Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/12/2011
La cartina di tornasole dell’integrazione europea è (quasi) infallibile: se la Gran Bretagna non ci sta, se esita, se si chiama fuori, salvo poi ripensarci quando vede che le cose girano nel verso giusto, vuol dire che la direzione presa è quella di un rafforzamento dell’integrazione. E poco importa, qui e per ora, che il metodo adottato per andare avanti sia inter-governativo e non comunitario: l’importante, adesso, è tirarsi fuori dalla crisi del debito, che minaccia l’euro e l’Unione: tutti insieme, tutti quelli che ci stanno.
Rimasto isolato, il premier conservatore David Cameron finisce subito sotto la pioggia delle critiche della stampa britannica: non tanto perché ha detto no, quanto perché è rimasto senza appoggi nè alleati: anche la Svezia e la Rep. Ceca e da ultimo l’Ungheria con venature nazionaliste e illiberali del premier Orban hanno avallato il ‘patto del bilancio’ degli altri 23 Paesi Ue (tutti i 17 dell’euro più sei aspiranti alla moneta unica), sia pure ‘ad referendum’, cioè previa l’approvazione dei rispettivi Parlamenti nazionali.
Arrivato a Bruxelles brandendo l’ascia del veto, il premier britannico s’è reso conto tardi che la sua lama non era affilata: poteva bloccare un’intesa nell’ambito dei Trattati, non un’intesa extra Trattati.
Del resto, le critiche a Cameron sarebbero state peggiori se avesse detto sì. E, così, l’emulo della Thatcher, la ‘dama di ferro’ che paralizzò per quattro anni, dal 1980 al 1984, l’allora Comunità, perché voleva riequibrare il dare ed avere di Londra sul bilancio Cee, ha sfidato il gelo nei rapporti con la Francia e la Germania. E questo, ai britannici, in fondo piace: loro leggono quel 26 a 1 come “il Continente è isolato”, mentre il presidente francese Nicolas Sarkozy pronuncia la formula blasfema, ma già praticata nella storia dell’integrazione, di un’Europa a due velocità.
La stella polare della politica europea del governo di Sua Maestà è sempre stato e resta l’interesse nazionale: dei Paesi Ue fuori dall’euro, la Gran Bretagna è l’unico ad avere sia una propria moneta forte, come la Svezia e la Danimarca, sia una piazza finanziaria d’impatto mondiale. Alla Bbc, subito dopo il vertice, Cameron parla di una “scelta difficile”, ma giudica “buona” la posizione presa, perché “un accordo a 27 non fa il nostro interesse”. Il Vertice, aggiunge il premier, “rappresenta un cambiamento” nei rapporti con l’Ue, anche se “è nell’interesse di Londra restare nell’Unione”, intesa, però, come mercato unico, “quello di cui noi abbiamo bisogno”.
Proprio per questo, più volte in passato Londra è rimasta alla finestra: adottò il progetto di completamento del grande mercato nella seconda metà degli Anni Ottanta, ma accettò con riserve il Trattato di Maastricht, si tenne inizialmente fuori dagli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, non aderì alla moneta unica.
I suoi partner non enfatizzano di sicuro la diserzione britannica. La cancelliera tedesca Angela Merkel nega che l’accordo di Bruxelles sia “di bassa lega” e dice che l’euro ne esce “più credibile”. Il premier italiano Mario Monti parla di “intesa di vasta portata”, in cui un’Italia “ora più credibile”, ha fatto “la sua parte”. E, per uno che sbatte la porta, ma se la lascia aperta dietro, ce ne sono altri che fanno la coda per entrare: la Croazia firma il Trattato di adesione e diventerà il 28.o Stato il 1.o luglio 2013, pronta a mettersi in fila per l’euro; e l’Islanda sta per concludere i negoziati, mentre la Serbia scalpita per iniziarli.
Anche i mercati non drammatizzano l’impatto del no britannico. Le borse europee che aprono in calo, con lo spread a 460, chiudono alla toro: Milano, con un + 3,37%, è in testa ai listini europei, con lo spread a 421; e pure Wall Street apre forte.
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