Chi esce dal Mid-term con le ossa rotte, come partito o candidato, parte con l’handicap nella corsa, che prende il via quasi subito dopo, a Usa 2016, le presidenziali dell’8 novembre 2016. Fra i democratici, c’è un battistrada, nella corsa alla nomination: Hillary Rodham Clinton, già in lizza nel 2008, quando Barack Obama la eliminò nelle primarie -sarebbe la prima donna alla Casa Bianca-. Invece, tra i repubblicani, la rosa è ampia, ma ancora vaga.
A una settimana dal voto, i repubblicani sono in vantaggio in tutti i sondaggi: gli americani, oggi, vogliono un Congresso a maggioranza repubblicana, mentre l’Amministrazione è democratica. E’ una situazione non insolita, negli Usa: la sperimentò pure Bill Clinton; e Obama ha sempre avuto contro la Camera, tranne che nei primi due anni.
Nel voto di Mid-term, martedì 4 novembre, gli americani rinnovano tutta la Camera -435 seggi- e un terzo del Senato, oltre a eleggere numerosi governatori e loro vice. C’è, poi, la consueta miriade di consultazioni locali e di referendum. I repubblicani hanno 233 seggi alla Camera, i democratici 199 –tre sono vacanti-. Al Senato, i democratici sono 54, i repubblicani 45 e due gli indipendenti: ci vuole quasi un ‘en plein’ dei seggi in bilico perché i conservatori rovescino la situazione.
Gli ultimi rilevamenti indicano che questa possibilità esiste. Contro i democratici, continua a pesare l’insoddisfazione degli elettori nei confronti del presidente Obama: sei americani su 10 non si fidano dell’Amministrazione, sette su 10 sono ‘irritati’ dalla gestione dell’Unione, il 53% disapprova l’operato della Casa Bianca.
Sei gli Stati i cui seggi in palio al Senato potrebbero risultare decisivi: Arkansas, Colorado, Iowa, Kansas, Nord Carolina e Sud Dakota. Ovunque, lì, i repubblicani possono imporsi. Ma, va detto, nessuna partita è chiusa, tranne, forse, quella del Sud Dakota, dove il repubblicano Mike Rounds ha un vantaggio di oltre 10 punti sul rivale democratico Rick Weiland. In Arkansas, Colorado e Iowa, i candidati repubblicani sono leggermente in vantaggio, in Kansas e Nord Carolina i due contendenti sono praticamente pari.
Il presidente Obama mostra quasi fretta di lasciarsi alle spalle il voto di Mid-term, che potrebbe aprirgli sotto i piedi la botola dell’inferno: un ultimo biennio con tutto il Congresso contro. Obama ha già votato, in largo anticipo, il 20 ottobre, in un seggio di Chicago: si è messo in fila con altri elettori solleciti, ha smanettato al computer, ha ritirato il certificato timbrato. E ha posato con il personale del seggio, per una foto ricordo.
Obama s’è fatto vedere relativamente poco, in questa campagna. Di buone scuse, per restare a fare il comandante in capo alla Casa Bianca, ne ha: l’Ebola, per dirne una che unisce l’America nell’ansia, e pure la guerra al terrorismo e allo Stato islamico. Ma, in realtà, il presidente, molti non lo vogliono accanto sul palco: i candidati democratici temono il contagio della sua bassa popolarità.
A un comizio in Maryland, per sostenere il candidato governatore democratico
Anthony Brown, una parte del pubblico se n’è andata prima che Obama finisse di
parlare, in segno di disappunto. Così, il peso della campagna è più sulla
moglie, Michelle, che su di lui: carisma e grinta, Michelle, in un video, sprona
gli elettori democratici a essere “affamati”, a meritarsi “un congresso che
lavori per voi e per le vostre famiglie”.
L’attivismo e l’efficacia della first lady fanno lievitare le sue
prospettive di un futuro politico: senatrice della California, se Dianne
Feinstein dovesse lasciare nel 2018. Ma la parola d’ordine dello staff della
Casa Bianca è smentire: “Più facile che si candidi a Papa che a senatrice”.
Anche Hillary, che fu segretario di Stato nel primo mandato, tiene le
distanze e, in politica estera, non risparmia critiche al presidente. E proprio
i Clinton, e pure il vice-presidente Joe Biden, sono testimonial elettorali più
ambiti del presidente.
Gli Stati Uniti si avvicinano al voto di ‘mid-term’ in un clima di sfiducia
e disaffezione alla politica che accomuna Congresso e Casa Bianca e che fa
tanto Italia. Solo il 9% di quanti intendono recarsi alle urne –saranno il 50%
dei potenziali elettori, non di più- sono "entusiasti" di Obama:
siamo ben lontani dal fervore e quasi dall’entusiasmo che salutarono nel 2008
l’elezione del primo presidente nero degli Stati Uniti. Il fatto che le spese
per la campagna siano state più elevate che mai non fa che accrescere il
malcontento degli americani.
Destra o sinistra, una cosa che accomuna democratici e repubblicani, in
questa vigilia, è il record dei candidati di colore: oltre cento, che gli
esperti definiscono l’ “effetto Obama". Oltre 80 neri, democratici o
repubblicani, corrono per la Camera; e almeno 25 per un posto da senatore o da
governatore o da vice. Il record precedente risaliva al 2012, in coincidenza
con la rielezione di Obama: 72 candidati di colore alla Camera. Quando, nel
2002, se ne presentarono 17 fu un primato.
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