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martedì 29 marzo 2016

Usa: Corte Suprema, diga repubblicana contro Obama (e il nuovo giudice)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/03/2016

La stragrande maggioranza dei cittadini americani pensa che il presidente Barack Obama abbia tutto il diritto di designare un nuovo giudice alla Corte Suprema, dopo l’improvvisa scomparsa a febbraio di Antonin Scalia, un italo-americano, iper-conservatore. E una maggioranza di americani condivide la scelta di Merrick Garland, persona integra e profilo bipartisan, un nome d’esperienza e garanzia.

Ma i repubblicani, che sono maggioranza sia al Senato che alla Camera, non la pensano così: e si preparano a cercare di sabotare, o almeno frenare, la ratifica della nomina, continuando nell’azione di disturbo al presidente che ha una valenza pure elettorale – l’embargo a Cuba, le sanzioni all’Iran, la riforma dell’immigrazione, la piena attuazione della riforma sanitaria sono altri fronti aperti -.

In realtà, il fronte del no a Garland, o meglio dell’inazione – la prima scelta repubblicana – è già incrinato: ci sono stati contatti con il giudice designato e almeno due senatori repubblicani sono ora pronti a votarlo. Ma il capo della maggioranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell non intende avviare la procedura di ratifica. C’è l’impressione che i leader conservatori vogliano fare della nomina merce di scambio con l’Amministrazione democratica e, magari, trarne pure vantaggio nella campagna, se non altro impedendo a Obama di battersi a fondo per il campione democratico, quando sarà stato scelto.

La Corte Suprema, che è composta di nove membri, nominati a vita, conta attualmente quattro giudici designati da presidente repubblicani e quattro da presidenti democratici. L’equilibrio, però, è solo apparente, perché Anthony Kennedy, il decano del consesso, indicato da Reagan nel 1988, ha progressivamente assunto posizioni più liberali e, nella Corte con Scalia, costituiva spesso l’ago della bilancia.

Gruppi di pressione si sono già formati, specie fra i conservatori, ma anche fra i ‘liberal’. Dietro, ci sono sempre grossi interessi finanziari e spesso guru della politica, manager, strateghi di campagne come Matt Rhoades, un uomo di Mitt Romney, o l’ancora potente Karl Rove, che fu braccio destro alla Casa Bianca di George W. Bush.

La grana, del tutto imprevista, della Corte Suprema turba la politica americana, mentre le primarie per le nomination democratica e repubblicana sono nel pieno. Fra i repubblicani, Donald Trump è nettamente avanti, ma il partito non si rassegna all’idea d’averlo come candidato e cerca alternative, senza per ora trovarle. Fra i democratici, la battistrada Hillary Clinton, che ha l’appoggio dell’apparato, è reduce da una batosta: ha perso 3 a 0 nei Western Caucuses – Alaska, Hawaii, Stato di Washington. Il suo rivale Bernie Sanders s’è così rifatto del cappotto di metà marzo, uno 0 a 5 tra Florida, Illinois, Missouri, North Carolina, Ohio.

Nonostante i risultati nettissimi –Sanders oltre il 70%, la Clinton sotto il 30%-, le ultime assemblee non modificano i rapporti di forza tra la battistrada e il rivale, anche perché i delegati in palio erano meno di 150. Ma il senatore del Vermont intacca il vantaggio dell’ex first lady e, soprattutto, ne mette in ulteriore risalto alcune debolezze, come la scarsa presa fra i giovani e là dove l’elettorato presenta meno diversità etnica. La Clinton, inoltre, patisce la formula dei caucuses, congeniale, invece, a Sanders.

Però, il margine di vantaggio dell’ex first lady resta largo: lei ha già circa 1.750 delegati, i tre quarti circa dei 2.383 necessari a garantirsi la nomination; il senatore circa mille. Dopo il Wisconsin fra una settimana, occhi puntati su New York il 19 aprile - la Clinton che fu senatrice dello Stato é data per favorita -; poi, sulla East Coast il 26 aprile. Lì si potrebbero già tirare le somme.

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