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mercoledì 13 luglio 2016

Brexit: a Londra, Bruxelles, Roma, per chi suona la campana?

Intervista a cura di GianMario Ricciardi pubblicata sul numero de Il Nostro Tempo datato 10/07/2016

Brexit, “per chi suona la campana?”

Altro che Ernest Hemingway, Ingrid Bergman, Gary Cooper e lo sfondo storico, e pure romantico, della Guerra civile spagnola. Qui la campana suona per personaggi ben più modesti, a cominciare da quel David Cameron che rischia di passare alla storia come uno dei premier più nocivi e pavidi del Regno Unito.

Se la campana suonasse solo per Cameron e gli altri leader britannici ed europei coprotagonisti e corresponsabili di questa vicenda, verrebbe quasi naturale dire ‘Poco male’. Il problema è che suona per tutti noi, più forte e con battiti a morto per i cittadini britannici – e qui restiamo nella serie ‘chi è causa del suo mal pianga se stesso’ -, ma con tocchi lugubri anche per tutti gli altri, per noi stessi.

Perché la secessione britannica arriva nel momento più fragile dell’integrazione europea: l’Unione non è neppure saldamente fuori dalla crisi economica e finanziaria che l’ha azzannata nel 2008. Mediamente, i suoi cittadini non hanno ancora ritrovato i livelli di benessere e il potere d’acquisto d’otto anni or sono. E la gente avverte il rischio di una battuta d’arresto, invece che di una accelerazione, della crescita; e percepisce una minaccia, per quanto irrazionale essa possa essere, dall’ondata di migrazione che non è più un’emergenza, ma una costante; e la collega, aizzata e spaventata dalla propaganda populista, alla minaccia terroristica dell’integralismo islamico. Che non può essere sottovalutata.

Dopo la botta della Brexit, c’è il rischio che la costruzione si sfaldi. La Brexit offre una tentazione ai francesi che votano Le Pen, agli italiani che votano Salvini – e pure per una buona fetta di quelli che votano Cinque Stelle -, ai tedeschi che votano Alternativa per la Germania, agli xenofobi belgi e agli anti-Islam olandesi: tutti Paesi fondatori, tutti Paesi di quello che una volta era il nocciolo duro dell’integrazione europea.

Tenta meno, la Brexit, i Paesi come la Polonia o la Rep. Ceca, che pure hanno governi euro-scettici, ma che, dall’appartenenza all’Ue, ricavano un flusso annuo di denaro prezioso per le loro economie, mentre i Paesi fondatori sono tutti contribuenti netti.

Per l'Unione non è il momento di compromessi al ribasso?

Negoziati con la Gran Bretagna, che potranno iniziare dopo che Londra avrà comunicato ai partner l’esito del referendum e la volontà di lasciare l’Ue, accompagnati da compromessi al ribasso, che sfocerebbero in una sorta di Europa ‘à la carte’, dove ciascuno fa solo quel che gli piace: questo è davvero lo scenario peggiore che io possa immaginare, un cocktail di procedure e grettezze che metterebbe a dura prova il più europeista dei cittadini.

Le organizzazioni federaliste e i guru dell’integrazione offrono ricette per rispondere alla Brexit rilanciando, invece che frenando, il processo, non limitandosi a cercare di arginare la disgregazione. Fra le proposte, un fondo europeo contro la disoccupazione e un Ministero delle Finanze europeo, sovranazionale, che attui politiche di sviluppo e prosegua il cammino dell’Unione sognato e tracciato dai Padri Fondatori e abbandonato dai loro emuli.

Altro che compromessi al ribasso. L’obiettivo deve essere il rilancio dell’Unione politica spingendo verso un’Europa dotata di una difesa comune, di un’economia più giusta e di una polizia federale.

Le scelte più urgenti per rinascere o morire quali sono?

Fare capire ai cittadini che l’Unione è per loro un’opportunità, subito sui fronti dell’economia e dell’immigrazione, i più urgenti, dove ci sono bisogni concreti e paure viscerali.

Ma, a Bruxelles, al Vertice europeo il 28 e 29 giugno, i capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Ue ed i presidenti delle Istituzioni comuni, non sono stati né coraggiosi né determinati. A parole, vogliono fare in fretta e propongono nuovi modelli, ma di fatto restano impaniati nelle procedure e ostaggio delle paturnie britanniche.

Del resto, quelle che non mancano, all’Unione europea, sono le emergenze: quando non sai come affrontarne una, ne esplode un’altra che ti fa accantonare la prima per contrastare l’ultima. Che resta, irrisolta, in testa alla lista delle priorità, fin che un’altra non la caccia. Una girandola tragica, che genera sfiducia e che autorizza la paura.

Il Vertice europeo è un buon esempio: inizialmente pensato per affrontare il problema dei migranti, il Summit è stato poi convertito, dopo il referendum shock sull’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, sulla Brexit. La notizia dell’attentato all’aeroporto di Istanbul, giunta a riunione in corso, l’ha poi dirottato sulla minaccia terroristica, consentendo ai capi di Stato e di governo dei 27/28 di ritrovare l’unità nella condanna della strage.

Senza però avere nel frattempo affrontato l’immigrazione e neppure cominciato a sciogliere i nodi della Brexit, per non parlare del rilancio di crescita e occupazione, che restano, insieme ai migranti, le priorità assolute per i cittadini europei, ma che i leader manco trovano più sulla loro agenda.

La condanna, la deprecazione, la solidarietà: fin qui, tutti ci mettono la firma. Ma che fare di forte, contro il terrorismo? Ora, ci pensiamo. Anzi, ci pensiamo più forte perché dopo Istanbul c’è Dacca. E se intanto andasse a fondo un barcone con centinaia di migranti, accantoneremo il terrorismo e torneremo a preoccuparsi dell’immigrazione. E ci attende a settembre il ritorno della Brexit: c’è sempre il vento d’un’emergenza a muovere la girandola. E l’impazienza e l’insoddisfazione dei cittadini europei.

In questo scenario quali saranno le decisioni dell’Unione per fronteggiare l’esodo biblico dall’Africa?

La Commissione europea ha dei piani e li ha presentato: controllo delle frontiere esterne affidato all’Unione e aiuti a sette Paesi africani. Ma le conclusioni dei leader sugli accordi che l’Unione progetta con Paesi di provenienza africani sono più generiche di quanto l’Italia auspicava: non ci sono, come Roma chiedeva, i nomi dei Paesi africani con cui stipulare le prime intese; e non c’è nulla di concreto sui finanziamenti, nessuna cifra, manco i 500 milioni già stanziati sul bilancio Ue per rimpinguare il fondo per l’Africa.

Tutto resta affidato alla regia della Mogherini – una regia europea, non italiana - e tutto viene rinviato a settembre, quando l’Esecutivo di Bruxelles dovrà presentare “una proposta di piano d’investimenti” nei Paesi in questione “ambiziosa”. Nel frattempo, i flussi, gli sbarchi e le tragedie in mare continueranno: a fine anno, secondo le stime di Frontex, gli arrivi in Italia potrebbero raggiungere i 300 mila

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