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venerdì 30 luglio 2010

Afghanistan: restarci?, perchè?, fin quando?, i dubbi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/07/2010

I nostri, laggiù, cadono come mosche: gli italiani (e fanno già 29, con i due artificieri ammazzati come in una scena di The Hurt Locker), ma anche e soprattutto gli alleati dell’Isaf. E cadono, ancora più numerosi, i nemici, gli insorti, i talebani, e i civili coinvolti in questo conflitto (ieri, un colpo di mortaio dell’Isaf ha ucciso una ragazza; mercoledì, un ordigno dei taleban aveva fatto decine di vittime). Quasi nessuno parla più di ‘missione di pace’ in Afghanistan: è una ‘missione di guerra’ bell’e buona. Di questo passo, a giorni saranno 2.000 le perdite americane e alleate in questo conflitto che, invece di stemperarsi, anno dopo anno diventa più cruento.

Però, “dobbiamo restare”, dice il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E “dobbiamo restare” scrivono gli opinionisti più autorevoli dei maggiori quotidiani. E “dobbiamo restare”, echeggia larga parte dell’opposizione parlamentare: “La missione in Afghanistan era necessaria e un ritiro non sarebbe positivo”, afferma Massimo D’Alema, alla vigilia del rientro in Italia delle salme di Gigli e De Cillis, “ma serve una riflessione seria su come portarla avanti”. In Parlamento, il ministro della difesa Ignazio La Russa conferma “il pieno impegno” dell’Italia.

Allora, non cambia nulla. Ma è giusto così? La “riflessione seria”, magari, andava già fatta quando la guerra in Afghanistan pareva vinta e venne ‘messa tra parentesi’ perché bisognava invadere l’Iraq, rovesciare Saddam Hussein, aprire un altro fronte che, con la guerra al terrorismo, non aveva nulla a che fare. Risultato: l’Iraq non sarà più una dittatura, ma non è certo una democrazia; e in Afghanistan è cresciuta la corruzione e hanno ripreso vigore i taliban, forti anche di collusioni tribali in Pakistan.

Nell’ottobre del 2001, l’attacco all’Afghanistan, dopo gli attentati dell’11 Settembre, fu avallato dalla comunità internazionale: c’era da rovesciare un regime integralista e intollerante, che offriva santuari ai terroristi di al Qaida; e c’era da smantellare l’organizzazione di Osama bin Laden e da catturarne i capi. Di questi obiettivi, solo il primo è stato centrato: l’esportazione della democrazia con i carri armati è fallita in Afghanistan come in Iraq; i capi del terrore sono in fuga, ma restano liberi, godono ancora di collusioni e di protezioni e restano capaci di colpire, o almeno di provarci.

E, allora, perché non pensare di venire via?, mica da soli, domani e di botto, come pure fecero gli spagnoli dall’Iraq –e le cose laggiù non cambiarono per nulla-, ma studiando una strategia d’uscita credibile: non lo è la promessa di iniziare il ritiro nel 2011, che è troppo vicino; e non lo è l’idea di afganizzare il conflitto nel 2014, che è troppo lontano; e non lo è, probabilmente, nessun progetto che faccia perno sulla cricca afgana ora al potere. Ma restare lì ad ammazzare e a farsi ammazzare, perché non sappiamo che fare d’altro, e perché abbiamo paura di quel che potrebbe accadere laggiù se ce ne andiamo, non è una soluzione: l’Afghanistan ‘occupato’ non è né pacifico né democratico; la Regione non è stabile e l’Iran, da una parte, e il Pakistan e l’India, dall’altra, fanno temere l’esplosione di conflitti regionali potenzialmente nucleari; e gli alleati della coalizione non sono più sicuri che nel 2001, ma hanno solo una maggiore consapevolezza della minaccia terrorista.

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