Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/03/2011
La Nato prende il comando e il ministro degli esteri libico Mussa Kussa defeziona a Londra. L’Alleanza atlantica ha cominciato da ieri ad assicurare il comando delle operazioni militari, aeree e marittime, per la Libia. Il passaggio delle consegne dalla Coalizione dei Volenterosi alla Nato sarà completo all’alba di oggi: dopo, il generale canadese Charles Bouchard farà una conferenza stampa a Napoli.
Ma gli attacchi aerei non hanno impedito agli insorti libici di subire una serie di battute d’arresto nell’avanzata verso Ovest e verso Tripoli: le forze del colonnello dittatore Muammar Gheddafi hanno ripreso il sito petrolifero di Ras Lanuf e si sono avvicinate a Brega. Sul terreno, si ripete lo scenario di fine febbraio, quasi che raid aerei e missili della comunità internazionale siano una variabile insignificante: le linee dei ribelli si allungano e le difficoltà logistiche si fanno insuperabili, così che, quando la vittoria appare prossima, incomincia, in realtà, l’arretramento.
Più che raid dal cielo, ai combattenti anti-Gheddafi servirebbero linee di rifornimento terrestri e, soprattutto, armamenti. Ma proprio la questione delle forniture agli insorti divide lo stesso Gruppo di Contatto formatosi martedì a Londra. Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen dice che “il peggiore scenario è che la Libia diventi uno Stato in deliquescenza”, tipo la Somalia, perché ciò rischierebbe di alimentare “l’estremismo ed il terrorismo”. Ma Rasmussen aggiunge che la Nato vuole proteggere la popolazione civile, non armarla. Secondo fonti di stampa anglosassoni, gli Stati Uniti avrebbero escogitato un espediente non inedito per aggirare l’ostacolo: chiedere all’Arabia Saudita, la cui famiglia reale ha una spiccata avversione per il Colonnello Gheddafi, di fornire armi e munizioni agli insorti libici.
Mentre il comando delle operazioni passava dalla coalizione alla Nato in modo graduale, il ministro degli esteri francese Alain Juppé annunciava -buon profeta-“prime defezioni” fra i fedelissimi del dittatore libico. E la Gran Bretagna decideva d’espellere cinque diplomatici che avrebbero costituito “una minaccia” per la sicurezza nazionale. Il presidente Usa Barack Obama, invece, è impegnato sul fronte interno: invece che a Bengasi, invia emissari sul Campidoglio di Washington, al Congresso, per spiegare a senatori e deputati le sue scelte. Sulla fornitura d’armi ai ribelli, Obama non esclude nessuna ipotesi, mentre la Farnesina parla di “una misura estrema” e la Russia la boccia: Gheddafi, sostiene Obama, ha “i giorni contati” e il cappio intorno a lui “si sta stringendo”.
Il dittatore, al potere da 42 anni, non compare in pubblico da giorni: un atto di prudenza, per evitare di essere oggetto di attacchi; e forse il segno di qualche contatto segreto avviato. Al Colonnello, gli insorti e la comunità internazionale, ormai unanime su questo punto, chiedono di lasciare il potere. Lui rifiuta e accusa gli insorti di essere un’emanazione della rete terroristica al Qaida.
Ma, ormai alle strette, il dittatore e la sua famiglia potrebbero anche valutare le ipotesi di esilio loro prospettate, così da evitare un bagno di sangue peggiore e accelerare la transizione. Sul Paese che potrebbe accoglierli, le ipotesi si intrecciano. Lo Zimbabwe o il Sudan o il Ciad o l’Uganda, Stati africani in qualche misura ‘debitori’ al regime libico. Con il presidente sudanese Omar al-Bashir, Gheddafi potrebbe condividere lo status di ricercato dalla Corte penale internazionale: al Bashir è colpito da un mandato di cattura per i crimini di guerra nel Darfur, Gheddafi è sotto inchiesta per crimini contro l’umanità. Ma c’è pure chi pensa alla Bielorussia o al Venezuela o al Nicaragua.
Difficile dire se sono piste concrete. Alla Bbc, il ministro degli esteri Frattini esclude che Gheddafi possa venire in esilio in Italia: “non vogliamo avere qui un dittatore” e “nessuno può garantirgli l’impunità”. Quanto al dispiacere per il Colonnello espresso dal premier Berlusconi , è stato –dice- un moto “di pietà umana”. L’Italia non si candida a mediare: meglio l’Onu, o l’Unione africana.
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