Sette
giorni a maggio è un bel film del 1964 di John Frankenheimer sui rischi che la
Guerra Fredda degenerasse in olocausto nucleare. Quello di cui siamo
protagonisti, 24 giorni a maggio, è meno teso, se non altro perché più diluito
nel tempo, ma l’esito ha importanza cruciale per il nostro futuro, almeno a
breve termine. E il lieto fine non è ancora scritto.
I 24
giorni a maggio del nostro titolo sono quelli che intercorrono tra oggi e il 29
maggio, quando la Commissione europea dovrebbe, o –meglio- potrebbe, chiudere
la procedura d’infrazione avviata contro l’Italia per eccesso di deficit. Il
condizionale è legato al ‘se’: l’Esecutivo di Bruxelles procederà se le
modifiche al bilancio che verranno eventualmente fatte di qui ad allora dal
Governo Letta non intaccheranno i saldi già comunicati all’Unione europea. Se
il Governo dovesse agire in maniera differente, il segnale positivo lasciato
presagire dall’Europa cambierebbe immediatamente di segno.
Dopo la
pubblicazione, ieri, delle previsioni economiche di primavera della Commissione
europea, stampa e politici mettono l’accento, nei loro commenti, sulla prima
parte delle affermazioni fatte dai responsabili comunitari. Eppure tutti sanno
che, in un discorso di politici, come dei capi sul lavoro, dei professori in
classe, dei genitori a casa, quel che conta viene dopo il ‘se’, o il ‘ma’: “Le darò
l’aumento –dice il capo-, se ci saranno le risorse per farlo”; “Le darò la
sufficienza –dice il professore-, se avrà studiato abbastanza”; “Potrai andare
a giocare –dice il papà-, se avrai prima messo in ordine la tua stanza”.
Allora,
aspettiamo a cantare vittoria. E, magari, pure ad eliminare entrate senza
sapere come sostituirle o che cosa tagliare per poterne fare a meno. Tanto più
che le previsioni economiche pubblicate ieri, deficit sotto controllo a parte,
fino a che il Governo Letta non entrerà in azione, sono “un vero disastro”,
citando la sintesi su EurActiv di Giuseppe Latour. Se è vero
che nel 2013 e nel 2014 dovremmo restare sotto il tetto del 3%, di deficit
fissato dal Patto di Stabilità, “tutti gli altri fondamentali della nostra
economia lasciano poche speranze: disoccupazione in aumento, debito al galoppo,
crescita al palo”.
E, senza
crescita, con meno lavoro, e con una lotta all’evasione fiscale meno efficace, specie
se si comincia con l’indebolire Equitalia, le entrate non aumenteranno di
sicuro. Se paghi i debiti della Pa, com’è sacrosantamente giusto fare, e togli
–o sospendi- l’Imu –come non è necessario fare-, il deficit aumenta. E, in
questo caso, niente via libera dell’Ue agli investimenti produttivi.
Meglio, dunque, non coltivare
illusioni. E non contare neppure troppo a priori sulla comprensione di
Bruxelles. Il presidente della Commissione europea Manuel Barroso mercoledì
accoglieva, quasi a braccia aperte, con cappuccino e cornetto, come se Palazzo
Berlaymont fosse un bar con tavolini su piazza Navona, il premier Letta. Lo
stesso Barroso, oggi, canta l’elogio della cancelliera tedesca Angela Merkel:
la recessione –degli altri, perché la Germania cresce- non è colpa sua;
c’entrano, piuttosto, la poca competitività degli altri Paesi dell’Ue e
l’irresponsabilità dei mercati.
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