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mercoledì 9 febbraio 2011

Egitto: gli Usa e Obama cercano una formula e uno slogan

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/02/2011

Trent’anni di politica estera degli Stati Uniti nel Medio Oriente da ripensare e da riprogrammare nell’arco di due settimane, cercando di capire che cosa davvero sta accadendo e può ancora accadere al Cairo e a Tunisi, ma anche nello Yemen e altrove dall’Africa del Nord fino al Golfo.

Al presidente Barack Obama, che ha fatto dell’apertura al dialogo con il Mondo arabo un biglietto da visita della propria politica estera, a costo di trovarsi in imbarazzo con Israele, i consiglieri certo non mancano: le pagine dei commenti dei più autorevoli quotidiani Usa come i siti dei think tanks più prestigiosi sono zeppi di analisi e previsioni. Ma il problema è trovarne uno che ci azzecchi, dopo che nessuno dei Soloni d’America, di questa o della precedente Amministrazione, aveva sentito scricchiolare il pilastro della politica araba degli Stati Uniti, l’Egitto che rischia di venire giù. Ora si guarda con allarme allo Yemen, che è un nido del terrorismo, e con preoccupazione all’Arabia Saudita, che resta però solida, mentre i movimenti nel Nord Africa, la Tunisia, l’Algeria, il Marocco, interessano sì gli americani, ma appaiono più vicende di pertinenza franco-europea.

In chiave elettorale, le vicende egiziane e le altre più o meno analoghe tutto intorno potrebbero anche risultare ininfluenti negli Stati Uniti, se non si tradurranno in rischi per la sicurezza interna e per la pace di Israele. Anzi, il ‘domino della caduta dei satrapi’ appena partito, senza che ne sia ancora chiara la direzione, può persino togliere un fastidio dall’agenda di Obama: a fine 2010, infatti, il presidente dovrà, o dovrebbe, rendere conto della promessa fatta nell’autunno scorso di compiere passi verso la pace tra israeliani e palestinesi nel giro di un anno. Logico non riuscirci, ora, in queste condizioni, con gli israeliani alla finestra per capire che cosa accade in Egitto e con i palestinesi pure sul chi vive per capire che cosa accade, se accade qualcosa, nella striscia di Gaza.
Però, alla campagna elettorale, che, per lui, inizierà nel gennaio del 2012, anche se entrerà nel vivo solo in primavera, quando i repubblicani avranno scelto il loro sfidante, Obama dovrà arrivarci con una strategia mediorientale credibile e a tenuta stagno rispetto alle lobbies filo-israeliane che, negli Stati Uniti, sanno influenzare, quando non controllano in modo diretto, la grande stampa.

Se gli esperti d’America devono rifarsi una credibilità, l’Europa non sembra poter essere la lanterna che illumina la strada dell’Amministrazione statunitense: dopo avere inizialmente scelto una collocazione a metà strada tra Il Cairo e Washington, più o meno dalle parti di Gerusalemme, i leader dei 27 hanno fatto, al loro Vertice della scorsa settimana, una sorta di ‘copia e incolla’ della posizione Usa, mostrando più inclinazione verso una consunta ‘real politik’ –cambiamento, moderato, subito, ma non troppo- che verso gli slanci idealisti che Emma Bonino, una che al Cairo ci vive, e Anthony Dworkin hanno loro suggerito sul Financial Times: “Stare dalla parte dei democratici d’Egitto” (a patto di sapere chi sono). In America, questa è la linea di Elliot Abrams, ideologo neoconservatore, che fu assistente segretario di Stato nell’Amministrazione Bush e che suggerisce di “rimettere la libertà” al centro dell’agenda.

A Obama, c’è chi prova a spiegare gli errori del passato (e, fin qui, sono buoni quasi tutti, una volta che i nodi vengono al pettine); c’è chi, come Nicholas Burns, diplomatico più d’effetto che di sostanza, gli sottolinea le difficoltà del momento; e c’è chi, come Zalmay Khalilzad, ambasciatore di tutte le sedi più ostiche, gli suggerisce un piano a corto termine, stile un passo alla volta, senza però ben sapere dove si va a parere. Stephen Sestanovich, ‘testa d’uovo’ del Council on Foreign Relations ed ex ambasciatore, preconizza tre cambiamenti inevitabili nella visione mediorientale degli Stati Uniti: in primo luogo, il ‘domino’ “cementa il primato del Grande Medio Oriente nella politica estera americana”, dal Pakistan al Marocco una sola linea; secondo, l’attenzione dovrà focalizzarsi su quanto avviene dentro ogni Paese, non limitarsi alle politiche estere di ogni Paese; terzo, ci vorrà una formula nuova per tradurre in slogan elettorale il nuovo pensiero mediorientale degli Stati Uniti. O, almeno, per dare l’impressione che c’è un nuovo pensiero. Obama, c’è da scommetterci, ha già chiesto ai suoi consiglieri di trovargli la frase giusta: la politica, come l’intendenza, seguiranno.

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