uniformità, la monotonia: Mitt è spesso percepito come una persona noiosa,
che manca di brillantezza, anche se nei duelli televisivi con il rivale
democratico se l’è cavata molto meglio del previsto. E quando esce dal seminato
sbaglia: fra le ‘frasi celebri’ del suo percorso, il “mi piace licenziare” e le
espressioni di disprezzo per il 47% di cittadini americani poveri e ‘latinos’
che vivrebbero di aiuti pubblici (e, soprattutto, votano per Obama).
Dalla sua, c’è la debolezza dell’economia, che non è ancora
uscita dalla crisi lasciata in eredità all’America dalla presidenza
repubblicana di George W. Bush . Contro di lui, c’è – e potrebbe rivelarsi decisivo
– il fatto che non eccita né il TeaParty
né gli evangelici della fascia della Bibbia: senza l’appoggio di queste
due constituencies conservatrici
è davvero difficile che un repubblicano entri alla Casa Bianca. La sua buona
educazione, il sorriso stampato, i capelli sempre in ordine, sono punti di
forza ed elementi di debolezza: Romney non scalda le folle; non predica, e
quindi non seduce gli evangelici; e non alza la voce, e quindi non attrae i
populisti anti-tasse del Tea Party.
Piace alla finanza e alle grandi imprese, che lo hanno foraggiato, ma hanno più
soldi che voti.
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