Era una delle
promesse elettorali del candidato Obama, quello del 2008, che erano subito piaciute un sacco –più in
Europa che in America, a dirla tutta-: chiudere Guantanamo, la prigione simbolo
del disprezzo dei diritti dell’uomo e della legalità nella guerra “totale” al
terrorismo di Bush junior.
L’Obama
messianico di quella campagna riscattava la rozzezza ideologica e la mediocrità
operativa dell’Amministrazione repubblicana. Diceva che la chiusura sarebbe
avvenuta “entro un anno”. L’anno è passato; e ne sono passati pure quattro. E
siamo già al secondo mandato: Guantanamo è ancora lì, con i suoi detenuti –un
po’ meno di prima, ma sempre tanti, 186- in attesa di giudizio o anche solo di
un capo d’imputazione, di una ragione per essere tenuti prigionieri come
“combattenti nemici”.
Alcuni pochi,
sono stati giudicati; altri, di più, sono stati trasferiti nei Paesi
d’appartenenza, fra molti imbarazzi, perché a volte pare di darli a carnefici
mentre altre volte i governi non sanno bene che cosa farne, perché tenerli in
prigione non c’è motivo –o magari c’è, ma s’ignora quale- e metterli subito in
libertà pare uno sgarbo agli Usa.
L’ultima idea
pare una toppa peggio del buco: mandarli nello Yemen, chiudere cioè la
Guantanamo di Cuba ed aprirne una nel Golfo. Una cosa da Ponzio Pilato, mica
una cosa dall’Obama del nuovo sogno americano. Come dire: “Di questi uomini,
io, Barack, noi, l’America, tutti noi, l’Occidente, ce ne laviamo le mani.
Incapaci di trattarli secondo giustizia, la nostra, li consegniamo a una
giustizia dubbia e ‘minore’, che tutti noi consideriamo, magari per
preconcetto, meno garantista della nostra, certo meno attenta alla tutela dei
diritti dell’uomo. Che ciascuno si chieda: compio un reato e posso scegliere se
finire in prigione negli Usa oppure nello Yemen; dove vado?
Senza contare
che, persino nell’interpretazione più bieca della protezione contro il
terrorismo, lo Yemen, per quanto le cose possano esservi mutate negli ultimi
anni –e ne sono solo in parte convinto-, resta uno stato poroso alle
infiltrazioni di al Qaida e dell’integralismo, letteralmente impregnato di
tentazioni terroristiche (non a caso, gran parte dei 186 di Guantanamo ne sono
originari). Gli Stati Uniti vi hanno giù subito attacchi, cominciando da quello
pre 11 Settembre 2001 all’incrociatore Cole all’ingresso nel porto di Aden.
Nel discorso di
Obama di giovedì, si riconosce a tratti il candidato 2006, anche se quest’uomo
invecchiato e ingrigito non ne ha più lo slancio e, forse, la convinzione
“Basta con la guerra al terrorismo illimitata”, dice proprio dopo l’attentato
di Londra che potrebbe indurre a toni opposti. E rimette la Cia a fare
intelligence, più che a compiere omicidi. Però, l’idea di ‘trasferire’
Guantanamo senza davvero chiuderla –e facendone pesare più il costo sul
bilancio che quello sulle coscienze- e la limitazione, ma non la sospensione,
dell’uso dei droni in missioni killer sono concessioni alla realtà e negazioni
del sogno.
Obama sa e dice
che, se combattiamo i terroristi violando le nostre stesse leggi, rischiamo di
tradire i nostri valori e finiamo con il fare il gioco dei terroristi. Però tra
il dire e il fare ci resta un mare: il presidente ribadisce l’impegno a chiudere
Guantanamo, ma aggiunge che riuscirci è “difficile”; e riconosce la discutibilità
dell’uso dei droni in missioni killer, ma non lo blocca.
Nessun commento:
Posta un commento