Scritto per EurActiv il 30/05/2012
L’ Europa di Barroso somiglia all’ Italia di Monti. E l’una e l’altra hanno in comune la difficoltà dei demiurghi a tradurre l’idea in realtà. Tra il dire e il fare, a Bruxelles come a Roma, non c’è di mezzo il mare, ma le resistenze di chi s’oppone al cambiamento; e, magari, la timidezza di chi lo propone, nei confronti degli Stati, Barroso, o nei confronti dei partiti, Monti.
Presentando, oggi, a Bruxelles, le raccomandazioni della Commissione ai 27 Paesi Ue sui piani di riforma nazionali e sui programmi di stabilità e convergenza, il presidente dell’Esecutivo, il portoghese Barroso, ha tracciato quelle che dovrebbero essere le prossime tappe dell’Unione europea verso la stabilità, la crescita e l’occupazione: attestazioni d’ottimismo (“I farmaci contro la crisi cominciano a fare effetto”); e parziali ‘satisfecit’ (“gli Stati hanno fatto molto per le riforme strutturali” e hanno avviato le finanze pubbliche “nella giusta direzione”). Ma anche messe in guardia, perché “il lavoro non è finito” e “bisogna andare avanti e farlo in fretta”; e, sulle riforme, serve fare di più di quel che è già stato fatto.
Il presidente Barroso lo dice dell’Unione; e il premier Monti lo direbbe dell’Italia. E lo sforzo per il risanamento delle finanze e per la correzione degli “squilibri importanti” che ancora sussistono sono solo una parte dell’opera: ci vuole, al Consiglio europeo di fine giugno, l’accordo sul Patto per la Crescita, che comprende il lancio dei project bond e l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse dei fondi strutturali e l’accettazione, da parte dei governi, che il bilancio dell’Unione è uno strumento per la ripresa e in tal senso va potenziato, non prosciugato.
Ma non basta. Barroso, che si dichiara “fiducioso” che la crisi sarà superata e che si vuole “ambizioso”, punta all’Unione economica, anche se poi esplicita obiettivi concreti significativi, ma non certo capaci di mobilitare le opinioni pubbliche (come il rafforzamento del ‘firewall’ anti-default o la garanzia europea sui depositi bancari). E il presidente chiede una maggiore “legittimazione democratica per le istituzioni europee” (c’è dietro il dibattito sull’elezione diretta di un presidente unico per il Consiglio e la Commissione).
I commissari che accompagnano il presidente nella sceneggiata al Berlaymont trovano accenti coraggiosi. Olli Rehn, finlandese, responsabile dell’economia, stimola “i Paesi con avanzi di bilancio” e con fardelli di debito leggeri a contribuire alla solidità dell’eurozona. Lazlo Andor, ungherese, responsabile degli affari sociali, punta il dito sulla disoccupazione giovanile e sui bassi livelli di occupazione femminile, specie in Italia; e insiste che ad aumenti di produttività corrispondano aumenti dei salari perché “la ripresa non ci sarà se la gente non avrà di che spendere”. Algirdas Semeta, lituano, responsabile della fiscalità, trova “logico” che ci sia “una tassazione della proprietà” e che essa “vada a favore della crescita”; e denuncia un’evasione europea da un milione di miliardi l’anno, all’insegna dell’ormai logoro “se tutti pagano tutti pagano di meno”.
Come non essere d’accordo con l’Europa di Barroso e con l’Italia di Monti, sane, eque, dove il merito è riconosciuto e lo sforzo premiato? Peccato che l’afflato si perda, o si stemperi, nelle alchimie dei rapporti di forza tra Paesi o tra partiti. A meno che non siano i cittadini a dare forza, credendoci, al concetto che “ci vuole più Europa e più integrazione” per essere più competitivi e per continuare a contare in un Mondo che Barroso vede tripolare nel XXI Secolo (Usa, Ue e Cina), forse trascurando il Polo dell’Energia e l’India e gli altri emergenti. L’alternativa a un’Ue più forte non è lo ‘statu quo’, ma è una frammentazione dell’Unione e una rinazionalizzazione delle politiche: senza passi avanti, si va indietro.
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