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domenica 14 luglio 2013

Usa: Trayvon, quando la giustizia non c’è

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 14/07/2013
                
Quando c’è di mezzo il colore della pelle, o qualche complicazione etnica, la giustizia americana fatica a essere giusta. Spesso, va nel senso che chi ammazza, o pesta, un nero, specie se è un agente di polizia bianco, può cavarsela con poco, o nulla, almeno fin quando una sommossa razziale non induce la magistratura, magari federale, a rivedere i fatti e le carte –è il paradigna Rodney King-. Però, può anche andare che un nero che ammazza la moglie bianca e un di lei amico viene assolto perché il suo avvocato convince la giuria che la condanna sarebbe frutto di un pregiudizio etnico –è il paradigma OJ Simpson-. E le cose si complicano ulteriormente, quando le etnie s’intrecciano, ispanici, asiatici, neri, bianchi.

L’assoluzione di George Zimmerman, 29 anni, origini ispaniche, dall’accusa di essere penalmente responsabile della morte di Trayvon Martin, 17 anni, afroamericano, pare confermare quanto sia difficile essere giusti, in casi del genere: il verdetto ‘non colpevole’ è stato emesso dai giurati –sei, tutte donne- dopo 16 ore di camera di consiglio.

La notte del 26 febbraio 2012 a Sanford, in Florida, George, una guardia volontaria, cioè una sorta di agente di ronda, uccise con un colpo di pistola Trayvon, che, disarmato, usciva da un negozio: aveva in mano una bibita e un pacchetto di caramelle e andava a casa del padre. La sua ‘colpa’: avere il cappuccio di una felpa in testa, come milioni di adolescenti americani.

Lo sparatore s’è sempre dichiarato innocente, sostenendo di avere agito per legittima difesa dopo essere stato aggredito, negando ogni movente di tipo razziale. I giurati gli hanno creduto: l’uccisione di Trayvon non è stata omicidio preterintenzionale –George rischiava l'ergastolo- e neppure omicidio colposo -da 10 a 30 anni di carcere-.

All’epoca dei fatti, l’emozione fu grande. Migliaia di giovani andarono a Sanford, con il cappuccio della felpa calato in testa, per manifestare solidarietà alla famiglia della vittima. Il presidente Obama commentò l’episodio, dicendo che se avesse avuto un figlio sarebbe stato come Trayvon e chiedendo chiarezza, perché la polizia locale aveva inizialmente deciso di non arrestare lo sparatore.

Ed ora la sentenza rischia di avere strascichi nell’opinione pubblica, che, per settimane, ha seguito il processo in diretta tv, divisa sulla valenza di quell’uccisione e sul movente razziale: le proteste sono iniziate subito dopo l’assoluzione di George, fuori dal tribunale, dove una folla aspettava la giustizia che non ha avuto. Nella notte, ci sono state manifestazioni a Washington e a Oakland, in California.

Ma, intanto, George è un uomo libero. E Trayvon un ragazzo morto. Ucciso da chi gli ha sparato e pure dalla giustizia.

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