Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/02/2011
Impaniata in un Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione con la Libia molto impegnativo, la cui responsabilità politica ricade su tutti i partiti che lo ratificarono nel 2009 –maggioranza e Pd a favore, IdV, Udc e radicali contro-, l’Italia non riesce ad avere un ruolo attivo in questa fase confusa e drammatica di proteste e fermenti, violenze e repressione. E l’amicizia tra il premier Berlusconi e il colonnello Gheddafi quasi la paralizza, invece di renderla protagonista: il Trattato ha una disposizione, l’articolo 6, che impegna le parti ad agire in conformità ai diritti dell’uomo ; dunque, sollecitare il leader libico a rispettare l’impegno non sarebbe, da parte del presidente del Consiglio, nè ingerenza nè disturbo, ma un richiamo ai patti.
Firmato a Bengasi il 30 agosto 2008, ratificato dal Senato in via definitiva il 3 febbraio 2009, il Trattato consta di un preambolo, di tre capitoli –principi generali, chiusura dei contenziosi del passato e nuovo partenariato bilaterale- e di 23 articoli, che comportano oneri non indifferenti per l’Italia. In questa situazione, poi, l’attuazione di alcune disposizioni appare particolarmente delicata.
Un esempio: l’articolo 20 riguarda la collaborazione nel settore della difesa e prevede «lo scambio di missioni di esperti, istruttori e tecnici e quello di informazioni militari, nonchè l’espletamento di manovre congiunte» e ancora «un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della difesa e delle industrie militari». Passaggi oggi scivolosi, con il rischio che armi o tecniche italiane siano utilizzate per reprimere con la forza le proteste. Senza dimenticare l’imbarazzo già provocato dalla presenza di finanzieri a bordo di una motovedetta ceduta dall’Italia alla Libia nell’ambito dell’accordo, là dove si parla di lotta contro l’immigrazione clandestina, che insegui’ un pescherecchio siciliano e gli sparo’ addosso.
E si noti che l’articolo 19, proprio quello della lotta all’immigrazione clandestina, prevede che tutta l’operazione avvenga a costo zero per la Libia : il 50% lo paga l’Italia e il 50% dovrebbe pagarlo l’Unione europea. Loro giocano a battaglia navale con le unità fornitegli e bloccano il flusso di eritrei e altri disgraziati dalle loro coste.
Ma è tutto l’impianto di questo Trattato è a rischio, nella situazione d’incertezza e violenza attuale: il partenariato puo’ funzionare solo in un contesto economico e sociale normale; e certo non è pensabile che il contenzioso sui debiti non pagati faccia progressi in questi frangenti: sono in ballo 620 milioni di euro, mentre gli indennizzi agli italiani cacciati dalla Libia sembrano definitivamente ‘passati in cavalleria’.
Il problema di fondo è che l’Italia non è riuscita a fare fruttare in influenza su Tripoli tutto il peso del Trattato e di rapporti economici e commerciali intensissimi : l’Italia, per la Libia, è il primo partner economico e il terzo investitore europeo ed è presente nel Paese con oltre cento aziende (mentre la Libia partecipa con suoi capitali a molte aziende italiane, dall’Unicredit alla Juventus –passando per la Fiat-). Invece che influenza, l’Italia sembra avere sviluppato sudditanza, nei confronti del colonnello e del suo regime; invece di acquisirne dalla forza delle relazioni capacità d’iniziativa, ne subisce un effetto paralizzante, come la paura di compromettere affari.
E, infatti, ieri, a Bruxelles, la posizione sostenuta dal ministro Frattini, preoccupato, come Malta e la Rep. Ceca, di tutelare « l’integrità territoriale » della Libia, é stata percepita, in termini diplomatici, come più «articolata» rispetto a quella molto dura britannica e tedesca, mentre la Finlandia voleva addirittura fare scattare sanzioni anti Gheddafi («Pensiamo alla transizione, non a crare condizioni per un nuovo scontro, con decine di migliaia di cittadini dell’Ue in Libia», ha smozato Frattini).
L’ansia dell’integrità non puo’ nascere solo dalle difficoltà che la riconduzione del Trattato comporterebbe in caso di nascita di due Stati, modellati su Tripolitania e Cirenaica. Certo, c’è anche il timore della ‘bomba immigrazione, che Frattini non minimizza di sicuro di fronte ai colleghi: paventa flussi «epocali» e «inimmaginabili» e ipotizza « centinaia di migliaia di persone » in fuga dalle coste libiche, perchè li’ «siamo sull’orlo di una guerra civile».
Alla fine, l’Italia accetta e fa propria la formula europea, che condanna le violenze, da qualsiasi parte vengano, e sollecita «un dialogo nazionale di riconciliazione». E ora, dopo che l’Ue ne condanna le violenze, Gheddafi puo’ ancora essere l’interlocutore privilegiato del governo italiano? «La sorte del leader libico non sarà decisa nè dall’Italia nè dall’Europa, non siamo noi a dire chi deve restare e chi se ne deve andare, non lo abbiamo fatto con Mubarak e non cominceremo a farlo ora». E’ vero, siamo fuori tempo: a tenere le distanze dal Colonnello, dovevamo pensarci, americani ed europei insieme, otto anni fa, quando lo ‘sdoganammo’ in cambio d’una minestra di lenticchie.
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