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sabato 10 luglio 2010

Spie: scambio di mezze figure chiude nuova Guerra Fredda

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/07/2010

La scena e la musica di sottofondo possono benissimo essere quelle del Il Terzo Uomo, noir 1949 targato Guerra Fredda: Carol Reed, Graham Greene e Orson Welles vi hanno lasciato il segno del loro genio. Ma questa storia e questi personaggi hanno meno spessore e meno mistero: finisce con uno scambio di mezze figure, sulla pista dell’aeroporto di Vienna, aeroplani affiancati in modo da coprire la scena a cameraman e fotografi. Gli Stati Uniti riconsegnano ai russi dieci agenti arrestati a fine giugno con molto clamore e la Russia dà loro in cambio quattro russi di cui tre condannati per attività a favore dell’Occidente.

Lo scambio è senza precedenti dalla fine della Guerra Fredda, cioè da quando lo spionaggio Usa - Russia ha perso fascino e importanza (allora, i prigionieri venivano barattati sul ponte di Glienicke, che a Berlino univa l’Est e l’Ovest). La rapida fine a tarallucci e vino della vicenda, drammatizzata da taluni, quando era scoppiata, come la soglia di un ritorno al gelo tra Washington e Mosca, prova, invece, la volontà dei due Paesi di non mettere a repentaglio, per qualche segreto mal custodito e qualche informatore maldestro, il ‘reset’ delle loro relazioni. I presidenti Obama e Medvedev avrebbero avuto un ruolo diretto in questa soluzione: una via d’uscita indolore, dopo che l’Fbi aveva ‘sganciato’ la sua ‘bomba’ –malizia?, o imperizia?-.

Verso le 11.30, ora locale, un aereo usa, decollato dal La Guardia, nel Queens, a New York, s’è posato accanto a un aereo russo, già lì da un po’ di tempo. Il passaggio da un velivolo all’altro è avvenuto con una vetturetta dai finestrini ambrati. Un ‘revival’ del ruolo di Vienna, la ‘capitale delle spie’ durante l’Impero austro-ungarico e ancora nella prima metà del XX Secolo, dopo la fine dell’Impero, tra le due guerre.

Nella serata di giovedì –ora della Costa Est-, i dieci agenti russi erano stati espulsi dagli Stati Uniti, dopo essersi tutti riconosciuti colpevoli davanti al tribunale federale di Manhattan ed avere rivelato la propria vera identità -sette operavano sotto falso nome, tutti sono russi tranne un’americana-. Kimba Wood, una giudice divenuta famosa nel 1990 condannando a 10 anni Michael Milken, il re dei ‘junk bond’, annunciava “l’espulsione immediata”, in cambio dell’impegno, da parte loro, a “non tentare di tornare mai più in America”. La decisione veniva motivata con ragioni di sicurezza nazionale e umanitarie: l’Fbi riconosceva che gli agenti presi non avevano “un interesse strategico” per gli Usa. Più o meno contemporaneamente, Medvedev firmava la grazia per quattro russi già condannati.

Fra tutti, il personaggio è Anna Chapman, ‘Anna la Rossa’, le cui foto intime e la cui vita sessuale più o meno spiattellata come elemento forte dell’inchiesta condotta dall’Fbi hanno fatto per giorni le prime pagine in mezzo mondo. Irina Kutchennko, la mamma di Anna, non ha però vacillato: “Mia figlia non ha fatto nulla di male: spero di poterla riabbracciare presto”.

Tre dei russi liberati sono Igor Sutyagin, esperto in armamenti strategici, condannato a 15 anni, e Alexandre Zaporojski, un ex responsabile del Svr, condannato a 18 anni –entrambi lavoravano per gli americani- e Serguei Skripan, ex colonnello dei servizi d’informazione militari, condannato a 13 anni –lavorava per i britannici-. Il quarto è Guennadi Vassilenko, un ex agente del Kgb, condannato a tre anni nel 2006 per delitti non di spionaggio.

Anche loro hanno dovuto riconoscere la loro colpevolezza: documenti che soddisfano gli inquirenti, ma che non significano nulla, perché ciascuno s’è così garantito la libertà. La ‘spy story’ lascia i più perplessi: nove russi su dieci pensano a una montatura della propaganda occidentale. I fantasmi della Guerra Fredda non muoiono, anche se pochi temono che torni (e pochissimi lo vogliono).

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